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Articoli e note

n. 5/2007 - © copyright

SANTI DELIA

Ancora sull’affidamento in house: gli sforzi della “nostra” giurisprudenza
e “le regole generali del diritto comunitario”

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1. Con due recenti pronunce, entrambe pubblicate in questa Rivista, il Consiglio di Stato (Sez. VI, sentenza 3 aprile 2007 n. 1514) ed il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana (sentenza 27 ottobre 2006 n. 589)  hanno avuto modo di affermare innovativi e, per certi versi, inaspettati principi in materia di affidamento di lavori e servizi in house.

Com’è noto, l’espressione in house providing [1] identifica la possibilità di “autoproduzione” da parte della p.a. di beni e servizi all’interno della propria struttura organizzativa senza ricorrere a “terzi” [2] tramite l’attivazione delle obbligatorie procedure ad evidenza pubblica. La scelta della p.a tra il sistema dell’affidamento all’esterno ricorrendo all’offerta di mercato e l’opposto modello della produzione in house dovrebbe essere preceduta dalla comparazione degli obiettivi pubblici che l’ente intende perseguire (anche in ragione dei tempi necessari, delle risorse umane e finanziarie impiegabili e da impiegare per l’ottenimento degli stessi [3]), in base ai principi del cd. “best value” [4].

Assai delicato [5] è, dunque, l’equilibrio tra il legittimo [6] ricorso al sistema dell’autoproduzione “fai da te” di beni e servizi ed i principi generali stabiliti dal Trattato delle Comunità Europee (a tutela della concorrenza e del mercato ed a presidio della garanzia della massima trasparenza in materia di affidamento e stipulazione di contratti pubblici) e dall’ordinamento nazionale (in tema di imparzialità e trasparenza dell’azione amministrativa).

La giurisprudenza, sulle orme dell’ormai epocale sentenza “Teckal” [7], ha affermato che per un legittimo affidamento in house è necessario che concorrano le seguenti due condizioni:

a) l’amministrazione aggiudicatrice deve esercitare sul soggetto affidatario un “controllo analogo” [8] a quello esercitato sui propri servizi;

b) il soggetto affidatario deve svolgere la maggior parte della propria attività in favore dell’ente pubblico di appartenenza [9].

La ratio appare chiara: in ragione della sussistenza di entrambi gli elementi, l’ente in house non dovrebbe ritenersi terzo rispetto all’amministrazione appaltante (e controllante), bensì considerasi come longa manus [10] dell’amministrazione stessa.

La prima delle due condizioni viene soddisfatta da un elemento necessario [11], ma non ancora sufficiente ad ottenere irremovibili garanzie di “inquinamento”: il capitale sociale dell’affidataria in house deve essere totalmente pubblico. La presenza del partner privato nella compagine sociale, infatti, introdurrebbe, ipso facto, potenziali interessi inconciliabili con il pieno dispiegamento del potere di intervento e direzione del socio pubblico necessario affinché possa configurarsi il requisito del “controllo analogo”. In atto o in potenza, il rischio c’è e va scongiurato ab origine.

Accanto alla totale partecipazione pubblica di cui si è dato conto, inoltre, la più recente giurisprudenza [12] ha ritenuto necessaria la persistenza di maggiori strumenti di controllo da parte dell’ente pubblico rispetto a quelli previsti dal diritto civile. In particolare:

- il C.d.A. della società in house non dovrà avere rilevanti poteri gestionali e l’ente pubblico dovrà poter esercitare maggiori poteri rispetto a quelli che il diritto societario [13] riconosce alla maggioranza sociale;

- l’impresa non dovrà aver “acquisito una vocazione commerciale che rende precario il controllo” [14] dell’ente pubblico e che può risultare, tra l’altro, dall’ampliamento dell’oggetto sociale, dall’apertura obbligatoria della società ad altri capitali, dall’espansione territoriale dell’attività della società stessa a tutto il territorio nazionale e all’estero;

- le decisioni più importanti dovranno essere sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante [15].

Solo ove sussistano entrambi i requisiti di cui si è detto, dunque, potrebbe procedersi all’affidamento diretto nei confronti della controllata senza incorrere in violazione delle norme comunitarie.

