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n. 7-8/2005 - ©
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MARIA CAROLINA DE FALCO
Modelli
di gestione tributaria: dalla funzione
amministrativa al servizio pubblico
SOMMARIO: 1. Premessa. 2.1. Il potere di imposizione tributaria: fondamento costituzionale. 2.2. La potestà amministrativa di imposizione: cenni. 3. L’organizzazione del servizio di riscossione. 4.1. Il quadro normativo di riferimento: gli artt. 52 e 53 del Dlgs. n. 447/97 e la gestione diretta. 4. 2. La gestione esterna. 4.3. Le società miste: un modello in evoluzione. 5. La gestione tributaria è servizio pubblico? 5.1. La nozione di servizio pubblico. 5. 2. L’inquadramento della gestione tributaria come potere ablatorio. 5.3. Una possibile tesi alternativa: argomenti a favore del servizio pubblico. 6.1 La modalità di gestione ideale: la società mista a partecipazione pubblica maggioritaria. 6.2. Limiti del modello: il ripensamento della Corte di Giustizia sugli affidamenti in house.
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1. Premessa.
La destinazione delle seguenti riflessioni è quella di spostare la prospettiva sulla tematica dell’accertamento, liquidazione e riscossione da parte degli enti locali, da un’analisi esclusivamente tecnica, concernente i singoli tributi e le modalità di imposizione (ottica di pertinenza preferenziale del diritto tributario), ad una visione più ampia della materia, orientata invece a coglierne gli aspetti organizzativi e i possibili modi di gestione.
L’interrogativo circa l’inclusione della gestione tributaria tra i servizi pubblici locali [1], e l’approfondimento degli eventuali precipitati giuridici in caso di soluzione positiva di esso, costituisce un tema che, seppur non al centro del dibattito giurisprudenziale e dottrinario, ne mutua, invece, contributi decisivi che il presente lavoro intende ordinare ed esporre in chiave critica, selezionando gli argomenti che propendono per i contrapposti orientamenti al fine di proporre un’interpretazione più aderente possibile alla volontà del legislatore, e più funzionale anche alla realtà operativa dei singoli enti locali in cui la gestione concretamente si attua.
Gli obiettivi, dunque, che s’intendono perseguire sono, da un lato, dimostrare che, a fronte di alcuni specifici indici esegetici di carattere negativo, è sostenibile applicare al servizio di gestione tributaria, la generale normativa sui servizi pubblici locali (art. 113 e ss. T.U. 267/00; art. 35 della l. 448/01; d.l. n. 269/03, conv. in l. n. 326/03), nonché, dall’altro, individuare tra le molteplici opportunità di organizzazione del servizio, quella che presenta maggiori vantaggi sia per il cittadino che per l’Amministrazione di riferimento, che si identifica, secondo l’opinione che nel corso della trattazione del tema si è andata rafforzando, nella creazione di società miste.
Infine, preme sottolineare che solo una preliminare e breve disamina dei fondamenti costituzionali e normativi del potere di imposizione tributaria, nonché la descrizione dello sviluppo storico-normativo dell’organizzazione del servizio di riscossione comprensivo dell’attuale ordinamento, possono aiutare a comprendere gli aspetti problematici della tematica e costituire la griglia di informazioni funzionale per proporre soluzioni alternative a quelle consuete.
2.1. Il potere di imposizione tributaria: fondamento costituzionale.
Il fondamento del potere dello Stato e degli altri enti pubblici territoriali di imporre tributi [2] corrisponde, nel dettato costituzionale, all’ampio concetto di bisogno della collettività di riferimento: il tributo si risolve infatti in un’obbligazione nascente dalla legge, che collega autoritativamente la prestazione di dare una somma di danaro a fatti, rispetto ai quali, il diverso combinarsi della volontà del privato e dell’agire della P.A., risulti idoneo a manifestare la capacità di ciascun cittadino a contribuire alle esigenze del gruppo di appartenenza, proprio al fine di dotare la struttura amministrativa operativa, dei mezzi e delle risorse necessari per la soddisfazione dei bisogni dei singoli.
Questa matrice solidaristica si evince, da un lato, dalla riconducibilità dei tributi alle “prestazioni patrimoniali imposte” ex art. 23 della Costituzione, che sono soggette alla riserva di legge (relativa), proprio al fine di sottrarre una materia, caratterizzata da effetti privativi della sfera del singolo, al potere esecutivo, espressione delle maggioranze politiche, e destinarla al controllo delle minoranze in parlamento; dall’altro dal fatto che, quelle che sono considerate ablazioni personali e obbligatorie con fonte legale o provvedimentale (per antonomasia espressione della sovranità dello Stato e degli enti pubblici con capacità impositiva), costituiscono forme di autolimitazione rispondenti alla regola della capacità contributiva (art. 53 Cost).
La regola da ultimo menzionata, svolge la funzione garantista di circoscrivere il concorso alle spese pubbliche a coloro che compiano atti espressione di una capacità economica, ed al tempo stesso ribadisce che i doveri di solidarietà politica e sociale, sintetizzati nell’art. 2 della Costituzione (significativamente la norma dell’art. 53 è collocata nel titolo dedicato ai “rapporti politici”, e non in quello dedicato ai “rapporti economici”), includono l’obbligo di apportare alla collettività, sotto forma di tributi, quanto è nelle proprie capacità, indipendentemente dal carattere sinallagmatico-consensuale di una controprestazione offerta dalla P.A. [3].
L’assenza di commutatività, connota la nozione di tributo e comporta una stretta corrispondenza tra autoritatività del potere e coattività, sia del contenuto della prestazione che delle sue modalità (prescindendo, questi diversi aspetti, dalla volontà del privato), trovando, però, il suo contrappeso ideologico e giuridico oltre che nelle finalità dell’imposizione (la regola del concorso alle spese pubbliche), proprio nel summenzionato criterio di distribuzione dei carichi.
In
particolare alla generalità (“tutti...”: art. 53 Cost.) e doverosità
(“sono tenuti...”: art. 53 Cost.) del concorso alla contribuzione, fanno
da presidio i requisiti espressione della forza o potenzialità economica [4]
di un soggetto: l’effettività, connessa al principi di congruità e
ragionevolezza dell’imposizione, che impediscono la sottoposizione al tributo
dei mezzi necessari alla mera sopravvivenza ( art. 36.e art 31 Cost.: tutela del
minimo vitale per sé e per la propria famiglia); la certezza, che espunge
dal sistema impositivo gli indici di capacità contributiva meramente fittizi ed
evidenzia il carattere della personalità della contribuzione, al di là di
presunzioni legali o situazioni astratte; l’attualità, che risponde alla
logica secondo cui la capacità contributiva deve esistere nel momento in cui si
verifica il prelievo, e si pone da limite ai tributi retroattivi; la
relatività, riferita all’esigenza non solo che ciascun presupposto del
tributo sia espressione di
potenzialità economica, ma anche al bisogno che i contribuenti e i tributi siano
differenziati tra loro, al fine di conformare l’imposizione a un principio
democratico di personalità [5].
2.2. La potestà amministrativa di imposizione: cenni.
Delineate le coordinate costituzionali del potere impositivo, va precisata la collocazione nell’ambito dei tradizionali poteri amministrativi, della potestà amministrativa di imposizione (da non confondere come già indicato con la potestà normativa tributaria), che consiste nell’attuazione del tributo, ovvero nell’attività diretta ad accertare l’esistenza dei presupposti dell’imposta e a realizzare concretamente il prelievo.
Chiarita infatti la funzione dell’imposta, che è quella di far concorrere alle spese pubbliche tutti coloro che sono interessati all’esistenza e al funzionamento dello Stato e degli altri enti pubblici di riferimento, e annoveratone il fondamento nella potestà tributaria garantita dalla legge a tali enti, va evidenziato che la dottrina tradizionale [6] include la potestà di imposizione tributaria nell’ambito della nozione di ablazione in senso ampio, ovvero tra i procedimenti ablatori mediante i quali i pubblici poteri, in funzione dell’interesse collettivo, sacrificano una posizione di vantaggio garantita dall’ordinamento a un soggetto privato.
Più precisamente, quanto al prelievo dei tributi, rientranti nel concetto più generale di “contribuzione” [7], si parla di ablazioni obbligatorie, caratterizzate dall’imposizione coattiva di un rapporto obbligatorio.
Occorre ricordare che, mentre la dottrina meno recente li considerava procedimenti ablatori di imposizione (diretti alla formazione dell’atto di accertamento tributario), con una fase di iniziativa (d’ufficio o del contribuente mediante la dichiarazione), una fase istruttoria ed un provvedimento impositivo costitutivo dell’imposizione, secondo un orientamento rafforzatosi negli ultimi anni, si è sostanzialmente d’accordo nel ritenere la natura meramente dichiarativa dei procedimenti tributari, essendo l’imposizione da collegare rigidamente a dei presupposti previsti dalle norme o da atti amministrativi generali.
Ebbene proprio tale ultima ricostruzione, non appare soddisfacente.
Sebbene la summenzionata posizione dottrinale, tenda a includere anche le ablazioni personali (tra cui i tributi e le sanzioni amministrative), caratterizzate da un effetto ablatorio derivante direttamente dalla legge, e da un’Amministrazione chiamata a svolgere compiti meramente esecutivi, tra i poteri ablatori, pare invece più convincente ritenere che in queste ipotesi, si è tecnicamente fuori dalla tematica del provvedimento amministrativo, in particolare ablatorio (come dimostra peraltro, l’esclusione dei procedimenti tributari dall’ambito di applicazione del capo III della l. 241/90, dedicato alla partecipazione), data la natura meramente dichiarativa del procedimento e ricognitiva o paritetica dell’atto di accertamento.
Se infatti, l’effetto privativo del tributo deriva direttamente dalla legge, che stabilisce tutti gli elementi strutturali dell’esazione (presupposti, base imponibile, aliquota), la P.A. nell’attuare il prelievo adotta una procedura non libera nel fine, non rispondente, perciò, al paradigma classico del provvedimento discrezionale, e assume, secondo il filone interpretativo [8] che si intende prediligere, non un vero e proprio potere quanto, piuttosto, un potere-dovere, la cui vincolatezza si manifesterebbe, non solo nell’an dell’agire, ma anche nel quantum, dato che i parametri cui modellare il rapporto giuridico d’imposta sono rigidamente fissati dalla legge o da atti amministrativi generali.
Dunque, proprio perchè il rispetto del dovere di concorrere alle spese pubbliche non è lasciato alla libera disponibilità dei destinatari del tributo, ma è condizionato al rispetto delle norme di legge che sono funzionali a questo scopo, si conviene sul fatto che, anche il potere di agire dell’Amministrazione Finanziaria, è in realtà un dovere, perché funzionalizzato alla verifica del rispetto dell’impianto legislativo, da cui discende tout court la realizzazione del pubblico interesse, senza l’intermediazione di una valutazione comparativa tra interessi pubblici e privati.
A tal proposito è rilevante riportare il contributo di chi [9] sostiene che, anche laddove si presentino profili di discrezionalità nella gestione tributaria [10], non si tratterebbe di vero e proprio contemperamento tra primario interesse pubblico all’esazione e altri interessi dei singoli [11], quanto piuttosto di mera valutazione interna alla P.A. (valutazione organizzativa), coinvolgente, dunque la comparazione tra soli interessi pubblici, ovvero il rispetto dei canoni organizzativi fissati dall’art. 97 Cost.
Esemplificative espressioni di “valutazione organizzativa” [12], nell’ambito nella fase istruttoria dell’accertamento tributario, tale da corroborare la tesi per cui l’imposizione tributaria si connota per l’assenza di poteri amministrativi discrezionali, sarebbero i metodi di selezione del contribuente e del periodo d’imposta da sottoporre ad accertamento.
