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Articoli e note

n. 2/2004 - © copyright

ANNALISA DI PIAZZA

I criteri di riparto delle competenze tra organi
politici e organi gestionali negli Enti locali

SOMMARIO: 1. Premessa – 2.  Il c.d. principio di separazione tra politica e gestione. Considerazioni critiche. – 3. Il problema della individuazione degli atti di gestione negli EE.LL. - 4. Il criterio proposto per l’individuazione della natura dell’atto: la discrezionalità amministrativa. – 5. Il ruolo della intermediazione statutaria nella determinazione del riparto di competenze. L’asimmetricità del principio di separazione – 6. Conclusioni.

1. Premessa.

Tutto l’attuale sistema amministrativo ruota intorno al principio cardine della separazione tra l’attività politica e di indirizzo e l’attività di gestione.

Intorno ad esso sono stati delineati i nuovi ambiti di competenza degli organi ed è stato riformulato il sistema delle responsabilità nonché disegnato il nuovo assetto organizzativo della pubblica amministrazione.

Al di là delle petizioni di principio e delle disquisizioni teoriche e dottrinali sulla opportunità di tale separazione, è importante capire quando un atto può definirsi gestionale e quando, invece, non lo è, di modo da poterne determinare adeguatamente l’organo competente alla sua adozione e il regime giuridico conseguente.

Sulla individuazione concreta del nocciolo ontologico dell’atto gestionale (o dell’atto non gestionale) si è scritto poco, in quanto l’analisi svolta dagli operatori del diritto si è limitata a dare, di volta in volta, la classificazione di singoli atti.

E’ mancato, invece, il tentativo di ricostruire un regola generale che permetta, a fronte di qualsiasi atto, di potere svolgere un ragionamento deduttivo che porti in modo più possibile univoco alla determinazione della natura dell’atto stesso.

2. Il c.d. principio di separazione tra politica e gestione. Considerazioni critiche.

Le tendenze degli anni recenti hanno inteso riequilibrare i ruoli dei diversi organi degli enti locali sulla base della distinzione tra politica e amministrazione, tra “poteri di indirizzo e controllo” riservati agli organi elettivi e “gestione amministrativa” attribuita ai dirigenti.

Le tappe normative di questo percorso sono ben note. Anche su questo punto sono stati gli enti locali a fungere da linea avanzata dell’innovazione amministrativa.

La distinzione tra politica e amministrazione è stata, infatti, sancita per la prima volta nell’art. 51 della legge 142/1990 che al comma secondo precisava che “spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l’adozione di atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, che la legge o lo statuto non riservino espressamente agli organi di governo”.

Pochi anni dopo il principio fu fatto proprio dall’art. 3 del D.Lgs. 29/93 che lo estese a tutte le pubbliche amministrazioni affermando che “gli organi di governo definiscono gli obiettivi e i programmi da attuare e verificano la rispondenza dei risultati della gestione amministrativa alle direttive generali impartite” mentre ai dirigenti, responsabili della gestione e dei relativi risultati, spetta in generale “la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa, compresa l’adozione di tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane e strumentali e di controllo”.

Il principio è stato poi ripreso e rafforzato dalla legge 127/97 (c.d. Bassanini bis) che ha provveduto a dare un’elencazione di una serie di provvedimenti la cui adozione è esplicitamente riservata ai dirigenti e dall’altro ha introdotto una disciplina che rende applicabile il principio anche nei comuni di minori dimensioni demografiche privi della dirigenza.

Del resto tutte le amministrazioni (ivi compresi gli enti locali) sono destinatarie dell’obbligo, espressamente sancito dal D.Lgs. 80/98 (art. 17, che inserisce nel D.lgs. 29/93 l’art. 27 bis) di adeguare i propri ordinamenti al principio di separazione “nell’esercizio della propria potestà statutaria e regolamentare […] tenendo conto delle relative peculiarità”.

Tutte queste disposizioni sono ora state trasposto nei D.Lgs. 267/2000 (c.d. Testo unico degli Enti Locali) e 165/2001 (c.d. Testo Unico sul Pubblico Impiego) ma hanno subito una non indifferente limitazione negli ultimi due anni.