2. Il caso sottoposto al vaglio dei giudici di Palazzo Spada e qui commentato riguardava l’impugnazione di alcune deliberazioni del Comune di Roma con le quali erano stati affidati direttamente alla Società Zetema, interamente partecipata dal medesimo ente locale committente, “una rilevante parte degli interventi di manutenzione ordinaria e di restauro dei beni culturali, nonché delle attività di progettazione dei lavori pubblici relativi ai beni culturali della” Capitale.

A differenza di altri casi precedentemente decisi dalla giurisprudenza, tuttavia, in quello di specie non era in contestazione che lo statuto di Zetema (come detto, divenuta società a partecipazione totalitaria pubblica) integrasse i suddetti requisiti, “essendo previsto quel particolare e più penetrante controllo da parte del Comune di Roma, richiesto dalla citata giurisprudenza comunitaria”. La questione da risolvere, invece, riguardava la possibilità per il Comune di Roma di “affidare a Zetema oltre ai servizi di valorizzazione dei beni culturali, anche lavori di manutenzione e restauro, compresa la progettazione”.

Ebbene il Consiglio di Stato, con motivazione assolutamente condivisibile, confermando la pronuncia di primo grado [16], ha definitivamente chiarito come “l’affidamento diretto non potesse concernere che il servizio relativo alla valorizzazione, e non anche, in difetto di specifiche norme derogatrici, le attività di progettazione, conservazione e manutenzione, affidate con la deliberazione n. 663/2005. Tali attività non sono sicuramente ascrivibili alla valorizzazione, con la conseguenza che non potevano essere affidate in house in assenza di espressa disposizione di legge, idonea a consentirlo”.

La decisione appare conforme al principio, già più volte ribadito dalla giurisprudenza comunitaria e richiamato dagli stessi decidenti, secondo cui i requisiti dell’in house providing, costituendo un’eccezione alle regole generali del diritto comunitario, devono essere interpretati restrittivamente (da ultimo anche Corte di Giustizia, 6 aprile 2006, C-410/04)[17]”. L’in house, dunque, non costituisce un principio generale [18], prevalente sulla normativa interna, ma una possibilità derogatoria di carattere eccezionale che consente, e non obbliga, i legislatori nazionali a prevedere tale forma di affidamento.

Nel nostro ordinamento, l’affidamento in house è spendibile per la gestione dei servizi pubblici e, più precisamente, per tutti quei cd. servizi speciali di cui alla Parte III del Codice dei contratti, oltre che in diverse altre “particolari” materie[19]. In mancanza di una norma ad hoc, dunque, la scelta per l’affidamento in house sarà preclusa a monte.

Una norma di carattere generale, d’altra parte, era stata proposta nel primo schema del codice dei contratti, ma, a conferma della volontà del legislatore di non generalizzare il modello dell’in house a qualsiasi forma di affidamento di servizi, di lavori, o di forniture, non è stata poi inserita nel testo finale [20].

3. Il caso sottoposto al vaglio dei giudici siciliani riguardava l’impugnazione di diversi atti del Consorzio ambito territoriale ottimale 2 - Acque Catania e della Provincia regionale di Catania, aventi ad oggetto l’affidamento del servizio idrico integrato [21] ad una società mista con prevalente capitale pubblico, costituita ai sensi dell’art. 113 comma 5 lett. b) del D. Lgs. n. 267/2000, previa individuazione con selezione ad evidenza pubblica del partner privato [22].

Com’è noto, la predetta disposizione (come sostituita dall’art. 14 del decreto legge 30 settembre 2003, n. 269 [23]) stabilisce che “l'erogazione del servizio avviene secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa dell'Unione europea, con conferimento della titolarità del servizio: (…) b) a società a capitale misto pubblico privato nelle quali il socio privato venga scelto attraverso l'espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di concorrenza secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche”.

         Secondo gli appellanti (già ricorrenti in primo grado [24]), tuttavia, nella specie, “non vi erano i presupposti per l’affidamento diretto del servizio alla società mista S.I.E., ancorchè fosse prevista per la individuazione del socio privato una procedura ad evidenza pubblica”. Per la verità, qualche tempo prima della pronuncia in commento [25], i giudici di Palazzo Spada, in conformità a quanto deciso dal T.A.R. catanese con la sentenza appellata, avevano ritenuto legittimo l’affidamento diretto alla precostituita (ad hoc) società mista, anche in ragione del fatto che l’evidenza pubblica aveva governato la scelta del partner privato nella fase antecedente la costituzione.