Nel primo caso i parametri di pericolosità fiscale dei contribuenti indicati nelle liste conservate da ciascuna amministrazione finanziaria vengono fissati in maniera solo tendenziale dall’Amministrazione centrale, lasciando così un margine di apprezzamento ai singoli uffici, che però, si può affermare, non attenga a nessuna posizione di interesse legittimo del privato (come tale suscettibile di tutela), visto che risponde piuttosto ad esigenze di organizzazione interna, e quindi al rispetto dei principi fissati dall’art. 97 Cost.; nel secondo, ugualmente risponde a scelte di organizzazione interna, la selezione dei periodi di imposta che saranno oggetto di accertamento, i cui criteri di riferimento risultano ugualmente fissati in atti ministeriali ritenuti da dottrina e giurisprudenza prevalente, come atti natura organizzativa, e non normativa, escludendo così che la loro violazione possa influire sulla validità dei conseguenti atti di accertamento.
In entrambi gli ambiti istruttori summenzionati, la violazione dei limiti posti dagli atti interni nella scelta del contraente o del periodo d’imposta da assoggettare ad accertamento, non può dare origine a vizio di eccesso di potere del procedimento di accertamento, per la semplice ragione che è assente ogni valutazione comparativa di interessi contrapposti, e in detto momento procedimentale non entrano in gioco posizioni soggettive dei privati identificabili con un diritto affievolito a non essere accertato o a non vedersi colpire per determinati periodi di imposta, salvo a voler introdurre in questo campo un’inammissibile riserva di intoccabilità di fronte a determinati modelli accertativi [13].
Dunque, si può concludere affermando che, se è vero che nell’ambito dell’intera categoria dell’imposizione tributaria la discrezionalità cd. “pura” [14], è presente solo in aspetti particolari, diradandosi fino a diventare nulla al momento della determinazione della base imponibile, e dell’applicazione concreta del tributo, e ancora se è vero che la discrezionalità è l’elemento identificativo del provvedimento amministrativo ( per costante orientamento in tal caso di natura ablatoria ), viene da sé l’esigenza di individuare, tra le categorie del diritto amministrativo, un altro genus dogmatico, cui ricondurre gli atti di esercizio della gestione tributaria, per la quale sarà utile indicare, anche se in breve, i tratti essenziali dell’organizzazione delle operazioni di prelievo tributario, in particolare presso gli enti locali.
3. L’organizzazione del servizio di riscossione.
Tra gli ausiliari del soggetto attivo si riconosce come più nota e storicamente risalente, la figura dell’esattore, intermediari tra titolare del potere impositivo (Comune, Regione e Stato), e i contribuenti nella fase di riscossione delle entrate grazie ad un accordo negoziale e a un provvedimento amministrativo di approvazione dello stesso.
L’accordo, fonte di obblighi precipui connessi all’attuazione del prelievo, necessitava dell’iscrizione in appositi albi, riservata a coloro che presentassero determinate caratteristiche di struttura e solvibilità e che avessero prestato idonea cauzione, e costituiva, titolo esclusivo per la riscossione dei tributi ed altre entrate non tributarie, in un determinato ambito territoriale, tramite il seguente meccanismo: all’atto della consegna dei ruoli da parte dell’ufficio[15], l’esattore si considerava debitore dell’intero ammontare dell’intero ammontare del ruolo, al netto degli aggi di riscossione, che doveva essere da lui versato alla scadenza stabilita, ancorché non riscosso (cd. obbligo del non riscosso per riscosso, T.U. 858/1863, corrispondente all’art. 5 T.U. 140 1/1922).
L’esattore, quindi, doveva impegnarsi a recuperare dai contribuenti iscritti nei ruoli da parte dell’ufficio, quanto da lui anticipato all’ente impositore e a tal fine veniva dalla legge dotato di particolari poteri autoritativi, per la riscossione coattiva del credito che culminavano nella cd. “esecuzione esattoriale”, in cui l’esattore cumulava la qualità di creditore con quella di giudice dell’esecuzione: solo dando prova di aver esperito tutti i rimedi consentiti dalla legge per il recupero del proprio credito, l’esattore maturava il diritto al rimborso, da parte dell’ente impositore, delle cd. quote inesigibili.
Tutti gli aspetti positivi del ricorso a un soggetto privato per la cura dell’attività di gestione delle entrate tributarie, quali l’obiettivo di sfruttare la particolare organizzazione ed efficienza, specie con riguardo alla capillare diffusione sul territorio destinatario dell’imposizione, e alle dotazioni tecniche e patrimoniali, nonché la garanzia, attraverso la summenzionata clausola, della sollecita e integrale acquisizione del prelievo, di contro, sono risultati recessivi rispetto alla macchinosità e complessità dei meccanismi di prelievo tanto da far risultare le procedure esecutive poco incisive, e scarsamente sicure per i debitori esecutati.
Si optò così per l’istituzione di un Servizio Centrale della Riscossione e l’introduzione di un nuovo soggetto ausiliario dell’amministrazione finanziaria: l’agente della riscossione.
Con il D.P.R. n. 43/88, in attuazione della legge delega n. 657/86, ora trasfuso nel D.lgs. 112/99, s’incardinava presso il Ministero delle Finanze, una struttura autonoma e centralizzata destinata ad occuparsi della riscossione di tutte le entrate tributarie e patrimoniali dello Stato e degli enti locali, tramite appositi agenti, titolari di concessioni per ambiti territoriali predeterminati, in questo modo rimarcando la genesi centralista, e dunque propria dell’attività statale, del servizio di riscossione dei tributi.
Riportando l’attività in parola tra quelle di esclusiva pertinenza statale, non si escluse, però, nella fase propriamente esecutiva, come anticipato, il ricorso all’ausilio di soggetti privati, attraverso il modulo della concessione-contratto aggiudicata al concorrente che esprimesse maggiori garanzie sul piano della capacità finanziaria, dell’organizzazione tecnica, dell’ubicazione, stato e consistenza dei locali, delle percentuali di ribasso dell’aggio, ma che differentemente dal sistema dell’esattoria, risultava poi soggetto ai periodici controlli del Servizio Centrale di Riscossione, al fine di assicurare la regolarità, la tempestività, l’efficienza e l’efficacia del servizio.
Lo svolgimento di un rapporto propriamente concessorio, poi, ha comportato, da un lato, il rischio per il concessionario di decadere in caso di sopravvenuta carenza dei requisiti richiesti e omessa integrazione successiva all’invito ministeriale di ripristinarli, nonché, dall’altro la facoltà dell’ufficio centrale di revocare la concessione in presenza di violazione degli obblighi assunti, e in caso di gravi e reiterati abusi, quali l’omissione dei versamenti alle scadenze previste.
Di quale sia stato lo sviluppo, nel tempo, del rapporto tra concessionari della riscossione e ente impositore, nel senso dell’adozione di moduli organizzativi capaci di creare un vero e proprio rapporto di immedesimazione tra soggetti pubblici titolari delle corrispondenti funzioni e soggetti privati coinvolti nella gestione, è testimonianza la vicenda giurisprudenziale, in ordine all’attribuzione della responsabilità contabile in capo ai dipendenti degli istituti di credito concessionari della riscossione.
Ad una prima posizione di netto diniego [16], si contrappone la mutata opinione della Corte dei Conti che, con la decisione della sez. Veneto n. 1240/03, in corrispondenza ad un’accentuata sensibilità degli operatori del settore per il ricorso dell’agire funzionalizzato della P.A. anche a strumenti di diritto privato, precisa che il concessionario della riscossione va identificato quale vero e proprio organo indiretto della P.A. finanziaria, munito di poteri di organizzazione, gestione ed esecuzione di attività di interesse pubblico, da ciò conseguendone l’esistenza di un vero e proprio rapporto di servizio tra concedente e concessionario, inevitabilmente coinvolgendo in tale dimensione istituzionale, anche la responsabilità dei semplici dipendenti che, nel periodo ricompresso tra la riscossione e il versamento, detengono il maneggio di denaro di spettanza dello Stato e degli altri enti pubblici a finanza originaria e derivata.
Dunque dal rapporto concessorio, come regolato anche dai decreti legislativi (n. 37/99; n. 46/99; n. 112/99), di riforma del sistema di riscossione, deriva una relazione funzionale caratterizzata dall’inserimento del soggetto privato (e dei suoi dipendenti), nell’apparato organico dell’ente e nell’attività di questo, suscettibile di rendere il primo compartecipe del secondo, nello svolgimento di una funzione di rilievo costituzionale, la quale è finalizzata ad assicurare gli introiti necessari per il funzionamento dell’ente e della collettività di riferimento.
4.1 Il quadro normativo di riferimento: gli artt. 52 e 53 del dlgs. n. 446 del 1997 e la gestione diretta.
Dopo aver indagato il rapporto tra concessionario (e suoi agenti) della riscossione e l’ente di riferimento, mettendone in luce la qualificante relazione funzionale, l’interrogativo di fondo di questo lavoro ci conduce all’analisi dell’attuale normativa che regolamenta i moduli organizzativi del “servizio” di accertamento, liquidazione e riscossione dei tributi.
I dati che emergono immediatamente dalla lettura delle norme degli artt. 52 e 53 del d.lgs. 446/97 (introdotte attraverso la delega di cui all’art. 3 co. 149, lett.a) della 1. 662/96), possono sintetizzarsi nell’introduzione di un’ampia potestà regolamentare degli enti locali in materia tributaria, sotto il profilo tanto sostanziale quanto organizzativo, e nell’ampliamento della facoltà di esternalizzare i servizi preposti alla gestione delle entrate sia tributarie sia patrimoniali.
Con riguardo all’autonomia gestionale dell’ente locale in materia di tributi, la previsione di un’apposita potestà regolamentare di pertinenza dell’organo consiliare dell’ente titolare della potestà impositiva, ne amplia di molto i confini rispetto al passato con i soli limiti espressi, del rispetto delle fattispecie imponibili, dei soggetti passivi e delle aliquote dei singoli tributi, oltre che dell’assenza di oneri aggiuntivi a carico dei contribuenti.
La norma dell’art. 52, è confermata, peraltro, dall’art. 149 del T.U.E.L. (d.lgs. 18 agosto 2000 n. 167), che dispone non solo in merito alla riserva di legge in materia di finanza locale (l’ente, pur godendo della facoltà di disciplinare mediante regolamento le proprie entrate tributarie, in ogni caso rimane assoggettato ai limiti imposti dalla legge, e questa ha potere espansivo in caso di mancata adozione del regolamento), ma anche per ciò che attiene al coordinamento di questa con la finanza statale e regionale.
Quanto, invece all’aspetto che più da vicino interessa questo approfondimento, l’art. 52 del decreto in parola, stabilisce che le stesse possono essere organizzate direttamente con la propria struttura organizzativa (gestione diretta); nelle forme associative (T.U.E.L. art. 30: convenzioni tra più Comuni; art. 31 consorzi tra più Comuni per esercitare le funzioni in esame; art. 32 Unioni di Comuni; art. 27 Comunità montane); oppure mediante l’affidamento a terzi, anche disgiuntamente dei vari servizi tramite convenzione con le aziende speciali ( T.U.E.L. art. 114 ); nel rispetto delle procedure vigenti in materia di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali alle s.p.a. o s.r.l. a prevalente capitale pubblico locale (art. 113 lett. e) T.U.E.L. ), il cui socio sia prescelto tra i soggetti iscritti all’albo di cui all’art. 53; ai concessionari del servizio nazionale di riscossione a mezzo ruolo a prescindere dagli ambiti territoriali per i quali sono titolari della medesima concessione (d.lgs. 112/99); ai soggetti iscritti nell’albo di cui all’art. 53 (D.M. 11 settembre 2000 n. 289); infine alle società miste sia a partecipazione prevalente che minoritaria, iscritte all’albo di cui sopra per la gestione presso altri Comuni.