La portata generale del principio è stata, infatti, prima ridimensionata dall’art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000 (legge finanziaria per il 2001) e, successivamente, ulteriormente limitata dall’art. 29, comma 4 della legge n. 488/2001 (legge finanziaria per il 2002) consentendo l’attribuzione ai componenti dell’organo esecutivo della responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare anche atti di natura tecnica gestionale.

La previsione dell’art. 53, nella originaria formulazione, era limitata ai comuni con meno di 3.000 abitanti e richiedeva, per l’applicazione della deroga, l’assoluta “mancanza non rimediabile di figure professionali idonee nell’ambito dei dipendenti”. Tale mancanza doveva essere riscontrata e dimostrata, previa analisi e verifica delle figure presenti in servizio e specificazione e motivazione della loro non idoneità allo svolgimento delle funzioni in questione. La norma richiedeva inoltre anche la dimostrazione del contenimento di spesa derivante dalla non erogazione delle indennità contrattuali previste per i soggetti individuati come posizioni organizzative. Il rigore della norma ha fatto ritenere che la deroga fosse possibile solo nei comuni nei quali il principio di separazione fosse stato attuato mediante conferimento delle relative funzioni al Segretario Comunale, o a personale esterno, in considerazione della mancanza di professionalità all’interno dell’ente, e della mancanza di risorse finanziarie per l’erogazione delle indennità. Diversamente, in presenza di personale già incaricato, si sarebbe infatti posto il problema di motivare l’assenza di professionalità idonee e, specialmente, di revocare il relativo provvedimento di nomina, rischiando altrimenti un possibile contenzioso davanti al giudice del lavoro.

In questo modo il legislatore sembrava finalmente avere preso atto che tutto l’impianto costruito trovava coerenza e fondamento su presupposti organizzativi che consentissero agli organi politici un corretto esercizio del c.d. spoil system .

Con questo termine si indicano quei sistemi che consentono di conferire incarichi dirigenziali che iniziano con il governo in carica e terminano con esso e che, dunque, consentono all’apparato politico di esercitare la propria discrezionalità nella scelta dell’apparto tecnico di supporto alla propria attività.

In questi sistemi, dunque, la dirigenza è considerata come uno dei principali ”strumenti” per la realizzazione degli obiettivi politici, per cui l’apparato di governo risponde, a fronte degli elettori, anche in relazione alla propria capacità di selezionare ed individuare uno staff efficiente e capace di raggiungere gli obiettivi dell’azione amministrativa.

Questo principio rende coerente il sistema di separazione tra politica e amministrazione perché riconduce ad una scelta discrezionale e fiduciaria la responsabilità per i meriti o i demeriti dello staff dirigenziale, ricostruendo la responsabilità politica anche come culpa in eligendo: in sostanza, se il dirigente si è rivelato non idoneo a gestire correttamente un determinato programma, la responsabilità è anche di chi lo ha incautamente incaricato..

Laddove questa scelta discrezionale non sia esercitatile un sistema rigido di separazione tra politica e amministrazione costringe, invece, gli organi di governo a rispondere per l’incapacità di un apparato che non hanno avuto il potere di nominare, organizzare o modificare.

Gli enti di piccole dimensioni demografiche sono notoriamente caratterizzati da una scarsità di organico che rende soltanto nominale e formale il potere di scelta del sindaco che si trova, molto spesso, a dovere nominare necessariamente certi dipendenti o che non ha sufficienti risorse e mezzi per fidelizzare i più meritevoli e si trova, quindi, a subire inopportuni turn over.

Con la disposizione della finanziaria del 2001, dunque, il legislatore ha riproposto quelle stesse riflessioni che stavano alla base del secondo comma dell’art. 19 del D.Lgs. 77/95 che consentiva, nei comuni con meno di 10.000 abitanti, oltre che nelle comunità montane, di affidare la responsabilità di uno o più servizi ai componenti della Giunta qualora l’ente non potesse in concreto disporre di adeguate professionalità nel proprio organico e detta situazione risultasse assolutamente non rimediabile.

Nell’attuale formulazione dell’art. 53 citato, come modificato dall’art. 29, comma 4 della legge finanziaria per l’anno 2002 n. 488/2001, il presupposto relativo all’assenza di professionalità all’interno dell’ente è stato, però, eliminato ed è stato mantenuto soltanto quello relativo al contenimento della spesa.