Viceversa, “il Collegio, con la pienezza dell’approfondimento normativo demandata al giudice”, va oltre il dato normativo, ritenendo “doversi pervenire ad una interpretazione restrittiva, se non addirittura disapplicativa [26], dell’art. 113 comma 5 lett. b), nel senso che la costituzione di una società mista, anche con scelta del socio a seguito di gara, non esime dalla effettuazione di una seconda gara per l’affidamento del servizio”. Aderendo ad una diversa interpretazione, d’altra parte, si configurerebbe “una restrizione del mercato e della concorrenza rappresentata dall’obbligo per l’imprenditore di conseguire l’affidamento di un servizio, solo entrando in una società, per molti versi anomala, con l’amministrazione”.

Gli argomenti addotti appaiono tanto innovativi quanto conformi alle indicazioni della più recente giurisprudenza, tanto da far ritenere superate le posizioni del Consiglio di Stato di qualche anno addietro, secondo cui, negando la possibilità dell’affidamento diretto alla società mista allo scopo costituta“la costituzione di tali società non avrebbe alcuna pratica utilità, mentre la procedura ad evidenza pubblica per l’affidamento dei singoli servizi costituirebbe un’inutile duplicazione di un procedimento già esperito” [27].

Oltre a quanto precedentemente argomentato in merito all’evidente distorsione della concorrenza operata da un sistema che sembra voler dire all’imprenditore “o con me o nulla”, la procedura di evidenza pubblica per la scelta del socio risponde ad una ratio assolutamente diversa dal successivo affidamento del servizio. I giudici siciliani, infatti, non hanno mancato di evidenziare che “la prima è preordinata alla selezione del socio privato in possesso dei requisiti non solo tecnici ed organizzativi, ma anche e soprattutto finanziari, tali da assicurare l’apporto più vantaggioso nell’ingresso nella compagine sociale; la seconda è invece esclusivamente diretta alla scelta del soggetto che offra maggiori garanzie per la gestione del servizio pubblico”.

Appare sin troppo evidente, invero, che il sistema di affidamento diretto alla società mista concreterebbe, nella sostanza, un affidamento in house [28], in assoluto contrasto con i principi comunitari e ciò per un chiarissimo, quanto “impercettibile”, dato di fatto. La componente privata, seppur scelta mediante pubblico incanto, resta all’interno della compagine sociale “inquinandola” a tal punto da escludere, in radice, la possibile deroga all’evidenza pubblica.

Secondo un recente parere del Consiglio di Stato [29], tuttavia, “le ragioni poste a sostegno di tale tesi – pur se tutte condivisibili – possono tuttavia condurre a conclusioni differenti da quella dell’obbligo, in ogni caso, di una seconda gara”. Ma come si riescono a spiegare risultati differenti con condivise idee comuni alla partenza? Presto detto. Secondo i giudici di Palazzo Spada “l’evoluzione giurisprudenziale consente di escludere, in via generale, la riconducibilità del modello organizzativo della ‘società mista’ a quello dell’in house providing [30].

L’enucleazione del modello della società mista dall’archetipo dell’affidamento in house [31], per quanto più da vicino interessa ai fini del presente commento, “non implica, di per sé, la esclusione automatica della compatibilità comunitaria della diversa figura della società mista a partecipazione pubblica maggioritaria in cui il socio privato sia scelto con una procedura di evidenza pubblica”. Per capire, allora, quali principi debbano essere rispettati per ritenere legittimo “l’affidamento con procedura di evidenza pubblica” dell’attività “operativa” della società mista al partner privato, dovrà sempre aversi riguardo “alla stregua dei rigorosi principi dettati dalla Corte di Giustizia (sull’in house, ma non solo) ma senza poter contare, allo stato, su una indicazione specifica in termini” [32].

Proprio riferendosi alla decisione dei giudici siciliani in commento, il Consiglio di Stato, nel tentativo di individuare una soluzione che non sia “disapplicativa” [33] della normativa nazionale, ritiene non plausibile l’ipotesi “secondo la quale sarebbe necessaria l’indizione, da parte dell’amministrazione, di una(unica n.d.r.) gara nella quale lo stesso soggetto pubblico aggiudicatore possa anche partecipare come socio (addirittura maggioritario) della società mista aspirante aggiudicataria”. Come uscire allora dall’empasse?