La varietà dei moduli gestionali facoltizzati, ne impone una breve disamina.
Quanto alla prima forma di gestione ammessa, quella diretta, essa si riferisce a tutte le ipotesi in cui l’ente locale con potestà impositiva opera in nome e per proprio conto, indipendentemente dal fatto che utilizzi personale interno e in carico all’ente, o che si avvalga di del supporto tecnico qualificato di ausiliari e collaboratori e che nell’ambito dei servizi pubblici locali, corrisponde alla gestione in economia prevista dagli artt. 113 e ss. Del T.U.E.L., e che trova applicazione, generalmente, nei casi in cui per le scarse dimensioni del servizio si sconsiglia l’affidamento a un terzo.
Va precisato però, che l’art. 52, nell’interpretazione che ne danno, da ultimo, gli enti locali [17], è utilizzato in chiave innovativa rispetto alla concezione classica di gestione in proprio, legata ad angusti limiti di tipo quantitativo e dimensionale, per indirizzarne, invece l’organizzazione, attraverso le articolazioni interne della struttura, ai principi di risparmio, efficienza e controllo [18], consentendo, così, tramite la formazione del personale e il miglioramento delle strutture interne anche la sperimentazione di dinamiche e percorsi nuovi da parte dei funzionari dell’ente locale.
Per quanto attiene, poi, all’organizzazione dei versamenti che ci si attende vengano eseguiti spontaneamente dai debitori, e dunque per operazioni di mero incasso, l’ente locale può utilizzare il sevizio di tesoreria disciplinato dal T.U.E.L. all’art. 209, magari stipulando apposite convenzioni con il servizio postale per l’organizzazione dei soli pagamenti spontanei.
Il principale strumento attraverso il quale è possibile la scelta operativa della gestione diretta è l’ingiunzione fiscale, disciplinata dal R.D. 639 del 1910 per le entrate patrimoniali dello Stato e poi estesa dall’art. 52 in parola, anche alle entrate patrimoniali e tributarie degli enti locali [19].
Altra forma
di gestione interna, è consiste nella possibilità di ricorrere per
l’accertamento dei tributi a una delle forme associative previste dal testo
unico delle autonomie locali, per rispondere all’esigenza dei Comuni a ridotte
dimensioni demografiche, di realizzare economie di spesa e di agire con criteri
uniformi su aree contigue, nonché di agevolare lo svolgimento della medesima
funzione.
Nulla vieta però che la dimensione associazionistica possa spingere verso un
affidamento cumulativo a terzi per raggiungere dimensioni che conducano a una
riduzione dei costi ed ad un più alto standard di qualità. Di qui l’introduzione
al fenomeno che appare maggiormente complesso oltre che di non immediato
inquadramento sistematico: la gestione esterna.
4.2. La gestione esterna.
La scelta di ricorrere all’affidamento ai privati per lo svolgimento delle funzioni connesse all’amministrazione delle entrate tributarie, con modalità diverse dalla classica concessione (unico modello fino alla normativa di cui al d.lgs. 446/97), viene giustificata dalla dottrina che approfondisce le tecniche organizzative della P.A., tramite il tentativo di colmare le lacune connesse al sistema pubblico ed ai suoi limiti (dimensioni degli Uffici, attrezzature tecniche complessità delle procedure), con le economie di scala che solitamente governano le imprese private [20], e che pertanto potrebbero costituire un adeguato stimolo per la creazione di un sistema più elastico ed efficiente.
E’ da ribadire che trasferire a terzi l’esercizio dei complessi poteri della potestà impositiva, comporta per l’ente locale di riferimento produrre una adeguata motivazione, che evidenzi, da un lato, la convenienza del progetto sotto il profilo del raffronto costi-benefici con i modi di gestione interna, e sotto il profilo del livello di qualità del servizio e del diverso grado di efficienza raggiungibile [21], e dall’altro tenga conto dell’impossibilità per tale genere di soluzione di addossare oneri aggiuntivi per il contribuente, come espressamente indicato nell’art. 52 lett. c), sottoforma di ulteriori somme espressamente così giustificate nel bollettino di versamento, nell’avviso bonario, nell’atto di liquidazione e di accertamento o, nella cartella di pagamento.
In
particolare, poi venendo allo specifico delle modalità di affidamento a terzi
delle attività connesse all’imposizione tributaria, l’art. 52 del d.lgs.
n. 446/97 al co. 5° specifica che, perché ciò possa avvenire
legittimamente (al di là dei profili di opportunità evidenziati in precedenza),
occorre che sia rispettato un duplice ordine di condizioni: in primo luogo, che
siano rispettate le procedure vigenti in materia di affidamento dei servizi
pubblici locali, e ancora che i soggetti incaricati siano iscritti nell’apposito
albo tenuto preso il Ministero delle Finanze (di cui all’art. 53 del
d.lgs. n. 446/97).
Il richiamo alle procedure di affidamento dei servizi pubblici locali (che verrà esaminato infra quando si analizzerà il peso e la consistenza di questo rinvio: conferma o esclusione della nozione di servizio pubblico locale ?), si sostanzia, secondo l’opinione prevalente, nell’adozione del metodo dell’evidenza pubblica nella scelta del contraente privato, rivesta egli la posizione di incaricato in quanto iscritto nell’albo summenzionato, oppure quello di socio minoritario o maggioritario nelle società miste, così come individuate dalla normativa di riferimento [22], mentre per ciò che concerne l’adozione di un modello che si regge sulla necessità di un atto di abilitazione, vale la pena di approfondire le ragioni hanno contribuito a determinarlo.
L’albo dei
soggetti abilitati alla liquidazione, accertamento e riscossione dei tributi e
delle altre entrate di Province e Comuni, previsto dall’art. 53 co. 3°
del d.lgs. n. 446/97 e disciplinato dal D.M. n. 289/00, sostituisce l’albo dei
concessionari (art. 25 e ss. del d.lgs. n. 507/03).
La scelta di creare un sistema di selezione a monte della procedura ad evidenza pubblica, nasce per porre rimedio ad una situazione di deregulation, nel quale numerose società operavano a nome dell’ente, lucrando per l’attività svolta compensi esorbitanti, commisurati il più delle volte in misura percentuale sull’accertato, a prescindere dal riscosso, cosicché si raggiungeva il paradosso che l’ente corrispondeva all’affidataria una somma maggiore di quella percepita tramite la raccolta dei tributi. Proprio dunque, per colmare la lacuna di controllo da parte dello Stato, e per assicurare in questo campo così delicato i requisiti di qualificazione, professionalità ed affidabilità negli interlocutori privati, sì è posto fine all’abitudine degli “affidamenti selvaggi” [23] di attività connesse al maneggio di denaro pubblico, che tanta influenza possono avere nella corretta amministrazione della comunità locale.
Attualmente sono abilitati ad iscriversi all’albo in parola: 1) i concessionari della riscossione di cui al D.M. 112/99; 2) le società di capitali che svolgono “attività di accertamento, liquidazione e riscossione delle entrate locali, nonché le attività connesse o complementari indirizzate al supporto delle attività di gestione tributaria e patrimoniale, con esclusione di qualsiasi attività di commercializzazione della pubblicità”; 3) le società miste costituite a norma dell’art. 12 co. 1° della legge 23 dicembre 1992 n. 498, per la gestione delle entrate presso altri comuni.
Non va
tralasciato che a seguito dell’istituzione del presente albo, le dimensioni del
mercato hanno subito un notevole ampliamento dovuto soprattutto al fatto che,
mentre in precedenza le attività di
cui si tratta, potevano essere affidate a privati con l’assegnazione di
pubbliche funzioni
unicamente in relazione a TOSAP e imposte sulla pubblicità, ora per tutti i
rimanenti tributi, non sono chiamati ad operare unicamente i concessionari, ma
tutti i soggetti iscritti all’albo.
La valutazione sui soggetti che ambiscono all’iscrizione investe tanto l’ambito
soggettivo che quello oggettivo, in relazione anche alle persone fisiche, di cui
viene testata l’onorabilità, la professionalità e le cause di incompatibilità, e
la presenza della summenzionata verifica a monte del sistema di aggiudicazione
ha l’indubbio valore semantico, nell’identificazione della sostanziale natura
delle attività in parola, di accentuare i profili del controllo pubblico sullo
svolgimento delle stesse, costituendo questo dato, come si vedrà, un punto di
riferimento essenziale ai fini della lettura del sistema.
Infine, fanno eccezione al sistema della gara pubblica nella scelta del privato affidatario della gestione tributaria, i concessionari del servizio nazionale di riscossione a mezzo ruolo di cui al d.lgs. n. 112/99, che godono di un regime privilegiato, potendo provvedere, in assenza di una deliberazione alternativa, automaticamente alla riscossione delle entrate tributarie e patrimoniali di Comuni e Province, assumere in affidamento il servizio di tesoreria di questi enti e svolgere attività di recupero crediti [24].
4.3. Le società miste: un modello in evoluzione.
Tra le varie alternative propugnate dal decreto di cui in commento, che consentono la collaborazione pubblico-privato nella gestione del servizio di liquidazione, accertamento e riscossione dei tributi locali, quella istituzionale della costituzione di società di capitali a partecipazione pubblica maggioritaria o minoritaria è quella che presenta da un lato i maggiori profili promozionali, e dall’altro gli spunti più problematici.
Dando per assodata la recessività del modello dell’azienda speciale, pur contemplata dall’art. 52 co. 5°, lett. b), modello organizzativo in bilico tra il carattere imprenditoriale, e quello di articolazione interna dell’amministrazione, la scelta delle amministrazioni locali può ricadere, infatti, sulle società per azioni o a responsabilità limitata a prevalente capitale pubblico locale, i cui soci privati siano iscritti all’albo di cui all’art. 53 del d.lgs. n. 446/97.
In generale la ratio legis del ricorso a una tale forma giuridica, prevalentemente utilizzata per la gestione di servizi pubblici locali [25], risiede nella utilità di predisporre un soggetto dotato di una struttura agile e competitiva, che operi secondo i criteri logici e gestionali dell’imprenditore privato, sottraendosi alla macchinosità delle procedure burocratiche del diritto pubblico e capace di sostenere il rischio di impresa con maggiore flessibilità che i soggetti pubblici.
In particolare nella materia de qua, i profili che potrebbero far propendere per il modulo istituzionale pubblico-privato [26] emergono per un verso ex latere contribuente, per i vantaggi in termini di snellimento delle procedure dovute all’esistenza di un interlocutore unico cui presentare le dichiarazioni concernenti i diversi tributi, e cui chiedere consulenza e informazioni sui singoli adempimenti, e per l’altro ex latere amministrazione di riferimento, se ne potrebbe ricavare innanzitutto una riduzione dell’area conflittuale nei rapporti con il contribuente, a seguito di un maggior gradimento dell’azione amministrativa, e poi l’accentramento, con l’eliminazione di inutili duplicazioni, delle strutture necessarie all’applicazione dei diversi tributi.
Elementi di qualificazione della descritta modalità operativa sono: la specializzazione del personale della società mista, capace così già in sede di formulazione delle procedure di imposizione di prevenire ed evitare liti giudiziarie; il risparmio di risorse finanziarie, dovuto alla trasformazione dell’aggio da forma di esclusivo arricchimento dei concessionari privati, a dividendi distribuibili alla società mista e dunque anche al soggetto pubblico; l’incremento di risorse finanziarie, dovuto all’eventuale estensione dell’ambito di operatività della società a Comuni limitrofi, che consentirebbe un migliore ammortamento dei costi fissi, di conseguenza un miglior utile finale.
Va da sé però che, se pure svincolata da limiti territoriali, e modi di operare farraginosi, la società mista deve operare secondo il fine dell’interesse pubblico da perseguire, e perché questo avvenga, risente inevitabilmente per molti aspetti dei riflessi del suo agire funzionalizzato.