Sembra, cioè, benché questo aspetto sia passato in sordina, che il legislatore abbia fatto in parte proprie altre considerazioni critiche, magari sino ad oggi soltanto accennate e sussurrate, che conducono ad una profonda rimeditazione sulla natura del principio di separazione tra politica e gestione.

L’opzione teorica di fondo di tale principio, infatti, è rappresentato dalla visione di un modello di decisione razionale che confida “nel fatto che lo sviluppo delle scienze sociali e dell’economia sia in grado di relegare l’intervento della politica alle opzioni di fondo, rimettendo a giudizi tecnici tutti gli sviluppi successivi. La proposta di sistemi di programmazione a cascata, risponde esattamente a questo scopo. Vi è, alla base di questa posizione, un’opzione di tipo tecnocratico o ingegneristico, che tende a risorgere ogniqualvolta la sfera politica appare particolarmente delegittimata, inefficiente, o indirizzata verso scelte particolaristiche o poco lungimiranti” [1].

Il fatto che la maggioranza, se non la totalità, delle pronunce giurisprudenziali in materia di competenze degli organi comunali sia nel senso di leggere in maniera restrittiva la competenza della giunta ed in modo elastico e tendenzialmente ampliativo la competenza della dirigenza, dimostra che, in effetti, il principio di separazione tra politica e gestione non è stato costruito in modo neutro e semplicemente tecnico giuridico, ma risente fortemente di convinzioni di principio aprioristiche sulla base delle quali rappresenta in sé un valore assoluto la sottrazione di potere decisionale diretto agli organi politici a l’ampliamento della competenza dirigenziale.

Il principio in discorso è, dunque, il risultato di una rimeditazione di fondo dei rapporti tra organi elettivi ed organi burocratici sul presupposto che questi ultimi, tenuti ad operare “al servizio esclusivo della Nazione” (art. 98 cost.) e tendenzialmente in possesso di maggiori conoscenze tecnico-professionali siano quindi, in linea di massima, più idonei ad assicurare il rispetto dei canoni di buon andamento ed imparzialità nel perseguimento dei fini istituzionali.

Questa riflessione, che viene presentata come un assioma ed un postulato di base, non è peraltro sempre condivisibile o, quantomeno, non lo è in modo così assoluto ed incontrovertibile.

Nella letteratura scientifica e divulgativa anglosassone, ad esempio, la artificiale dicotomia fra amministrazione e politica si è venuta gradualmente estinguendo. A livello teorico, infatti, in questi paesi, si è fatta strada la tendenza a sottolineare l’interconnessione piuttosto che la separazione fra politica e amministrazione.

Già Simon [2] aveva ben messo in evidenza, con la teoria della razionalità limitata che l’Homo aeconomicus (o l’admistrative man) non pretende di ottenere il massimo dalla sua decisione, ma si accontenta di qualcosa che appaia good enough rispetto alle sue aspettative. Il decisore, quindi, finisce in sostanza per trasporre alla situazione da risolvere i propri schemi interpretativi e definisce e risolve il problema secondo la propria ottica, selezionando alcuni aspetti della realtà (a scapito di altri) come rilevanti per la decisione da prendere.

Attraverso queste analisi si è ormai dimostrato, quindi, che ciò che sembra detenere una natura amministrativa può di fatto essere di natura politica e che quanti prendono decisioni amministrative fanno ciò per precise motivazioni politiche, intendendo per esse specifiche strutture concettuali di analisi della realtà e di valutazione dei problemi

“Non è difficile arrivare a scoprire che anche le decisioni dell’imprenditore più monolitico (Simon 1985) emergono all’interno di un contesto interattivo e che i processi decisionali obbediscono tutti, in modo più o meno evidente, a una logica di tipo politico” [3].

Laddove, quindi, la separazione tra indirizzo e gestione è stata voluta e difesa sul presupposto che le decisioni prese dagli organi tecnici siano di fatto esenti da pressioni politiche di qualunque natura e prese unicamente in nome del pubblico interesse gli studi più recenti tendono, invece, a dimostrare che non è così. In realtà “queste artificiali separazioni fra funzioni politiche ed amministrative, piuttosto che sottrarre le decisioni ad un influenza di natura politica, possono in realtà esporre queste ultime a differenti e più insidiose forme di influenza politica” [4].