La soluzione ideata dai giudici di Palazzo Spada ritiene “possibile l’affidamento diretto ad una società mista che sia costituita appositamente per l’erogazione di uno o più servizi determinati, da rendere almeno in via prevalente a favore dell’autorità pubblica che procede alla costituzione, attraverso una gara che miri non soltanto alla scelta del socio privato, ma anche – tramite la definizione dello specifico servizio da svolgere in partnernariato con l’amministrazione e delle modalità di collaborazione con essa – allo stesso affidamento dell’attività da svolgere e che limiti, nel tempo, il rapporto di partnernariato, prevedendo allo scadere una nuova gara [34].

La “delimitazione”, grazie all’esistenza di un’unica gara che con la scelta del socio definisca anche l’affidamento del servizio “operativo”, almeno secondo le speranze dei giudici di Palazzo Spada, non dovrebbe pregiudicare l’obiettivo di una concorrenza libera ed il principio della parità di trattamento degli interessati contemplato dalla direttive 92/50, giacchè “la presenza di un ‘interesse privato’ appare, nel caso in esame, ricondotta entro limiti corretti (e propri di tutti gli affidamenti in appalto) se la gara definisce con sufficiente precisione anche il ruolo ‘operativo’ e non ‘finanziario’ del socio privato da scegliere”.

4. Le conclusioni del Consiglio di Stato (“i requisiti dell’in house providing, costituendo un’eccezione alle regole generali del diritto comunitario, devono essere interpretati restrittivamente”), del C.G.A. (“il sistema di affidamento diretto alla società mista (…) concreterebbe nella sostanza un affidamento in house al di fuori dei requisiti richiesti dal diritto comunitario”) e, da ultimo, i propositi correttivi all’“estrema ipotesi” [35] paventata dai giudici siciliani, nella speranza di dar vita ad una lettura dell’art. 113, lett. b), T.U.E.L. conforme al diritto comunitario [36], sembrano giungere ad un punto di contatto importante.

Tutte le posizioni, infatti, prendendo le mosse dai principi anche da ultimo ribaditi dalla Corte di Giustizia [37], ottengono, seppur con evidenti distinguo per la diversità dei temi trattati, il medesimo obiettivo. Nate con premesse assolutamente differenti, forse inconsapevolmente conclusesi con la medesima volontà: la difesa dei principi comunitari di massima concorrenza [38], anche a scapito dei delicati equilibri dei nostri poveri enti locali.


 

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[1] L’espressione in house è utilizzata per la prima volta nel Libro bianco del 1998 con il quale la Commissione Europea, relativamente al settore degli appalti pubblici, ha specificato il concetto di “appalti in house” come “quelli aggiudicati all’interno della pubblica amministrazione, ad esempio tra amministrazione centrale o locale o, ancora, tra un’amministrazione e una società da questa interamente controllata”. Sul punto si veda C. Alberti, Appalti in house, concessioni in house ed esternalizzazione, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2001, n. 3-4, 495 e ss, ed ivi, in particolare, note 46 e 47.

[2] Il modello contrapposto a quello dell’in house providing è il cosiddetto outsourching o contracting out, in cui la p.a. si rivolge al privato esternalizzando l’esercizio stesso dell’attività amministrativa o, più semplicemente, il reperimento delle risorse necessarie al suo svolgimento.

[3] Sui principi che più in generale regolano le scelte discrezionali di ogni amministrazione pubblica si veda D. Casalini, L’organismo di diritto pubblico e l’organizzazione in house, Napoli, 2003, 281 e ss.

[4] Nel sistema inglese il “Best Value Performance Plan” (successivamente al Local Government Act del 1999 “Best Value audit & inspections” e, soprattutto, al “Local Government Act”) è un documento che tutti gli enti locali inglesi sono tenuti a pubblicare, al pari del bilancio di esercizio (consuntivo), e che, come dice la sua denominazione, rappresenta un’analisi delle performance realizzate e di quelle obiettivo, messe a confronto con quelle medie del comparto.

[5] Cfr. in tal senso D. Casalini, op. cit., secondo cui la giurisprudenza comunitaria sull’in house providing rappresenta il tentativo di armonizzare i principi a tutela della concorrenza presenti nel Trattato CE, con il potere di auto-organizzazione parimenti riconosciuto alle amministrazioni pubbliche degli Stati membri.