Nel caso delle attività tributarie, il nesso funzionale tra la società e l’obiettivo pubblico da perseguire è ben sintetizzato nel requisito dell’iscrizione all’albo dei soggetti specializzati ex art. 53 del d.lgs. n. 446/97, richiesto al socio privato di minoranza da scegliersi secondo le regole dell’evidenza pubblica, nonché alla società mista iscritta, con un controllo di natura pubblicistica che si rinnova ogni qualvolta si verifichi un mutamento dell’assetto societario.
In particolare, per i profili concernenti la scelta del socio privato non può non menzionarsi il contrasto che ha, fino alla riforma in materia di servizi pubblici locali, animato, da un lato, i sostenitori della tesi privatistica, che optavano per la piena libertà di scelta degli azionisti da parte dell’ente locale, e i fautori della tesi pubblicistica, che invece ritenevano necessario lo svolgimento di una procedura ad evidenza pubblica, acuendosi il dissidio per la regolamentazione della selezione del socio privato nelle società a prevalente capitale pubblico, che non beneficiavano di disciplina ad hoc [27] e per le quali il principio di buon andamento e confronto concorrenziale, sostenuti anche da giurisprudenza dominante [28] dovevano confrontarsi con le logiche utilitaristiche degli imprenditori privati, poco avvezzi a tollerare eccessivi controlli.
Un dato però, risultava in questa materia acquisito, prima delle recenti riserve espresse dalla giurisprudenza comunitaria (di cui infra al par. 6): ove si espletasse la gara pubblica per la scelta del socio privato nell’ambito di una s.p.a. mista, per il successivo affidamento del servizio, non sarebbe stata richiesta un’ulteriore selezione concorrenziale, secondo il modello dell’affidamento diretto in senso formale.
Oltre, infatti, che ragioni di carattere prettamente logico (nessun potenziale socio privato avrebbe impegnato capitali in una società, alla cui costituzione non fosse corrisposto un utilizzo certo a causa dell’aleatorietà della gara), lo imponeva, per la materia dei pubblici servizi l’introduzione dell’art. 14 del d.l. n. 269/03, conv. in l. n. 326/03, secondo il quale l’affidamento dei servizi a rilevanza economica avviene senza gara in favore di società di capitale misto pubblico/privato, nella quale il socio privato venga scelto a seguito di procedure ad evidenza pubblica, che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di concorrenza, secondo le linee di indirizzo emanate dalle Autorità competenti, attraverso provvedimenti o circolari specifiche, e per lo specifico settore delle funzioni connesse all’applicazione dei tributi il D.M. 289/00, che dispone all’art. 2 co. 2° che le società miste costituite a norma dell’art. 22 co. 3° lett. e) della l. n. 142/90 (ora art. 113 del T.U.E.L., come innovato dalla riforma), “con prevalente capitale pubblico locale il cui socio privato sia prescelto con procedura ad evidenza pubblica tra soggetti di cui alle lett. a) e b) del co. 1°, non sono tenute all’iscrizione all’albo per lo svolgimento di attività in favore dell’ente locale titolare della quota prevalente di capitale”.
La normativa sottoposta alla nostra attenzione, infine, prevede come ulteriore e distinta fattispecie di affidamento, quella riferibile alla società mista che operi nell’ambito della gestione delle entrate presso un altro ente locale. Naturalmente, nulla di nuovo rispetto a quanto già detto, se non nel senso di evidenziare come la diversa misura di partecipazione dell’ente interessato (nell’un caso unico destinatario delle funzioni esercitate dalla società, nell’altro detentore di una delle quote di partecipazione pubblica) incida sulla procedura da affrontare nell’affidamento del servizio.
Più precisamente, se nel primo caso la fase di evidenza pubblica nella scelta del contraente privato (socio di minoranza) esimerebbe dalla selezione concorrenziale dell’affidatario, nel caso viceversa di una società mista partecipata da più enti locali ciascuno per una quota minoritaria, come chiaramente indicato dal D.M. 289/00,con riferimento alla “necessaria” iscrizione all’albo, la stessa ugualmente dovrà sottoporsi al confronto con gli altri imprenditori privati.
L’espressione “imprenditori privati”, non è usata a caso: se infatti nel caso di
società che svolga la propria attività con riferimento all’ unico Comune (o
altro ente locale) che l’ha istituita, essa assume uno status particolare che le
deriva dal legame funzionale con l’ente che ne ha voluto l’istituzione, qualora
la stessa intenda estendere il proprio ambito di operatività oltre i propri
limiti
territoriali [29], la società mista è considerata alla stregua di un
soggetto privato, come tale, è soggetto alle regole della trasparenza e
concorrenzialità.
E’evidente, però, che entrambe le ipotesi soggiacciono ad una stessa ratio legis, secondo la quale la partecipazione del socio privato si giustifica, non solo, con riferimento alla necessità del capitale che questi è in grado di apportare, ma in special modo, per l’esperienza e la capacità anche organizzativa maturata nel settore.
Va da sé che la costituzione di una società mista con partecipazione che rasenta il totale da parte del socio pubblico, o addirittura unisoggettive, non avrebbe ragion d’essere per entrambi i casi: da un lato, diverrebbe ingiustificato l’utilizzo di una forma imprenditoriale per una gestione completamente (o quasi pubblicistica), dall’altro, verrebbe meno la motivazione essenziale per il ricorso a un tale modulo gestionale, che è quella di supportare l’amministrazione con nuove energie sia di capitali che tecniche.
5. La gestione tributaria è servizio pubblico locale ?
5.1 La nozione di servizio pubblico locale.
Nel corso della trattazione del tema della gestione delle attività di accertamento, liquidazione e riscossione delle entrate tributarie e patrimoniali locali, si sono volutamente utilizzati in senso atecnico le espressioni “funzione”, “gestione”, “attività” e “servizio”, onde lasciare alle considerazioni finali l’esatta qualificazione di questi compiti fondamentali dell’ente locale.
Considerazioni finali che, peraltro, si impongono anche per la ragione pratica di individuare lo humus normativo di riferimento nella scelta dei moduli organizzativi della gestione tributaria, specie per l’affidamento terzi, onde stabilire se estendere o meno alla disciplina di settore (più volte menzionato d.lgs. n. 446/97), le importanti novità emerse, sia in ambito comunitario, sia in ambito nazionale, nel sistema generale dei s.s.p.p.l.l.
Per obliterare tale intendimento, occorrono brevi cenni all’attuale concezione di servizio pubblico locale.
Non si può negare infatti che la frontiera mobile della nozione dei servizi pubblici locali, continuamente attraversata da ripensamenti ed adattamenti legislativi [30] ed elaborazioni da parte dei giudici nazionali e comunitari, sia stata nel tempo condizionata dalla contrapposizione classica tra concezione soggettiva e concezione oggettiva.
I sostenitori della prima teoria pongono l’accento sul criterio distintivo della pubblicità del servizio,
inteso come imputabilità e titolarità dello stesso all’organizzazione pubblica, nella sua accezione organica, configurando l’eventuale partecipazione del privato alla gestione (prevalentemente attraverso il modulo della concessione), quale esclusivo trasferimento dell’esercizio di compiti che rimangono, quanto a titolarità, saldamente in capo all’Amministrazione di riferimento.
I rilievi critici alla suesposta concezione si sono concentrati sull’evoluzione del quadro ordinamentale complessivo, ovvero sul passaggio sempre più frequente da forme di intervento pubblico diretto nell’economia, a un modello fondato sull’utilizzo da parte della P.A. di strumenti di indirizzo, regolamentazione, e controllo di attività, non solo gestite, ma anche assegnate sotto il profilo della titolarità ai privati, e quindi la cui connotazione pubblicistica, è da ricondursi a parametri diversi dal profilo formale.
Il fronte della teoria della nozione oggettiva ricava importanti argomenti a favore, sia dall’art. 43 Cost. ove è costituzionalmente ammessa l’eventualità, non solo di una gestione dei servizi pubblici ad opera dei privati, ma anche della titolarità in capo a questi ultimi, sia dalla disciplina della privatizzazione materiale ex art. 2 del D.L. n. 332/94, conv. in l. n. 424/94, che conservando in capo al Ministero del Tesoro (ora Finanze), poteri speciali sugli enti pubblici privatizzati [31], dimostra come il mutamento della natura giuridica degli enti da pubblici a privati, non comporta il venir meno dei caratteri connotativi dei servizi di pubblico interesse.
Onde ricavare elementi distintivi del servizio pubblico locale, che non si identifichino con la titolarità soggettiva degli interessi perseguiti, quello che è emerso dall’analisi del modulo gestorio delle società partecipate dall’ente locale, che insieme alla concessione a terzi costituisce la modalità più diffusa di esternalizzazione del servizio, è la presenza di una relazione di controllo e vigilanza dell’ente commissionario sui gestori delle attività di interesse generale.
Tanto che, alla stregua della teoria oggettivistica, quello che viene ritenuto dato costante del sistema dei s.s.p.p.l.l. è il loro assoggettamento a una disciplina settoriale che assicuri, anche attraverso il costante monitoraggio dell’ente esponenziale della collettività di riferimento, il perseguimento dei fini sociali, non costituendo, questi ultimi, il fondamento tautologico della disciplina, ma la ragione stessa della sottoposizione di questa specie di attività ad un regime particolare.
Non a caso, proprio la rilevanza e qualità dell’assoggettamento a discipline di settore è motivo di differenziazione all’interno della stessa teoria oggettiva.
La prima sostiene che vadano ricomprese nella nozione in parola tutte le attività in un modo o nell’altro oggetto di regolamentazione pubblica: e, a sostegno, si richiama il parere dell’Adunanza Generale del Consiglio di Stato, n. 30 del 12 marzo 1998 reso sullo schema del decreto n. 80/98, secondo cui l’art. 33 del decreto citato avrebbe fatto propria la nozione oggettiva di servizio pubblico nella sua portata “più ampia”, fino a sussumere, nel suo ambito, “tutte le attività svolte da qualsivoglia soggetto, riconducibili ad un ordinamento di settore, sottoposte cioè al controllo vigilanza o mera autorizzazione da parte di un’amministrazione pubblica”.
Nel tentativo di superare il limite intrinseco di questa lettura, consistente nella difficoltà di differenziare una qualunque attività economica, anch’essa spesso subordinata a forme, più o meno invasive di interferenza da parte dei pubblici poteri, dai servizi pubblici locali, si pone l’altra frangia interpretativa, che non si nasconde di prediligere, per comprendere la quale è utile riprodurre gli esiti giurisprudenziali e dottrinari sulla differenza tra concessioni e appalti di servizi [32].
Il complesso dei segni distintivi, infatti, tra ciò che viene considerato pubblico servizio e ciò che rientra invece in una semplice attività economica di cui la P.A. possa servirsi per i propri bisogni, infatti, trova corrispondenza proprio nel tipo di strumento utilizzato per usufruire della prestazione del terzo [33].Va a tal proposito ricordato che la tematica ha investito sia la giurisprudenza della Corte di Giustizia della Comunità Europea, che nel definire il regime applicativo delle concessioni, mancante di un’espressa disciplina, differentemente dagli appalti di servizi (Direttiva 92/50/Cee), ha precisato che per le concessioni rilasciate dai Paesi membri valgono i fondamentali principi comunitari di parità di trattamento (art. 43 e art. 49 del Trattato istitutivo dell’Unione Europea), di trasparenza, di proporzionalità, di mutuo riconoscimento, sia il Governo italiano che nella circolare del Consiglio dei Ministri n. 3944/02 sottolinea che, mentre nell’appalto di servizi l’imprenditore privato, presta il servizio in favore della P.A., viceversa nella concessione (o affidamento) di pubblico servizio, il concessionario sostituisce la P.A. nell’erogazione del servizio, ossia nello svolgimento dell’attività diretta al soddisfacimento dell’interesse collettivo.