E’, pertanto, tutto da verificare se stia davvero nell'imparzialità la distinzione più profonda tra politica e amministrazione, tra l'azione del “governo” e l'azione dell'amministrazione in relazione, soprattutto, all'indissolubile collegamento esistente, pure nell'ambito degli enti locali, tra livello “amministrativo” e livello di “governo”.

Il principio di separazione, quindi, acquista una sua meritevolezza se letto, interpretato ed applicato in senso sostanziale e contenutistico, nel senso di ricondurre la decisione al soggetto più idoneo a svolgere quelle valutazioni necessarie per individuare la migliore soluzione o la migliore linea di azione in relazione ad una determinata realtà.

In questo senso il principio di separazione diventa uno dei criteri per costruire un riparto di competenze che sia veramente rispettoso di un analogo e coerente riparto di responsabilità. Soltanto in questo modo la separazione dei ruoli potrà non ridursi ad un mero meccanismo di deresponsabilizzazione della classe politica così come, prima della riforma, la non separazione si traduceva in una deresponsabilizzazione della classe dirigenziale.

3. Il problema della individuazione degli atti di gestione negli EE.LL.

Premesse queste necessarie considerazioni di ordine generale è possibile iniziare l’indagine ricostruttiva del contenuto ontologico dell’atto gestionale.

Il primo dato positivo da tenere in considerazione è rappresentato dalle norme contenute nel D.Lgs. 165/2001 (c.d T.U. sul pubblico impiego) e dal D.Lgs. 267/2000 (c.d. TUEL). Ambedue i testi unici sopra citati contengono disposizioni fondamentali per la delimitazione della categoria dell’atto gestionale.

Per quanto riguarda, in particolare, il D.lgs. 267/2000 le norme di riferimento sono rappresentate, in via principale, dall’art. 107 del TUEL, che dà una elencazione degli atti di competenza dirigenziale (e, dunque, sicuramente gestionali), nonché dall’art. 49, che disciplina le competenza della Giunta e dall’art. 42 che elenca in modo tassativo le competenze del Consiglio Comunale.

A fronte di una competenza consiliare precisamente enucleata, quindi, non esiste una disposizione che analogamente individui in modo altrettanto preciso gli ambiti di competenza della Giunta.

Per questa ultima, infatti, l’art. 49 TUEL prevede che “la Giunta compie tutti gli atti rientranti, ai sensi dell’art. 107, comma 1 e 2, nelle funzioni degli organi di governo, che non siano riservati dalla legge al consiglio e che non ricadano nelle competenze, previste dalla legge o dallo statuto, del sindaco o del presidente della provincia o degli organi di decentramento […]

Quindi, fatte salve le competenze tassative del Consiglio e quelle espressamente attribuite ai dirigenti dall’art. 107 TUEL rimane una zona grigia determinata non soltanto dal fatto che le competenze della Giunta sono individuate in via soltanto residuale ma, anche, dall’ulteriore considerazione che l’elenco dell’art. 107 è, per espressa previsione normativa[5], meramente esemplificativo.

Quid iuris, dunque, per quegli atti non espressamente qualificati come gestionali? Quale criterio può essere adottato in concreto per la delimitazione della categoria degli atti gestionali?

La demarcazione delle competenze tra gli organi dell’ente locale è, dunque, soltanto prima facie assai chiara, tanto che l’inquadramento in concreto dei singoli atti dell’una o dell’altra categoria si è presentato non di rado arduo e, spesso, controverso.

A titolo meramente dimostrativo basti ricordare, per cogliere la rilevanza del problema, alcune delle fattispecie che sono o sono state più controverse:

•Incarichi di progettazione e consulenza;

•Costituzione in giudizio;

•Transazioni;

•Erogazione contributi;

•Approvazione progetti esecutivi;

•Rinnovi contrattuali.

Il problema preliminare che si è dovuto affrontare a fronte dei casi problematici è stato, però, non tanto la risoluzione del problema, ma l’individuazione del criterio attraverso il quale giungere a tale risoluzione.