[6] Com’è noto, a seguito della novella recata all’art. 113 del D.Lgs. n. 267/2000, dall'art. 14, c. 1, del D.L. 30 settembre 2003 n. 269, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 novembre 2003 n. 326, la p.a. è sostanzialmente libera di scegliere, relativamente alla gestione dei servizi pubblici, tra l'affidamento mediante procedure d’evidenza pubblica e l'affidamento in house (s.p.a. a capitale interamente pubblico).

[7] Corte Giust., 18 novembre 1999, C-107/98, Teckal Srl c. Comune di Viano e Azienda Gas – Acqua Consortile (AGAC) di Reggio Emilia, in Urb. e app., 2000, 227.

[8] Sull’evoluzione del concetto di “controllo analogo” dopo la già citata sentenza Teckal, si vedano, tra le tante, Corte Giust., 11 gennaio 2005, C-26/03, Stadt Halle e RPL Lochau, in www.dirittodeiservizipubblici.it; 13 ottobre 2005, C-458/03, Parking Brixen GmbH c/ Gemende Brixen, Stadtwerke Brixen AG, in www.curia.europa.eu/it. In ambito nazionale, ex multis, Cons. Stato, Sez. V, ord. 22 aprile 2004, n. 2316; 25 gennaio 2005, n. 168; T.A.R. Campania, Sez. I, 13 settembre 2006, n. 8085; 30 marzo 2005, n. 2784; T.A.R. Puglia-Bari, Sez. I, 12 aprile 2006, n. 1318, in Il corriere del merito, n. 11/2006, 131. In dottrina, ai fini della corretta perimetrazione del requisito del “controllo analogo”, è stato posto l’accento sull’esigenza di distinguere fra “controllo strutturale” e “controllo sull’attività” (D. Casalini, op. cit., 260 e ss.). Per la prima delle due accezioni (“strutturale”), in particolare, è stato ritenuto trattarsi di “condizione necessaria ed imprescindibile” per ravvisare un ipotesi di un house providing (G. Mangialardi, Nota a Cons. Stato, Sez. V, 6 maggio 2002, n. 2418, in Urb. e app., 2002, 417).  Per un’ampia rassegna sull’evoluzione del concetto di “controllo analogo” si veda F. Caringella, Il problema dell’in house providing: un nodo non risolto dal Codice, in Il nuovo Diritto Amministrativo, a cura di R. De Nictolis, Milano, 2007, 335 e ss.

[9] La ratio di tale requisito si coglie agevolmente se si considera come le regole della concorrenza risulterebbero violate nel caso di affidamento diretto di un pubblico servizio ad un’impresa che operi a tutti gli effetti sul mercato, che verrebbe favorita rispetto alle altre imprese che vi operano senza godere di affidamenti diretti, così alterandosi la par condicio tra imprese concorrenti. Non è, invece, così quando si tratta di organismi che non stanno sul mercato o che vi stanno in posizione del tutto trascurabile, quali, appunto, sono quelli che operano esclusivamente o quasi esclusivamente a favore degli enti pubblici che li controllano. Nell’affermare la necessità che il soggetto aggiudicatario realizzi “la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti pubblici” che lo controllano, la Corte di Giustizia sembra fare riferimento tanto alle prestazioni svolte “nei confronti” dell’amministrazione controllante quanto a quelle svolte “per conto” della stessa. Sul punto è stato evidenziato che per attività svolta “nei confronti” dell’amministrazione controllante deve intendersi quella volta a soddisfare il fabbisogno dell’amministrazione e a procurare quei fattori produttivi nonché quelle risorse necessarie per l’esercizio delle competenze (F. Caringella, op. cit., 358-359). L’attività svolta “per conto” dell’ente pubblico controllante, invece, consiste nello svolgimento di funzioni proprie dell’amministrazione che hanno come diretti destinatari gli utenti finali.

Dal punto di vista “quantitativo”, è stato chiarito che l’individuazione della parte di attività svolta dall’ente in house in favore della controllante non deve avvenire in astratto, bensì verificando la situazione effettivamente esistente al momento della stipulazione. Un accertamento condotto in astratto, infatti, porterebbe ad escludere dalla nozione di in house tutti quegli enti che istituzionalmente hanno una pluralità di destinatari della propria attività, diversi dall’amministrazione controllante (così D. Casalini, op. cit., 264). Tale concetto è stato da ultimo ribadito, con le conclusioni 1 marzo 2005, rassegnate innanzi alla Corte Giust. nella causa C-458/03, Parking Brixen, dall’Avvocato Generale J. Kokott, evidenziando che il parametro non dev’essere quello giuridico delle attività statutariamente previste ,ma quello “quanti-qualitativo” delle attività effettivamente espletate.