La posizione da ultimo menzionata viene, in realtà, indicata come criterio del destinatario, che insieme a quello dell’efficacia diretta e quello gestionale, aiutano ad orientare la moderna dottrina e giurisprudenza nell’individuazione, tra le varie attività svolte dai privati, in senso lato, in favore della P.A., quelle identificabili come servizio pubblico.
Il primo, come già anticipato, ricostruisce la nozione di servizio pubblico in negativo, ovvero definendo quella di appalto di servizi come la prestazione resa da un imprenditore privato,scelto a seguito di una selezione pubblica, ai fini del funzionamento interno della sua macchina operativa, e non allo scopo diretto di fornire utilità ai cittadini [34]. La debolezza dell’argomento, però viene generalmente ravvisata nella facile obiezione secondo cui ogni, qualsivoglia prestazione in favore di un ente pubblico, si risolve in un’attività vantaggiosa per l’intera collettività cui l’ente committente si riferisce [35].
A soccorso, dunque di casi dubbi, si pone il criterio dell’efficacia diretta, secondo cui l’analisi dell’interprete dovrebbe concentrasi, non sulle utilità ulteriori offerte dall’attività del privato, ma su quelle dirette, che nel caso dell’appalto, come notato anche dalla giurisprudenza amministrativa, si riferiscono all’organizzazione dell’ente pubblico che beneficia della prestazione.
Non manca poi chi evidenzia la rilevanza di un altro profilo di distinzione, individuato come criterio gestionale e caratterizzato da un fenomeno di traslazione dell’alea inerente una certa attività in capo al soggetto privato[36]: si potrebbero tratteggiare i profili della concessione solo quando l’operatore economico si assuma i rischi di gestione del servizio, rivalendosi sull’utente attraverso la riscossione di un canone.
In particolare, questo del soggetto su cui ricade il costo della prestazione è un altro elemento attenzionato dai giudici nazionali [37], secondo i quali costituisce pubblico servizio, affidabile a una società mista, quello reso a terzi ed il cui corrispettivo sia in tutto o in parte a carico degli utenti, mentre è da ravvisarsi come appalto di servizi, con l’applicazione della corrispondente disciplina (d.lgs. n. 157/95), da affidarsi mediante gara pubblica, quello reso a favore di un’amministrazione che ne corrisponde il controvalore economico [38].
Quanto
invece alla dottrina tradizionale, essa si attesta relativamente al tema in
parola, sulla struttura del rapporto tra privato ed ente commissionario: di qui
la natura unilaterale del titolo concessorio di affidamento del servizio
pubblico contrapposta al carattere negoziale dell’appalto; il carattere
surrogatorio dell’attività svolta dal concessionario di pubblico servizio,
chiamato a
realizzare i compiti istituzionali dell’ente locale concedente, e quindi
determinante un effetto accrescitivo della sfera di attribuzioni del privato
affidatario, mentre l’appaltatore compie attività di rilevanza meramente
economica nell’interesse del committente pubblico; ed infine il trasferimento di
potestà pubbliche (autoritative o certificative ) in capo al concessionario, che
opererebbe quale organo indiretto dell’amministrazione, mentre l’appaltatore
eserciterebbe solo prerogative proprie di qualunque soggetto economico.
Ma non manca, poi, chi [39] ribadendo i criteri giurisprudenziali, aggiunge, il dato del carattere della struttura trilaterale della sola concessione, che coinvolge la P.A., il concessionario e gli utenti del servizio cui spetta remunerare il concessionario, a fronte dell’appalto che lega giuridicamente solo amministrazione e imprenditore aggiudicatario, nonché il carattere divisibile della prestazione di pubblico servizio, di cui i singoli cittadini possono beneficiare distintamente e per l’intero.
In conclusione, e propedeuticamente alla soluzione dell’interrogativo del lavoro in oggetto, si può completare la formulazione della seconda versione della teoria oggettivistica, sulla base anche della portata espansiva dei principi comunitari [40] che si è tentato sin qui di sintetizzare: tra i caratteri fondamentali del servizio pubblico sono determinanti la necessità che esso sia esplicato in ossequio al principio di imparzialità; la doverosa osservanza di una serie di obblighi, tra cui anche quello di svolgere l’attività con carattere di regolarità e continuità; il divieto di favoritismi e discriminazioni; l’indirizzo delle prestazioni, cui lo stesso è preordinato, a tutti coloro che ne hanno titolo nel rispetto del principio di uguaglianza dei diritti dell’utente.
5.2. L’inquadramento della gestione tributaria come potere ablatorio.
Ebbene, l’approfondimento sin qui svolto appare maturo per offrire una soluzione soddisfacente al quesito circa l’inserimento della gestione tributaria tra i servizi pubblici locali, anche attraverso l’applicazione concreta delle conclusioni raggiunte, sia in tema di natura giuridica del potere esercitato dall’Amministrazione, sia in tema di confronto tra normative (speciale e generale), sia, infine, con riferimento agli spazi di applicazione della nozione di servizio pubblico locale.
Le letture del sistema prospettato si presentano immediatamente molteplici e caratterizzate da punti di forza e punti di debolezza, legati anche, e soprattutto, al ruolo giocato dal privato, nell’ambito dello svolgimento del servizio.
Chiarito infatti che il potere esercitato dalla P.A. locale nel gestire la provvista finanziaria proveniente dalla collettività, che vi concorre ai sensi dell’art. 53 della Costituzione, è un potere di carattere vincolato, con rari spazi operativi per l’assenza dell’agire discrezionale dell’amministrazione, a causa della copertura quasi totale della materia da parte della legislazione statale e regionale, una buona parte degli studiosi della materia [41] sconsiglia la qualificazione della materia in questione tra quelle riconducibili alla nozione di servizio pubblico.
L’idea [42] si articola principalmente sull’inopportunità di consentire che un servizio, espressione per eccellenza dell’autoritatività e sovranità dello Stato, dal corretto funzionamento del quale dipende, a buona ragione, l’adempimento stesso dei compiti istituzionali dell’ente locale, e che risulta connotato dalla coattività e assenza di margini di apprezzamento discrezionale (e nell’accertamento, e nella liquidazione, e nella riscossione dei tributi), sia affidato a privati imprenditori, in alternativa alle forme pubblicistiche di gestione.
In particolare la tesi fondata, soprattutto sull’improponibilità di una gestione a mezzo di società miste [43] che “dovrebbe... far riflettere il legislatore, in quanto in materia tributaria non troverebbe collocazione lo scopo di lucro perseguito dalle società costituende, non essendo ammissibile caricare il contribuente, oltre che del giusto tributo, anche degli ulteriori utili societari”, è diffusa anche se risente, indubbiamente, dell’indimostrabilità della corrispondenza necessaria tra servizio pubblico e scelte di gestione privatizzate [44], come se il modulo gestionale prescelto condizionasse inevitabilmente la natura del potere esercitato, mentre, come più volte si è assistito nella storia più recente delle riforme della P.A., esso rimane neutro e plasmabile alle esigenze primarie dell’agire funzionalizzato.
Una posizione, che mira a mediare tale ostracismo per la partecipazione dei privati alla gestione tributaria, e che, si chiarisce, essere frutto di una precisa volontà di responsabilizzazione interna delle risorse umane dedicate al settore, sostiene la c.d. esternalizzazione parziale, ovvero la creazione di forme di collaborazione con i privati, con riferimento a quelle operazioni strumentali all’emanazione degli atti di accertamento e di riscossione [45], per le quali, però, si darebbe vita ad un rapporto qualificabile come appalto di servizi, e non come concessione, non subentrando il privato al Comune (od ad altro ente impositore) in tutti i diritti e gli obblighi inerenti alla titolarità del servizio, che rimane in capo agli enti citati, con esclusione dell’applicabilità della categoria di servizio pubblico e relativa giurisdizione esclusiva del g.a. [46].
Così da ultimo T.A.R. Sardegna, 03/02/04,sentenza n. 97, che in merito all’incarico affidato ad una società privata per l’esecuzione del servizio di rilevazione del territorio e relativo censimento delle unità immobiliari, ai fini della liquidazione e accertamento dell’ICI e della TARSU, ha decretato non doversi ammettere sulla controversia relativa all’esatto adempimento dei compiti così affidati la giurisdizione vigente in materia di pubblici servizi, proprio perché trattasi di attività di carattere strumentale e accessoria rispetto all’attività di istituzionale di accertamento e riscossione dei tributi locali, non delegata, nel caso de quo, alla società predetta [47].
Non dissimili, poi, per ciò che concerne la qualifica del rapporto tra privati e titolare della potestà impositoria, le considerazioni circa la rispondenza dell’attività di gestione delle entrate vera e propria, ai vari criteri, come sopra identificati, connotativi della concessione e, di conseguenza del servizio pubblico.
A seguire,
infatti, il criterio del destinatario, è difficile smentire che la
gestione tributaria si sostanzia in una prestazione svolta da un imprenditore
nei confronti di un amministrazione (nel nostro caso un ente locale), ai fini
del funzionamento della sua macchina operativa, e non solo allo scopo diretto di
fornire utilità ai cittadini. Anzi a ben vedere, l’attività volta primariamente
alla soddisfazione dell’esigenza di provvista finanziaria dell’ente locale,
inteso come apparato organico si presenta in via diretta come un’attività
privativa e non accrescitiva del singolo contribuente, anche se poi le somme
raccolte, spontaneamente o coattivamente, serviranno indirettamente a soddisfare
i bisogni della collettività locale, così non potendosi ritenere applicabile, ai
fini dell’individuazione dei requisiti della concessione, neanche il criterio
dell’efficacia diretta.
Quanto infine, al criterio gestionale, ovvero alla ricostruzione del
rapporto che lega l’ente di riferimento, il privato imprenditore e l’utenza, da
un lato, è difficile dire che il concessionario o gli altri vari soggetti
individuati nell’art. 52 del d.lgs. n. 446/97, assumano su di sé il
rischio della gestione, vista la consueta operatività della clausola nominata “
del non riscosso come riscosso”, che consente al soggetto che svolge
concretamente il servizio, di non subire l’alea connessa alla mancata esazione
delle imposte dai privati inadempienti, dall’altro, anche tenendo a mente le
risultanze dei precedenti criteri, sebbene il rapporto si configuri
apparentemente come trilaterale (come richiederebbe la nozione di concessione di
pubblico servizio) [48], ad un’analisi più attenta, si vede come la
collettività degli utenti non funga da destinatario della prestazione svolta in
suo favore dall’imprenditore privato, piuttosto, la stessa, costituendo il
soggetto conculcato per soddisfare la pretesa autoritativa della P.A. intesa
come apparato.
Quanto poi, al costo del servizio (altro elemento sintomatico del criterio gestionale) come già spiegato, esso di identifica, nell’aggio, ovvero nella percentuale predeterminata di guadagno, che varia a seconda di vari parametri, sulle somme riscosse, il quale grava direttamente sull’amministrazione che affida il servizio, costituendo, anzi, una delle voci più rilevanti ai fini della selezione pubblica del contraente.
A voler dunque valutare gli argomenti illustrati, nonché un ulteriore dato letterale, quale quello espresso del richiamo delle modalità di affidamento dei pubblici servizi nel corpo dell’art. 52 del d.lgs. n. 446/97 [49], che potrebbe anche essere interpretato come un rinvio ai soli modi di selezione del contraente, senza che l’attività in questione ne condivida anche la natura (perché se così fosse non sarebbe stato necessario un richiamo espresso della normativa di riferimento, che avrebbe avuto immediata applicazione), la soluzione al quesito che accompagna queste considerazioni, dovrebbe essere negativo: il servizio di liquidazione, accertamento e riscossione dei tributi non è da considerarsi servizio pubblico, quanto piuttosto espressione del più classico potere ablatorio della P.A., ove il ruolo dei privati s’inquadra, tutt’al più, nello schema dell’appalto di servizi.