La giurisprudenza amministrativa ha ritenuto, prevalentemente, che la individuazione degli atti che possono essere considerati manifestazione di attività di indirizzo e controllo possa essere fatta attraverso un metodo empirico che si affidi ad un vaglio analitico delle normative di settore.

Questo criterio “normativo”, però, ha dimostrato, il più delle volte, la sua inadeguatezza tanto che gli stessi riferimenti testuali sono stati usati a sostegno di tesi diametralmente opposte. Tale criterio, inoltre, si dimostra del tutto inadeguato in considerazione della disposizione di cui all’art.107, c.5, del TUEL in base alla quale le disposizioni che conferiscono agli organi di governo l’adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi, si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti.

Pertanto, a fronte di disposizioni più datate che attribuiscono agli organi di governo competenze di vario tipo, è necessario dotarsi di un adeguato criterio esegetico per distinguere quali tra queste competenze abbiano natura gestionale e quali siano, invece, diversamente qualificabili.

In mancanza di un adeguato criterio interpretativo si è, inevitabilmente,giunti, in molti casi, a soluzioni diverse pur rimanendo incontestato l’assunto iniziale per cui vanno esclusivamente ai dirigenti gli atti di pura gestione.

Ciò che è evidentemente mancato, in tutte le argomentazioni proposte, è il tentativo di ricostruzione di un parametro interpretativo generale che valga stabilire cosa è “gestione” e cosa no, e, quindi, cosa può essere attribuito all’organo politico e cosa invece deve considerarsi di esclusiva competenza dei dirigenti.

4. Il criterio proposto per l’individuazione della natura dell’atto: la discrezionalità amministrativa.

L’azione della p.a., secondo l’insegnamento tradizionale, si sostanzia nella cura concreta degli interessi pubblici, selezionati dalla legge ed affidati da questa ad un prefissato centro di potere pubblico.

Quando la legge lascia all’autorità amministrativa un certo margine di apprezzamento in ordine a taluni aspetti (an, quid, quomodo e quando) della decisione da assumere, si parla di discrezionalità amministrativa.

Si suole dire che il potere discrezionale si risolva in una ponderazione comparativa di più interessi secondari in ordine ad un interesse primario.

In definitiva il pubblico potere, dopo avere acquisito i dati necessari ed utili (c.d. elemento cognitivo) può scegliere (c.d. elemento valutativo) tra più comportamenti, tutti in astratto ugualmente possibili e giuridicamente consentiti, quello maggiormente conforme alla dimensione degli eterogenei interessi concretamente coinvolti, nell’ottica del perseguimento dell’interesse pubblico prevalente.

Il giudizio di opportunità che presiede alla scelta tra le diverse misure possibili (cioè idonee al perseguimento dello scopo primario) può essere operato sulla scorta di opzioni favorevoli a determinati interessi secondari piuttosto che ad altri.

Ciò non significa, però, che l’autorità possa, nell’esercizio del potere discrezionale, scegliere fra le diverse misure possibili in assoluta libertà, privilegiando qualsivoglia interesse che per qualsivoglia ragione essa abbia a cuore.

Gli interessi privilegiati ai fini della scelta del provvedimento più opportuno nel caso concreto devono essere compresi nella rosa di interessi che all’autorità è permesso (o eventualmente prescritto) di prendere in considerazione e di ponderare.

L’individuazione dell’interesse da perseguire e realizzare rappresenta la imprescindibile scelta di valore che sta alla base di ogni decisione amministrativa.

A fronte di un fatto concreto è possibile effettuare diverse scelte di modo che, per selezionarne una e scartare le altre, è necessario orientare il proprio agire sulla base di un valore di base, rappresentato, appunto, dall’interesse concreto che, tra i vari interessi configgenti, si intende perseguire.

Le considerazioni di valore non consistono, dunque, “in considerazioni partitiche o partigiane, ma in opzioni, scelte di carattere generale, che orientano i processi decisionali dei soggetti dell’ordinamento legittimati alla funzione normativa.

Sicchè, non è scandaloso sostenere che le considerazioni di valore sono dotate di una intrinseca politicità, se per politicità intendiamo (come riteniamo debba intendersi) un’attività di libera creazione di fini e valori, a cui successivamente l’intero apparato ordinamentale è tenuto a conformarsi” [6].