[10] Il corsivo è di C. Alberti, op. cit.

[11] In tal senso Corte Giust., 18 gennaio 2007, C-220/5, Jean Auroux e Comune de Roane, in www.jus.unitn.it; 11 maggio 2006, C-340/04, Carbotermo SpA, Consorzio Alisei c/Comune di Busto Arsizio, AGESP SpA, in www.dirittodeiservizipubblici.it; 11 gennaio 2005, cit; . In ambito nazionale, nel senso che il controllo analogo non è assicurato, per ciò solo, dalla totale partecipazione pubblica vedi Cons. Stato, Sez. V, 13 luglio 2006, n. 4440, in Corr. Giur., 2006, 7507; già prima 30 agosto 2006, n. 5072, che, confermando T.A.R. Puglia-Lecce, Sez. II, 8 novembre 2006, n. 5197, ha ritenuto nella specie inesistente il controllo analogo in ragione dell’ampiezza dei poteri autonomi di gestione del consiglio di amministrazione e della prescrizione statutaria della futura alienabilità di quote sociali. Tra le pronunce più significative anche T.A.R. Lombardia-Brescia, 5 dicembre 2005, n. 1250, in Urb.  e app., 2006, 586, con nota di R. Goso.

[12] Tra le più complete si veda T.A.R. Friuli Venezia Giulia, 12 dicembre 2005, n. 986, in www.giustizia-amministrativa.it ove si è addirittura proceduto ad un’elencazione, seppur non tassativa, di alcuni possibili elementi indicatori del “controllo analogo”.

[13] In tal senso Cons. Stato, Sez. V, 30 agosto 2006, n. 5072, www.giustizia-amministrativa.it che escluso la sussistenza del controllo analogo pur essendosi in presenza di una s.r.l., ossia di un modello societario di norma caratterizzato da un più spiccato potere di intervento dei soci sulla questione societaria.

[14] In tal senso Corte Giust., 13 ottobre 2005, cit.; 10 novembre 2005, C-29/04, Mödling, in www.iusambiente.it. In ambito nazionale, Cons. Stato, n. 5072/06, cit.; T.A.R. Puglia-Lecce, 8 novembre 2006, n. 5197, in www.dirittodeiservizipubblici.it che hanno escluso il controllo analogo in presenza della semplice previsione, nello statuto, della cedibilità delle quote a privati.

[15] In questo senso, anche Cons. Stato, Sez. V, 8 gennaio 2007, n. 5, in www.giustizia-amministrativa.it.

[16] T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 23 agosto 2006, n. 7373, in www.dirittodeiservizipubblici.it.

[17] Ancora più recentemente anche Corte di Giustizia, 18 gennaio 2007, C-220/5, Jean Auroux e Comune de Roane, in www.jus.unitn.it secondo cui “le sole deroghe consentite all’applicazione della direttiva 92/50 sono quelle in essa espressamente menzionate (v., per analogia, sentenze 18 novembre 1999, causa C-107/98, Racc. pag. I-8121, punto 43, e 11 maggio 2006, causa C-340/04, Carbotermo e Consorzio Alisei, Racc. pag. I-4137, punto 47)”.

[18] Principio ribadito, qualche giorno dopo, anche da Cons. Stato, Sez. II, parere 18 aprile 2007, n. 456, in www.giustizia-amministrativa.it.

[19] Tra le altre, in tema di beni culturali, ad esempio, quanto disposto dall’art. 115 D.Lgs. n. 42/2004.

[20] La norma dell’originario schema era l’art. 15, rubricata “Affidamenti in house”, dal seguente testo: “Il presente decreto non si applica all’affidamento di servizi, lavori, forniture a società per azioni il cui capitale sia interamente posseduto da un’amministrazione aggiudicatrice, a condizione che quest’ultima eserciti sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’amministrazione aggiudicatrice”.

[21] Sulla questione dell’in house providing in relazione ai servizi pubblici locali si veda F. Caringella, op. cit., 373 e ss.