5.3. Una possibile tesi alternativa: gli argomenti a favore del servizio pubblico.
In verità, anche per aderire alla giurisprudenza amministrativa degli ultimi anni e, chiarendo che la normativa di settore (d.lgs. n. 446/97) precede cronologicamente quella generale dei sevizi pubblici, con la quale va individuata l’esatta relazione, si tenterà un approccio diverso, rivolto, da un lato, a superare gli argomenti descritti, e dall’altro ad evidenziarne altri che possano suscitare almeno il dubbio che quella in precedenza prospettata non sia l’unica soluzione sostenibile.
Innanzitutto l’argomento principale, concernente la qualità del potere di imposizione, connotato più degli altri poteri pubblicistici dei caratteri della funzione, come in contrapposizione per antonomasia con le attività sociali di erogazione, che si distinguono invece per la prevalenza qualitativa degli atti materiali su quelli giuridici, può essere affrontato alla luce della più moderna concezione di pubblico servizio.
L’amplificazione, infatti, dei compiti dello Stato nei confronti del bisogno di benessere della collettività di riferimento, e l’articolazione delle modalità di intervento dello stesso, rende riduttiva la dicotomia tra attività materiali (fatti, operazioni, prestazioni in senso tecnico, oggetto di obbligazioni assunte nei confronti di determinati destinatari), di cui sarebbero connotati i pubblici servizi [50], e le attività giuridiche non libere nel fine caratterizzanti invece la funzione [51] essendo tale visione espressione, piuttosto, della concezione del servizio pubblico in senso soggettivo, utilizzata ora per contrassegnare i settori pubblici connotati dalla preminenza dell’attività materiale su quella giuridica (e dunque per evidenziare il collegamento, tramite l’imputazione soggettiva, con le finalità pubblicistiche), ora quelli non caratterizzati dall’esercizio del potere d’imperio della P.A., o ancora più genericamente le attività sociali della P.A., non proprie ed originarie dello Stato.
Ma il rilievo che, in entrambi i settori si assiste alla compresenza di attività di stampo pubblicistico autoritativo e attività di carattere materiale, e che le prospettive di ottimizzazione dei risultati gestionali dei pubblici servizi hanno condotto sempre più frequentemente all’affidamento della cura dei servizi a soggetti esterni alle articolazioni proprie della struttura pubblica, hanno messo in crisi l’accezione soggettiva per avallare, piuttosto, quella oggettiva, comprensiva di tutte quelle attività lato sensu economiche, sottoposte a un particolare regime per la rilevanza sociale degli interessi perseguiti, indipendentemente dall’ imputazione soggettiva a pubblici poteri.
Ebbene, se gli aspetti da evidenziare nella nuova accezione di servizio pubblico locale superano la mera distinzione tra attività autoritative e non, ammettendo che nello svolgimento delle erogazioni di servizi nei confronti della collettività, che si concretano in attività economiche in senso lato, cioè astrattamente capaci di produrre un utile, si possano intravedere anche poteri in senso proprio esplicantisi in atti giuridici, non si pone un vero ostacolo alla riconducibilità a questa nozione del servizio di gestione tributaria.
Quando all’inizio, si è operata una ricostruzione delle attività in concreto svolte per assicurare all’ente locale la provvista finanziaria proveniente dalla collettività, si è messo in evidenza come accanto ad atti giuridici espressione per eccellenza del potere impositivo dello Stato, come l’attività propriamente accertativi [52], si affiancano attività materiali, e dunque neanche coinvolgenti l’esercizio di pubblici poteri discrezionali, quali quelli in rilievo al momento dell’esecuzione dell’attività impositiva (in particolare, il momento della riscossione, ove manca il connotato essenziale del pubblico potere, ovvero l’intermediazione del provvedimento).
In questa visione, non può sottovalutarsi il contributo ermeneutico del noto e recente arresto della Consulta in materia di criteri di riparto della giurisdizione sui servizi pubblici [53], che, nel delegittimare, nell’ambito della giurisdizione esclusiva, il criterio dei blocchi di materie, tanto utilizzato con il d.lgs. n. 80/98, e ritenuto invece incostituzionale per contrasto con gli art. 102 e 103 della Costituzione, ha invece sottolineato che il radicamento della giurisdizione esclusiva, deve essere giustificata dall’inerenza della controversia a una situazione di potere dell’amministrazione [54], potendosi desumere dalla motivazione della sentenza che proprio il “potere” dovrebbe essere oggetto del giudizio, per potersi avere esplicazione della giurisdizione esclusiva.
Dire,
infatti che “la materia dei pubblici servizi può essere oggetto di
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, se in essa la pubblica
amministrazione agisce esercitando il suo potere autoritativo”, ed escludere
da essa tutte le controversie concernenti i diritti soggettivi, quali una volta
per tutte il contenzioso sulle prestazioni, significa ammettere, ben più che
implicitamente che la materia nel complesso è connotata dall’alternanza di
funzioni e attività materiali
corrispondentemente all’alternanza tra posizioni di diritto soggettivo e
interessi legittimi, riscontrabile come visto anche nel servizio di
liquidazione, accertamento e riscossione dei tributi.
Un’altra posizione dottrinale [55], per la verità minoritaria, risolve l’argomento del contrasto tra servizio pubblico e autorità autoritativa, negando che il potere vincolato (che caratterizza come visto la potestà amministrativa di imposizione) risponda, nella sua essenza, al paradigma del potere funzionalizzato.
Essa considera non coerente un sistema in cui la c.d. pretesa sostanziale, appare de visu, tramite il raffronto con la legge (che precisa la base imponibile, le aliquote, i periodi di imposta e, in generale, tutti i presupposti di imposta), fondata o infondata e dove il provvedimento, non è mediazione tra interessi pubblici e privati, ma mera applicazione dei parametri normativi e, non ammissibile come tertium genus, un potere (quello vincolato), ove a fronte di posizioni di diritto soggettivo, proprio per l’assenza di intermediazione del potere discrezionale, si continua a chiedere l’intervento del giudice amministrativo.
Coniugata l’essenza del potere di imposizione tributaria, con l’aspetto della nozione di servizio pubblico locale, che riguarda la concreta esplicazione del potere pubblico, vanno superati, ora i rilievi critici connessi ai criteri di individuazione della concessione di pubblico servizio (rectius servizio pubblico).
Se infatti difficilmente superabili appaiono le argomentazioni suindicate, concernenti il servizio in parola se passato al vaglio dei criteri del destinatario, dell’efficacia diretta e della gestione, così come interpretati dalla dottrina consolidata, è vero pure che a margine è possibile espungere altri rilievi degni di nota.
Da lato del destinatario, il servizio pubblico (locale) si connota per la soddisfazione diretta dei bisogni della collettività, che ne usufruisce sostenendone un costo, sottoforma di tariffa; ma come si può notare, se ci si allontana da un approccio tipicamente formalistico, il servizio di gestione tributaria; sebbene non si risolva direttamente in una prestazione a favore del singolo contribuente, anzi per lui concretandosi in una privazione quantificabile nell’ammontare del tributo, di sicuro costituisce la principale modalità di approvvigionamento di risorse dell’ente locale per far fronte allo svolgimento dei suoi compiti essenziali, in questo potendosi definire come diretto a realizzare le esigenze non propriamente del singolo, ma piuttosto della cittadinanza intera.
Quanto al costo del servizio, poi, non è facilmente contestabile che, se è vero che l’aggio formalmente viene corrisposto dalla P.A. committente del servizio, nelle forme di gestione privatizzate esso viene riversato in via definitiva sui singoli contribuenti sui quali graverà anche la percentuale di utile dell’imprenditore selezionato grazie alla gara pubblica.
Infine, a voler mettere in evidenza altri aspetti di quelli che compongono il criterio gestionale, va sostenuto che, in caso di affidamento a privati del servizio, non si può negare il carattere surrogatorio dell’attività svolta dal concessionario della riscossione, o dalla società mista appositamente costituita dall’ente locale, o dal privato imprenditore iscritto nell’albo speciale costituito a norma dell’art. 53, d.lgs n. 446/97, che lungi dal compiere un’attività di mera rilevanza economica nell’interesse del committente pubblico, esercitano, in realtà, compiti della cui centralità e delicatezza nella vita dell’ente locale, si è ampiamente illustrato.
Per non parlare, poi, dell’effetto accrescitivo, che inevitabilmente deriva all’eventuale affidatario del servizio in termini di potestà pubbliche esercitabili (autoritative o certificative), quali la possibilità di emanare atti di accertamento, la facoltà di emettere avvisi di pagamento, e quella connessa alle procedure propriamente esecutive e coattive della riscossione, che consentono di differenziare chi svolge una prestazione economica in favore di un soggetto pubblico da chi,invece, si sostituisce a questi per svolgere funzioni di sua pertinenza in favore del pubblico.
Quanto, da ultimo, al riscontro con il criterio dell’efficacia diretta, va tenuto a mente che sul concetto in questione diverse appaiono le posizioni della giurisprudenza circa la rigidità dell’adozione dello stesso, proprio peraltro a dimostrazione di come sia ancora lungi dall’essere pacifica il contenuto della nozione di servizio pubblico.
Infatti per riportare un caso che presenta forti analogie con quello in esame, il Consiglio di Stato [56], nell’affermare che la controversia tra pubbliche amministrazioni avente ad oggetto il trasferimento di fondi pubblici tra una Regione e una Provincia per la gestione del locale pubblico servizio di trasporto, rientra tra le controversie in materia di pubblico servizio devolubili alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, sostiene che “la predisposizione di mezzi finanziari necessari per lo svolgimento di un servizio pubblico è inscindibilmente connaturale a quest ‘ultimo, e non già attività mera attività strumentale, rispetto ad esso”.
In particolare, il massimo organo di giustizia amministrativa non sembra contravvenire alla sua costante giurisprudenza secondo cui, alla cognizione del g.a. in materia di pubblici servizi, vadano affidate le controversie relative ad attività istituzionalmente e direttamente finalizzate alla soddisfazione dei bisogni della collettività e non anche le attività strumentali al servizio medesimo, che “esulano dal concetto di pubblico servizio”, pur distinguendo dalla nozione di strumentalità il ruolo della provvista finanziaria, definendola come “inscindibile dal servizio stesso, trovando esso nei mezzi di finanziamento la stessa possibilità di esistenza”.
In sostanza, l’attribuzione di fondi pubblici è posta in diretta connessione con il necessitato raggiungimento di finalità di interesse collettivo, anzi tale erogazione costituisce espressione di autonomia finanziaria dell’Ente Regione ed esercizio di una funzione amministrativa di tipo organizzativo-contabile, in ciò definendosi, peraltro, l’altro requisito richiesto per l’assoggettamento della controversia alla cognizione del g.a. in via esclusiva,ovvero la P.A. che agisce quale autorità [57].
Dunque, nell’ambito di una qualunque provvista finanziaria, sia essa proveniente dal gettito tributario, sia essa oggetto di obbligazioni di diritto pubblico, non si fa questione di strumentalità al servizio pubblico, e dunque di efficacia solo “indiretta”, dell’attività nei confronti dei bisogni della cittadinanza, ma piuttosto può dirsi soddisfatto anche il criterio summenzionato, grazie alla radicata inerenza e necessità della stessa per lo svolgimento dei compiti essenziali dell’ente locale.
Una volta accettata la ricostruzione che ammette la riconducibilità del servizio tributario locale alla categoria dei servizi pubblici locali, va affrontato il tema dell’operatività rispetto alla disciplina speciale descritta in precedenza, della normativa generale in materia di s.s.p.p.l.l., come recentemente modificata dall’art. 14 del d.l. n. 269/03 (a sua volta corretto in sede di legge di conversione n. 326/03).