Posto che l’interesse da realizzare attraverso l’agire amministrativo non può che essere l’interesse pubblico, il valore ad esso sotteso non può che essere quello individuato, per il principio di rappresentatività alla base del sistema elettorale vigente, dagli organi politici. In modo assolutamente coerente, dunque, l’ordinamento individua negli organi politici i soggetti legittimati in via generale all’individuazione dell’interesse da perseguire in quanto questi, in un ordinamento democratico, sono per definizione portatori della collettività che rappresentano.

Sono diversi i possibili luoghi di estrinsecazione dei valori di base: possono essere strettamente normativi (es. norma statale, regionale, statutaria o regolamentare) [7], oppure possono essere rappresentati da atti di natura diversa (linee di mandato, relazione revisionale e programmatica, atti di indirizzo ecc.).

In linea di massima, pertanto, la competenza gestionale va affermata laddove l’atto sia susseguente e attuativo di scelte di valore già assunte ed individuate in atti normativi, programmatrici o di indirizzo mentre, al contrario, andrà esclusa la competenza gestionale ove l’atto, per le sue caratteristiche, non trovi precostituiti gli elementi di cognizione di base o abbia a fondamento soltanto un convincimento intimo basato su elementi non oggettivizzabili a priori [8].

La discrezionalità amministrativa, pertanto, per quanto ampia che possa essere, è sempre riducibile ad un sillogismo che ha nelle sue premesse scelte di valore predefinite e prestabilite e consiste, dunque, in una valutazione basata su criteri eteronomi in quanto frutto di scelte di valore operate dall’organo politico.

5. Il ruolo della intermediazione statutaria nella determinazione del riparto di competenze. L’asimmetricità del principio di separazione.

Con la nota sentenza 15 novembre 2001 n. 5833 il Consiglio di Stato aveva affermato che il nuovo riparto di competenze delineato dall’applicazione del principio di separazione tra politica e gestione “deve ritenersi immediatamente precettivo per le amministrazioni locali, essendo fondato sulla concezione del riparto tra compiti di governo di indirizzo e coordinamento (spettanti agli organi elettivi o a quelli, ancorché non elettivi, ripetono dai primi la legittimazione ad operare, quali gli assessori di giunta comunale e provinciale) e quelli di gestione (affidati in via esclusiva alla dirigenza dello stesso ente) che costituisce struttura fondante dell’intera riforma delle autonomie locali e, poi, del sistema del lavoro nelle pubbliche amministrazioni, come testimonia il decreto legislativo 3 febbraio 1993 n. 29, articolato anch’esso sulla stretta ripartizione tra attività di indirizzo e controllo di natura politica e di gestione”.

Nella medesima sentenza, pertanto, il C.d.S. affermava che l’immediata precettività del nuovo riparto di competenze “si deduce altresì dalla coerenza delle mansioni conferite ai dirigenti con la loro responsabilità per l’andamento degli uffici, quest’ultima certo non incidibile da prescrizioni statutarie, (C.d.S., V, 5 maggio 1999 n. 505) nonché dalla inidoneità dello statuto dell’ente di ripartire i compiti di gestione tra le diverse figure professionali presenti nell’ente al di fuori degli ambiti già precisati dalla legge 142 del 1990 (C.d.S., V, 27 agosto 1999 n. 1004).”

Questa interpretazione è stata di recente stravolta dalla sentenza della medesima sezione del C.d.S. 23 giugno 2003 n. 3717 in tema di competenza di dirigenti, nella quale si nega la immediata precettività del nuovo riparto di competenze sulla base di una interpretazione letterale della legge che fa riferimento ad interventi statutari e regolamentari.

In realtà la dizione “forte” della norma di legge, l’utilizzazione del verbo all’indicativo presente (“spetta”, “spettano”, “sono attribuiti”), il quadro normativo dell’intera riforma del pubblico impiego, fanno capire che la volontà del legislatore è sicuramente quella di far discendere da quel disposto di legge un preciso precetto che ha – deve avere – un contenuto immediatamente operativo. […] [9].