[22] Sul “nodo” delle S.p.A. miste con socio scelto con procedura di evidenza pubblica R. De Nictolis, La Corte CE si pronuncia in tema di tutela nella trattativa privata negli affidamenti in house e a società miste, in Urb. e app., 3/2005, 307.

[23] La riforma dell’art. 113 T.U.E.L. ha attribuito espressamente, alle nuove disposizioni, il valore di norme concernenti “la tutela della concorrenza”. Si tratta di scelta che riguarda, anzitutto, il riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni. La tutela della concorrenza, infatti, nel nuovo art. 117 Cost., è materia di competenza legislativa esclusiva statale, con conseguente impossibilità, per il legislatore regionale, di legiferare sul punto. Per un approfondimento sul punto si veda M. Dugato, La disciplina dei servizi pubblici locali, in Giorn. dir. amm., 2004, 122-123.

[24] T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. I, 18 aprile 2005, n. 670, in www.giustizia-amministrativa.it.

[25] Cons. Stato, Sez. V, 3 febbraio 2005, n. 272, in www.giustizia-amministrativa.it.

[26] Da ultimo, Corte Giust., 18 gennaio 2007, cit., non ha mancato di rilevare che “l’amministrazione aggiudicatrice non è dispensata dal ricorso alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori previste dalla direttiva per il fatto che, in conformità dal diritto nazionale, tale convenzione può essere conclusa soltanto con determinate persone giuridiche, che hanno esse stesse la qualità di amministrazione aggiudicatrice e che saranno tenute, a loro volta, ad applicare le dette procedure per aggiudicare eventuali appalti susseguenti”. La scelta del C.G.A. per un’“interpretazione restrittiva, se non addirittura disapplicativa, del diritto nazionale”, dunque, è stata prontamente fiancheggiata dalla Corte di Giustizia con la superiore recentissima pronuncia.

[27] Cons. Stato, Sez. V, n. 272/2005, cit.

[28] Contra Cons. Stato, Sez. II, n. 456/2007, cit., secondo cui, nel caso di società miste, non potrebbe parlarsi di affidamento in house ma,“avendo riguardo alla sostanza dei rapporti giuridico-economici tra soggetto pubblico e privato e nel rispetto di specifiche condizioni“, dovrebbe piuttosto individuarsi un “‘affidamento con procedura di evidenza pubblica’ dell’attività ‘operativa’ della società mista al partner privato, tramite la stessa gara volta alla individuazione di quest’ultimo”. Secondo tale impostazione, “l’esistenza di una gara che conferisca, di fatto, al socio privato l’‘affidamento sostanziale’ del servizio svolto dalla società mista consente di ricondurre l’ipotesi in questione a quel legittimo fenomeno di “parternariato pubblico-privato”(PPP)”. Avverso tale ultima riconduzione si veda S. Rostagno, Società miste: la via del Consiglio di Stato fra modello in house e partenariato pubblico-privato, in www.giustamm.it

[29] Cons. Stato, Sez. II, n. 456/2007, cit.

[30] Di seguito si riportano i passi più significavi, sul punto, del citato parere: “tale riconducibilità, che in principio era quantomeno dubbia, oggi può dirsi ormai definita in senso negativo dalla giurisprudenza – non risalente ma ormai consolidata – della Corte di giustizia europea, nelle decisioni in cui ha progressivamente definito il concetto di ‘controllo analogo’ (…). L’opzione interpretativa è confermata, tra le altre, dalla citata sentenza 6 aprile 2006, causa C-410/04 - ANAV c/ Comune di Bari – laddove afferma che ‘se la società concessionaria è una società aperta, anche solo in parte, al capitale privato, tale circostanza impedisce di considerarla una struttura di gestione «interna» di un servizio pubblico nell’ambito dell’ente pubblico che la detiene (v. già, in senso analogo, anche la sentenza 21 luglio 2005, causa C‑231/03 - Corame)’ (…). Pertanto, in sostanza, oggi si può parlare di società in house soltanto se essa agisce come un vero e proprio organo dell’amministrazione ‘dal punto di vista sostantivo’, non contaminato da alcun interesse privato (…). Da ciò consegue – ad avviso del Collegio – l’inutilità di ricercare, allo scopo di giustificarne la compatibilità con la disciplina europea, i (sempre più selettivi) requisiti richiesti per l’in house anche nel modello di parternariato pubblico-privato “società mista” cui si riconduce l’oggetto del quesito in esame.

[31] Così S. Rostagno, op. cit.