Il nodo del rapporto tra le discipline va sciolto tramite l’identificazione della qualità del servizio in questione, nella dicotomia tra servizi a rilevanza economica e servizi privi di rilevanza economica, non essendo più operante per questi ultimi la normativa nazionale sui s.s.p.p.l.l., a seguito dell’abrogazione dell’art. 113 bis, avvenuta con la pronuncia della Corte Costituzionale n. 272/04.
La Corte Costituzionale, investita della questione di legittimità costituzionale dell’art. 14 commi 1° e 2° del d.l. n. 269/03, per violazione dell’art. 117 Cost. (per invasione della competenza legislativa regionale, non essendo la materia dei servizi pubblici locali riservata allo Stato in via esclusiva) e 118 Cost. (per mancata indicazione dei presupposti per l’intervento legislativo in sussidiarietà), ha risposto differentemente per le due categorie di servizi.
Per i servizi a rilevanza economica, il Supremo giudice delle leggi ha confermato la legittimità dell’intervento legislativo in quanto esplicativo della competenza legislativa dello Stato in via esclusiva a tutela della concorrenza, prevista dalla lettera e) dell’art. 117 Cost., come novellato a seguito della riforma del Titolo V.
A diversa conclusione è pervenuta invece, la Corte con riferimento ai servizi privi di rilevanza industriale, con la relativa pronuncia di incostituzionalità dell’art. 113 bis, con riferimento ai quali viene meno l’esigenza di tutela della libertà della concorrenza e si configura pertanto illegittima la compressione dell’autonomia legislativa regionale [58].
Se infatti il riferimento ai servizi privi di rilevanza industriale [59], vigente nella normativa antecedente alla riforma, appariva di immediata comprensione, l’accostamento alla corrispondente categoria dei servizi privi di rilevanza economica, non appare del tutto convincente.
E’ reale il dato che nel servizio di gestione tributaria non costituisce causa primaria dell’erogazione lo scambio di prestazioni tra il soggetto erogante e l’utente (in cui si appaleserebbe la funzione economica), visto che formalmente l’utente non riceve alcuna erogazione (ma anzi una decurtazione economica), e che peraltro il costo del servizio (l’aggio), risulta a carico dell’amministrazione che delega la gestione dei tributi, ma è altrettanto verificabile che, da quanto si è asserito descrivendo le possibili modalità di conduzione del servizio, non è estraneo a questo settore la gestione con metodo economico [60], intesa come lo scopo di coprire i costi di gestione e remunerare i capitali investiti, che anima i privati imprenditori (concessionari o partner di società miste), ad interessarsi a questo campo dell’amministrazione.
Dunque, a prescindere da rilievi formalistici, può includersi il servizio di gestione tributaria tra quelli a rilievo economico, confermando per esso l’esigenza, enunciata dalla summenzionata pronuncia di assicurare “in forme adeguate e proporzionate, la più ampia libertà di concorrenza nell’ambito dei rapporti – come quelli relativi al regime delle gare o delle modalità di gestione e conferimento dei servizi – i quali, per la loro diretta incidenza sul mercato, appaiono più meritevoli di essere preservati da pratiche anticoncorrenziali”, soprattutto per quanto concerne la gestione “condivisa” con i privati.
Né varrebbe a escludere, a parere di chi scrive, l’operatività della legge nazionale, il dato della selezione all’ingresso dei soggetti privati, attraverso la previa iscrizione all’albo nazionale previsto dall’art. 53 del d.lgs. n. 446/97.
La previa richiesta, infatti, di requisiti tecnici e di esperienza sul campo, non è affatto espressione di una volontà del legislatore di restringere il mercato, quanto piuttosto la conferma che, trattandosi di un servizio teso alla soddisfazione di interessi generali, è di comune rilievo che la selezione di chi intenda contribuire al suo svolgimento, debba avvenire sulla base di corretti indici di professionalità ed esperienza.
6. La modalità di gestione ideale: la società mista a partecipazione pubblica maggioritaria.
Sulla base delle considerazioni sin qui svolte ci si propone di definire quale potrebbe essere, per l’ente titolare della potestà impositiva, la modalità di gestione ideale del servizio tributario.
In via generale, si ricorda che, sebbene la giurisprudenza amministrativa [61], ritiene che l’assetto e il regime dei servizi pubblici attenga a scelte di merito del Comune di competenza, nei cui confronti non sono individuabili posizioni soggettive tutelabili dai privati, parte della dottrina, invece, sottolineando l’erosione di un’area un tempo ascrivibile al merito amministrativo, ricostruisce il potere di scelta dell’ente locale tra le diverse modalità di regolamentazione del servizio, non in termini di opportunità insindacabile dal giudice di legittimità, ma piuttosto come effusione di un potere tecnico-discrezionale.
Tale potere si muoverebbe tra valutazioni di efficienza, economicità ed efficacia dei servizi, in relazione all’interesse pubblico da perseguire, suscettibili di riesame da parte del giudice amministrativo.
Il momento della decisione del modello ha [62] costituito elemento fondante della presente ricerca, anche alla luce delle più recenti tendenze volte ad utilizzare nella gestione dei pubblici servizi tecniche di esternalizzazione, tese a realizzare un’ “amministrazione leggera”, in cui la P.A., libera da problematiche operative di mera gestione, possa concentrare le sue energie nelle funzioni di programmazione e controllo.
Vengono, infatti, riconosciuti come potenziali vantaggi del principio di separazione tra le funzioni di indirizzo all’Ente locale e le funzioni di risultato all’outsourcer, da un lato, la possibilità per l’amministrazione di concentrarsi sulle funzioni strategiche che sono proprie del suo ruolo naturale (programmazione e controllo), dall’altro, l’implementazione della qualità del servizio, dovuta alle maggiori dotazioni in termini di strumentazione e di specializzazione del privato, capaci di renderlo più competitivo, e ancora la possibile riduzione dei costi del servizio per la operatività di economie di scala.
Anche per il settore tributario, però, fermo restando il dato del crescente ricorso ad operazioni di esternalizzazione [63], si assiste ad un dibattito interno circa la preferenza per il modello di partenariato pubblico-privato “meramente contrattuale” (appalto e concessione), oppure per quello “istituzionale”,che “implica una cooperazione tra il settore pubblico e il settore privato in seno ad un’entità distinta, che ha la “missione” [64]di assicurare la fornitura di un’opera o la prestazione di un servizio a favore della collettività.
Ebbene, dall’analisi comparativa delle diversi moduli operativi possibili, deriva la convinzione che nell’ambito della gestione tributaria il modello ottimale si identifichi nella costituzione ex novo di società mista a prevalente partecipazione pubblica [65].
Infatti, l’associazionismo istituzionale, a fronte della possibilità di realizzare sinergie operative tra più Comuni, risente della tradizionale impostazione burocratica del servizio, e dunque, costituirebbe una forma di esternalizzazione solo apparente.
L’adesione a una società interamente privata già esistente, manifesta l’evidente vantaggio di sfruttare un know-how consolidato e testato sul mercato,a cui si accompagnano, però, le difficoltà connesse alla procedura di gara e i rischi di eventuali pendenze della precedente gestione societaria. Quanto, poi, alla scelta dell’affidamento in appalto puro e semplice, accanto ai pregi della liberazione di risorse umane e materiali interne, della separazione delle funzioni di indirizzo, e della quantificazione esatta del costo del servizio, si oppone l’assoluta impossibilità del Comune di compartecipare alle decisioni nella fase gestionale, nonché il rischio che il soggetto terzo, totalmente estraneo all’ente, trasponga in sede contenziosa eventuali discordanze nell’interpretazione e nell’applicazione del contratto di appalto, con inevitabili ripercussioni sui fruitori del servizio (ritardi, aumenti dei costi di gestione, etc. etc.).
La costituzione ex novo di una società mista, invece, a fronte delle difficoltà tecniche e dei relativi oneri finanziari di avvio, presenta indubbi profili positivi.
Innanzitutto, in un settore come quello tributario, in cui sono coinvolti interessi economici delle famiglie e delle imprese, e in cui il potenziale contenzioso può diventare esplosivo, attraverso la partecipazione azionaria congiunta di amministrazione e privati, si potrebbe arginare il maggiore fattore di rischio connesso alla gestione privata, ovvero la perdita del controllo della materia esternalizzata.
La scissione netta tra funzione di indirizzo e funzione gestionale verrebbe attenuata dalla presenza di rappresentati dell’ente locale negli organismi decisionali della società con garanzia di applicazione delle direttive in sede operativa, e minore esigenza di un controllo repressivo ed affidato a strumenti contrattuali, dato che l’azione di vigilanza si svolgerebbe più efficacemente in itinere.
Invero, solo il modulo di gestione condivisa, a dispetto dell’ipotesi dell’appalto che reca con sé il rischio di un progressivo disinteresse per la qualità dei servizi resi al cittadino, consente all’Ente interessato di influire sulle politiche aziendali mediante la partecipazione attiva alle scelte strategiche dell’outsourcer (c.d. vigilanza preventiva); permette il controllo dei risultati economico-finanziari sia in corso di gestione, sia in sede consuntiva.
Infine il modulo in parola darebbe la possibilità all’Ente di monitorare costantemente tutti gli indici riconducibili al concetto generale di customer satisfaction (tempestività e correttezza dei processi di riscossione).
In ogni caso, il passaggio ad una gestione che mutua metodi e strumenti aziendalistici grazie alla presenza, anche se minoritaria, del socio privato, agevolerebbe il superamento delle inefficienze e degli sprechi connessi alla cultura burocratica, consentendo maggiore concentrazione sul raggiungimento degli obiettivi, piuttosto che sul mero rispetto delle formalità connesse alla gestione del servizio.
In più si supererebbe l’handicap connesso all’assenza in ambito pubblico di una vera e propria concorrenzialità, e ancora, la difficoltà, che in sede programmatica ha un notevole rilievo, di una puntuale quantificazione dei costi del servizio.
L’assenza di una pregressa esperienza sul campo, che reca il vantaggio di una strumento privo di pendenze commerciali, finanziarie e giuridiche (rapporti giuridici controversi, e contenziosi in atto), potrebbe essere colmata dalla selezione accurata di un contraente, tra quelli iscritti all’albo più volte citato [66], che dia garanzia del possesso di requisiti di professionalità, competenza e dotazioni organiche.
Un altro concreto vantaggio che il Comune potrebbe ottenere dalla costituzione di una società mista controllata, sarebbe ravvisabile nel risparmio finanziario, connesso alla ridistribuzione della remunerazione del servizio: parte dell’aggio, infatti, invece che arricchire esclusivamente il privato gestore, in caso di affidamento esterno, tornerebbe all’amministrazione sottoforma di dividendi. Tale aspetto, inoltre, sarebbe in grado di scoraggiare il privato unico affidatario dall’ attuare una politica gestionale troppo aggressiva: con la condivisione dell’utile, e l’inevitabile controllo sulla sua formazione da parte del socio pubblico, si eviterebbe ad un outsourcer poco professionale di puntare esclusivamente sulla quantità della base imponibile, e gli si imporrebbe di non collegare l’aggio ad entrate sic et simpliciter riscosse, ma piuttosto ad entrate giuridicamente e finanziariamente certe, con conseguente miglioramento anche sulla qualità del servizio.
La creazione poi di una struttura ad hoc per la gestione dell’accertamento e della riscossione dei tributi, in grado di porsi quale interlocutore unico [67] del contribuente nell’offrire procedimenti, anche esecutivi, unitari ai fini delle diverse imposte, consulenza e informazione sulle questioni tributarie, realizzerebbe, da un lato, obiettivi di semplificazione, e dall’altro, maggior gradimento dell’azione amministrativa in ordine alla riduzione del possibile contenzioso.