Il dato testuale sopra citato, dunque, non vale tanto ad affermare la necessità di una intermediazione statutaria quanto la possibilità di tale intermediazione.

Questa possibilità, però, va correttamente intesa. L’intermediazione statutaria o regolamentare, infatti, non si traduce in un potere di qualificazione dell’atto, in quanto la natura gestionale o non gestionale di un atto, sulla base del criterio fin qui esposto, è una qualità oggettiva che non può, in alcun modo, essere relativizzata.

Sulla base dei dati normativi e delle considerazioni di ordine generale sopra svolte si può, però, ritenere che mentre gli atti espressamente gestionali non sono riconducibili agli organi politici è, invece, possibile che questi ultimi scelgano di spogliarsi di alcuni ambiti decisionali riconducendoli alla dirigenza.

Ciò significa che nell’ambito dell’esercizio dei propri poteri normativi gli organi politici di un ente locale possono ben valutare di ricondurre alla dirigenza la formulazione di alcuni giudizi di valore che stanno a base degli atti di alta amministrazione.

Il principio di separazione dettato dal legislatore con riferimento agli enti locali è, cioè, da leggere come un principio “zoppo”, nel senso di una non ampliabilità della competenza degli organi politici a fronte, invece, di una forte elasticità espansiva della competenza dirigenziale.

Le competenze dirigenziali possono, pertanto, al limite essere incrementate ma non diminuite, come sottolinea la sentenza del TAR Puglia – Bari, Sez. II, 23 marzo 2000, n. 1248 [10].

In via statutaria, dunque, la competenza della Giunta Comunale potrebbe essere limitata in modo da ricondurre ad organi burocratici (direttore generale, dirigenza) degli ambiti di materia ulteriori rispetto allo “zoccolo duro” rappresentato dalla elencazione dell’art. 107.

In questo modo la norma statutaria o regolamentare autorizza l’organo di gestione a compiere scelte di valore autonome e come tali basate su proprie preferenze in senso lato politiche, facendosi attributiva di un potere che altrimenti non spetterebbe.

Gli argomenti che sostengono questa interpretazione derivano da una lettura sistemica del principio di separazione tra politica e gestione che trova uno dei suoi presupposti logico giuridici nel rapporto di fiduciarietà che, nel nuovo ordinamento, lega i responsabili agli organi politici come diretta emanazione del sistema di “spoil” delineato dal legislatore.

Gli organi politici possono, pertanto, ritenere di affidare alla dirigenza anche determinate scelte di valore laddove ritengano, in virtù del rapporto fiduciario, che questa sia portatrice di strutture cognitive, razionalità e logiche di azione del tutto omogenee alle proprie.

Tale scelta ampliativa della competenza dirigenziale può avvenire per due vie. Da un lato può essere contenuta in atti ad efficacia tendenzialmente limitata nel tempo quali i singoli decreti di nomina o specifici atti di indirizzo. In questo caso, però, le competenze aggiuntive alla sfera tipica della dirigenza, a parere di chi scrive, risulterebbero più propriamente eserciate a titolo di delega. Dall’altro può rispondere ad un preciso disegno organizzativo dell’ente ed in questo senso non può che essere contenuto nello statuto. In questo senso le competenze aggiuntive non sarebbero più gestite in virtù di una delega, ma diventerebbero proprie della sfera dirigenziale per un meccanismo di autoritrazione volontaria degli organi politici.

In questo senso, dunque, può e deve essere letto il ruolo dell’intermediazione statutaria.

6. Conclusioni

L’analisi della giurisprudenza e le posizioni di certa dottrina mostrano in gran parte, che il problema della natura gestionale o meno di un atto è per lo più stato affrontato e risolto sulla base di asserzioni a aprioristiche la cui verità si fonda unicamente su certe proprietà sintattico semantiche del linguaggio in cui sono formulate.

Il più delle volte, cioè, si afferma che un atto è di competenza dirigenziale in quanto gestionale.