[32] Cfr. Cons. Stato, Sez. II, n. 456/2007, cit.

[33] Cfr. Cons. Stato, Sez. II, n. 456/2007, cit.

[34] In altri termini, laddove vi siano giustificate ragioni per non ricorrere ad un affidamento esterno integrale, appare legittimo configurare, quantomeno, un modello organizzativo in cui ricorrano due garanzie: 1) che vi sia una sostanziale equiparazione tra gara per l’affidamento del servizio pubblico e gara per la scelta del socio, in cui quest’ultimo si configuri come un “socio industriale od operativo”, che concorre materialmente allo svolgimento del servizio pubblico o di fasi dello stesso; 2) che si preveda un rinnovo della procedura di selezione “alla scadenza del periodo di affidamento” (in tal senso, soccorre già una lettura del comma 5, lett. b), dell’art. 113 t.u.e.l. in stretta connessione con il successivo comma 12), evitando così che il socio divenga “socio stabile” della società mista, possibilmente prevedendo che sin dagli atti di gara per la selezione del socio privato siano chiarite le modalità per l’uscita del socio stesso (con liquidazione della sua posizione), per il caso in cui all’esito della successiva tara egli risulti non più aggiudicatario. Almeno nella specifica ipotesi sopra descritta (ma di altre eventuali possibilità, come si è detto, la Sezione non deve occuparsi, stante l’oggetto del quesito) sembra potersi affermare il rispetto dei principi comunitari anche alla stregua della giurisprudenza più rigorosa e delle perplessità dottrinarie sopra richiamate le quali, come si è detto, sono pienamente condivise dalla Sezione”.

[35] Cfr. Cons. Stato, Sez. II, n. 456/2007, cit.

[36] Secondo l’impostazione del Cons. Stato, peraltro, “tale assetto – sembra essere molto vicino a quello che verrebbe, auspicabilmente, meglio chiarito e codificato con l’approvazione dell’iniziativa legislativa in corso (atto Senato n. 772)” (Cfr. Sez. II, n. 456/2007, cit.). Per un approfondimento sul disegno di legge AS772, si veda A. Bianchini, L'in house nel ddl AS772 (anche dopo gli emendamenti del governo), il "controllo analogo" e l'art. 218 del Codice dei Contratti: c’è qualcosa che non va?, in www.filodiritto.com.

[37] La costante volontà di scongiurare il rischio che l’affidamento diretto di lavori, forniture e servizi in house comporti una distorsione della concorrenza e del mercato comune, è stata da ultimo evidenziata anche nelle conclusioni dell’Avvocato generale L.A. Geelhoed, presentate nella Causa C-295/05, conclusasi recentemente con la sentenza 19 aprile 2007. L’Avvocato olandese non ha mancato di rilevare che l’affidamento di “lavori o la fornitura di beni, anche esulanti dalle loro competenze o dal loro settore come definiti nel loro regime legislativo, regolamentare o statutario, per il semplice fatto che sono a disposizione di queste amministrazioni, può privare di sostanza l’efficacia delle direttive sugli appalti pubblici o, laddove queste non sono applicabili, possono insorgere seri ostacoli per la circolazione intracomunitaria dei beni, dello stabilimento e dei servizi. I rapporti di concorrenza tra questi servizi esecutivi, o società poste sotto il controllo statale, e le imprese private sugli stessi mercati possono pertanto essere gravemente compromessi. Ciò ammette una sola eccezione, qualora gravi motivi di interesse pubblico forniscano una giustificazione per affidare direttamente appalti ad un’organizzazione interna (…), quali calamità naturali e circostanze straordinarie analoghe, che possono imporre l’impiego immediato di tutte le risorse a disposizione dell’Amministrazione”.

[38] Le scelte squisitamente politiche, avallando il sempre più frequente ricorso all’in house providing, peraltro, sono viste con “timore” (F. Caringella, op. cit., 358-359) anche da parte della dottrina (G. Greco, Gli affidamenti in house di servizi e forniture, le concessioni di pubblico servizio e il principio della gara, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2000, 1467; M. Mazzamuto, Brevi note e in house providing, in Dir. Unione Europea, 2001, 554 e ss.). Il timore è quello di un ampio ricorso alla costituzione di società strumentali, da parte dei soggetti tenuti ad indire gare pubbliche, tale da arrecare gravi pregiudizi per la concorrenza.


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