Ma, fintanto che non venga indicato con chiarezza il criterio in base al quale considerare l’atto gestionale, le argomentazioni di questo tipo si riducono in asserzioni non puramente logiche che, non esistendo per le stesse un metodo di verifica, sono in realtà prive di significato

Pertanto, le affermazioni per cui si afferma che “se tutti gli atti gestionali sono di competenza dirigenziale e l’atto in esame è gestionale, allora l’atto in esame è di competenza gestionale” sono profondamente viziate sotto il profilo logico interpretativo

La qualificazione di una fattispecie, infatti, non può che essere genuinamente scientifica, cioè provvista di significato conoscitivo, solo se è in qualche modo riconducibile ad un concetto generale di riferimento.

Il sillogismo qualificatorio di un atto come gestionale o come non gestionale, per non ridursi ad una enunciazione meramente formale, deve pertanto partire da un “definizione” dell’atto gestionale che possa rappresentare il contenuto concettuale della premessa maggiore del sillogismo.

Occorre, cioè, potere rispondere alla domanda “perché quest’atto è gestionale?”, ed occorre rispondere con argomentazioni non tautologiche che non invertano i termini di causa ed effetto. Un atto non può essere qualificato gestionale perché di competenza dirigenziale, ma sarà attribuito alla competenza dirigenziale perché avente natura gestionale.

Non per niente alla base della teoria logica del significato delle espressioni linguistiche sta il concetto di “estensione”. L’estensione è il riferimento oggettuale esterno delle espressioni linguistiche. Così come l’estensione di un nome è l’individuo concreto da esso indicato, così l’estensione di una proprietà è la classe di insieme o di oggetti che portano a quella proprietà.

Pertanto, individuato nella predeterminazione del volere da realizzare la proprietà degli atti gestionali, saranno da attribuire alla competenza dirigenziale quella classe o insieme di atti che possiedono questa proprietà.

Laddove, invece, tale predeterminazione manchi l’atto non può, e non deve, essere definito gestionale e attribuito alla competenza della dirigenza, a meno che non sia lo stesso organo politico a decidere di autolimitare la propria competenza per ampliare quella dirigenziale.

D’altra parte è pacifico che i valori perseguibili da una determinata società e in un determinato momento storico sono, comunque, relativi e mutevoli.

Alcuni valori rivelano maggiore utilità di altri e di qui il compito fondamentale degli organi politici, in rappresentanza della collettività che rappresentano, di individuare la soluzione con più forza e valore sulla soluzione di minor valore, sulla base della maggiore o minore desiderabilità da parte dei consociati [11], ed il compito della dirigenza di realizzare quel valore nel miglior modo possibile in termini di efficacia, economicità ed efficienza.


 

[1] L. Bobbio –   La democrazia non abita a Gordio – Studio sui processi decisionali politico – amministrativi. – Franco Angeli editore- Milano, 1996.

[2] Simon H.A. – Il comportamento amministrativo – Ed. Il Mulino.

[3] L. Bobbio, op. cit.

[4] B. Guy Peters – La Pubblica Amministrazione – Un’analisi comparata – Ed. Il Mulino

[5] La norma, infatti, stabilisce che ai dirigenti sono attribuite “in particolare” le funzioni elencate, lasciando chiaramente intendere che tale elencazione può essere integrata ed ampliata.

[6] V. Pedaci – Note sul problema del valore nella metodologia del diritto pubblico e sua intrinseca politicità – In Nuova rassegna n. 6/2003

[7] E’ importante  ricordare come, sotto questo aspetto, possano innescarsi, per la loro rilevanza, tutte le tematiche legate alla nuova scala gerarchica delle fonti normative delineata dal titolo V della costituzione.

[8] La stessa giurisprudenza amministrativa ammette una tale categoria di atti laddove, in diverse pronunce, fa riferimento ad una discrezionalità che non è “puramente amministrativa” proponendo, implicitamente, un criterio distintivo fondato su un apprezzamento circa la latitudine della discrezionalità.

[10] Citata da L. Olivieri, Statuto comunale e sanzioni amministrative, in Lexitalia.it – Articoli e note n. 12-2000.

[11] Per Nietzsche ogni società organizza la propria esperienza storica in base a tavole di valori che essa giudica rilevanti e fondamentali e che sono il frutto, in realtà, di scelte “vitali” ispirate dalla “volontà di potenza”. Per Ehrenfels (Teoria sistematica del valore, 1897) il valore si misura in base alla sua desiderabilità.


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