Da ultimo occorre evidenziare le potenzialità di sviluppo di un organismo così congegnato sia dal punto di vista qualitativo, con riferimento all’affidamento di compiti amministrativi correlati allo svolgimento delle attività tributarie (toponomastica, censimento degli immobili, gestione delle occupazioni mercatali, allacciamenti ai servizi acquedottistici, del gas ed altre), la cui gestione può incrementare, anche indirettamente, il reperimento di risorse da parte della società e dello stesso ente locale, sia dal punto di vista dell’estensione dell’attività tributaria verso ambiti territoriali esterni al Comune di appartenenza.
Per quest’ultimo profilo, premesso che l’ammissibilità di attività extramoenia delle società miste è condizionata alle specifiche esigenze della collettività di riferimento[68], la normativa speciale, (art. 2 co. 2° del D.M. 289/00) richiede, a differenza delle società miste che debbano gestire il servizio solo nel Comune di appartenenza, l’iscrizione all’albo ex art. 53 del d.lgs. n. 4465/97 [69] della società in parola, nonché, espressamente, l’espletamento della procedura ad evidenza pubblica per l’aggiudicazione dell’affidamento del servizio da parte di un altro comune, che non appare richiesta per la società ad ambito territoriale limitato, con trattamento dunque, esattamente equiparato a un soggetto privato.
7. Limiti del modello: il ripensamento della Corte di Giustizia sugli affidamenti in house.
I molteplici motivi che hanno giustificato la preferenza per la gestione del servizio tributario a mezzo di società mista, vanno confrontati criticamente con la recente rilettura dell’istituto dell’affidamento in house operata dalla Corte di Giustizia Europea nella sentenza 11 gennaio 2005, causa C-26/03, che impone di riconsiderarne la validità.
Come già precisato nella parte dedicata all’evoluzione giuridica delle società partecipate, era diffusa l’opinione [70], giustificata anche dal dato normativo concernente la disciplina dell’assegnazione dei servizi pubblici locali direttamente a società con capitale misto pubblico privato, (art. 14, d.l. n. 269/03, in parte integrato dall’art. 4, co. 234°, l. n. 350/03), secondo la quale una volta individuato con evidenza pubblica il socio privato di minoranza, la scelta stessa del modulo organizzativo comportasse l’affidamento diretto e privilegiato del servizio alla società appositamente costituita [71].
Si è parlato in dottrina [72] di gestione diretta in senso formale [73], in quanto la procedura selettiva non sarebbe omessa, ma solo anticipata al momento della scelta del socio privato, e sarebbe giustificata dal presupposto che il servizio non viene affidato a un qualunque imprenditore privato, ma, sotto l’abito formale di un soggetto terzo, “a una struttura commerciale che di fatto è un’emanazione dello stesso soggetto-amministrazione”[74].
Ma la legittimità della pratica secondo cui l’applicazione di garanzie a monte nella scelta del socio privato sia sufficiente ad escluderne altrettante a valle, e cioè nella fase dell’affidamento del servizio, elevata dal nostro legislatore al rango di forma di gestione ordinaria, è stata oggetto di rinvio alla Corte di Giustizia da parte di numerosi Stati Europei, soprattutto per i profili di incompatibilità con gli obblighi comunitari di parità di trattamento, trasparenza e libera concorrenza.
Se infatti in diverse pronunce [75] la Corte di Giustizia della CE ha ammesso la deroga al rispetto delle direttiva comunitaria in materia di appalti n. 92/50, in presenza di un forte controllo da parte della P.A. aggiudicatrice nei confronti dell’ente aggiudicatario (controllo analogo, a quello che l’ente svolge sui propri servizi), e dello svolgimento della parte più importante dell’attività in favore dell’ente che lo controlla, solo nell’ultimo arresto del giudice comunitario sopra menzionato [76], si è chiarita la portata dei requisiti legittimanti la decisione di non ricorrere alla gara.
A proposito del controllo analogo, che autorizzerebbe l’affidamento in house anche della gestione tributaria alla società mista, individuata come modello ottimale, la Corte comunitaria lo esclude in presenza di una partecipazione, anche minoritaria, di un’impresa privata al capitale di una società di cui sia titolare di quote o azioni anche l’amministrazione aggiudicatrice.
Esso sussiste, come ha ribadito il Consiglio di Stato [77], tutte le volte in cui il suo esercizio da parte dell’ente pubblico comporti la sostanziale compressione dell’autonomia funzionale e statutaria dell’organo amministrativo, in modo tale da ricondurre la società medesima nell’orbita pubblicistica, atteggiandola a mero strumento di un’azione amministrativa esternalizzata, solo nel momento formale, con forte analogia con il modello delle aziende municipalizzate di cui al r.d. n. 2578/25.
Questa impostazione non si concilia, però, con la presenza nell’assetto societario di un imprenditore privato, poiché la logica ispiratrice dell’intervento del soggetto privato è in grado di alterare le finalità e gli obiettivi pubblici da perseguire, e quindi tale da far sfumare i contorni del controllo analogo, e perché l’affidamento diretto costituirebbe violazione della concorrenza, e consentirebbe all’imprenditore di maturare un’ingiustificata posizione di privilegio nei confronti delle altre imprese del settore.
Secondo la ricostruzione della Corte di Giustizia, solo la totale partecipazione dell’amministrazione aggiudicatrice al capitale azionario del nuovo soggetto sarebbe in grado di assicurare un assoluto potere di direzione, coordinamento e supervisione del soggetto partecipato e, dunque, escluderebbe il rapporto di terzietà che esige il rispetto delle regole della concorrenza [78].
La Corte, dunque, precisa la necessità di procedere all’indizione di una gara pubblica per l’affidamento del servizio, anche in presenza di un soggetto costituito proprio in vista del suo svolgimento, prediligendo nel bilanciamento tra tutela della concorrenza e principio dell’efficienza, connesso all’esigenza di non rendere incerto l’utilizzo del nuovo organismo, il principio di derivazione comunitaria, che mira ad evitare la formazione di posizioni di privilegio ingiustificate all’interno del libero mercato.
L’obbligo di adeguarsi, dunque, agli indirizzi di derivazione comunitaria, indebolisce, alcuni degli argomenti portati a sostegno della società mista per la gestione del servizio tributario, perché se, da un lato, la necessità della doppia gara (una per la scelta del socio privato, e una per la selezione del soggetto affidatario), frena la promozione della partecipazione del privato al processo di esternalizzazione del servizio, dall’altro, l’affidamento diretto alle sole società a totale partecipazione pubblica rischia, ugualmente, di vanificare i vantaggi dell’apporto esterno in termini economici e di know-how, rendendo più che probabile la fuga dal modello.
Saranno gli esiti dell’esperienza concreta e gli sviluppi di un dibattito ancora lungi dall’essere sopito, a rivelare il grado di fondatezza delle considerazioni sin qui svolte.
NOTE
[1] La scelta della tematica da trattare appare ancor più opportuna se si tiene conto dell’esigenza di conciliare il richiamo che, la normativa di settore (art 52 e 53 del d.lgs. n. 446/97), opera in relazione ai moduli di gestione dei servizi pubblici locali, con la riflessione dell’inutilità di un richiamo espresso ad una normativa di per sé già applicabile, in considerazione della, implicita, identità di natura. E quello di chiarire la portata di tale rimando legislativo, a parere di chi scrive, costituisce un produttivo punto di partenza per lo svolgimento del lavoro.
[2] Si suole distinguere tra potestà normativa tributaria, intesa come potere di introdurre nuovi tributi soggetta al principio di stretta legalità (art. 23, art. 81 Cost. ), e potestà amministrativa di imposizione, consistente nella posizione e nei compiti degli organi amministrativi cui è demandata, invece l’applicazione dei tributi esistenti.
[3] Che invece caratterizza la nozione di tassa, e che risulta estranea, pertanto al principio della capacità contributiva, incidendo questa forma di prestazione imposta in maniera uguale sul patrimonio di chiunque goda di una controprestazione offerta dallo Stato o dall’ente locale, sotto forma di servizi divisibili.
[4] “I1 principio di capacità contributiva, nei limiti in cui è accolto nell’art. 53 Cost.,,risponde all’esigenza di garantire che ogni prelievo tributario abbia causa giustificatrice in indici concretamente rivelatori di ricchezza, dai quali sia razionalmente deducibile l’idoneità soggettiva all’obbligazione d’imposta” (ex multis Corte Cost. n. 45/64; n. 16/65; n. 89/66; n. 120/72; n. 200/76; n. 159/85; n. 143/95; n. 111/97 ; n. 156/01).
[5] Non va confusa la personalità cui conformare la somma dovuta, con l’obbligo dell’ente impositore di esigerla da ciascun soggetto senza la possibilità di esenzioni discrezionali ( Cass. n. 7945 /02 sul divieto per un Comune di stabilire in via regolamentare eccezioni personali per il pagamento di una tassa sui rifiuti solidi urbani).
[6] Vedi F.Caringella, Il Diritto Amministrativo, Napoli, 2001, p. 992, ove l’imposta viene definita ”la prestazione coattiva di regola pecuniaria dovuta dal soggetto passivo senza alcuna relazione specifica con una particolare attività dell’ente pubblico e, tanto meno a favore del soggetto stesso il quale è obbligato ad adempiere quella prestazione qualora si trovi in un dato rapporto con il presupposto di fatto legislativo prestabilito”.Ancora, P. Picone, I temi generali del Diritto Amministrativo, volume II, Napoli, 2000, p. 488; Micheli, Premesse per una teoria della potestà di imposizione, in Riv. Dir. Fin, n.1/67, p. 264 e ss..
[7] Che si oppone a quello di corrispettività o retribuzione, proprio perché il prelievo non è posto in correlazione con la domanda o con l’utenza di dati servizi.
[8] M.S. Giannini, Istituzioni di diritto tributario, Milano, 1972, p. 78 e ss.; Berlin, Corso istituzionale di diritto tributario, Milano 1974, p. 168; Micheli, Corso di diritto tributario, Torino, 1984, p. 107; e più recentemente La Rosa, Amministrazione finanziaria e giustizia tributaria, Torino, 2000, p. 30. Fa discendere invece la vincolatezza del potere della P.A. finanziaria in negativo dalla verifica dell’insussistenza della discrezionalità, Perrone, Discrezionalità e norma interna dell’imposizione tributaria, Milano, 1969, p. 22 e ss.
[9] In modo diffuso G. Porcaro, Riflessioni sulla natura del potere amministrativo nell’ambito dell’attività istruttoria tributaria, in Diritto e pratica tributaria, 2004, p. 1111 e ss.
[10] Va detto però, che accanto all’immagine di una P.A. Finanziaria cui, una volta accertati i fatti e applicate le norme, non resterebbe alcuno spazio per privilegiare o sacrificare gli interessi in conflitto, non pochi (tra cui A.Fantozzi, Il Diritto Tributario, Torino, 2003, p. 514 e ss. ) sostengono, invece la presenza, nell’intera vicenda di accertamento e riscossione dei tributi, di momenti di valutazione in cui entrano in gioco considerazioni diverse ed ulteriori rispetto all’applicazione della disciplina legale dell’obbligazione.
Alcuni evidenziano i mutamenti del diritto positivo, in tale direzione: dalla conciliazione giudiziale all’accertamento con adesione, dall’autotutela alle diverse forme di riesame nella fase di accertamento; dalla rateizzazione del pagamento delle somme dovute, alla sospensione del pagamento fino alla pubblicazione della sentenza della Commissione Tributaria provinciale nella fase di riscossione.
[11] Si tratterebbe di tutti casi in cui l’attività dell’amministrazione assume i connotati della discrezionalità, intesa come contemperamento tra il primario interesse pubblico alla corretta formulazione della fattispecie legale in capo al contribuente ed altri interessi pubblici “costitutivi” quali i costi per la prosecuzione della lite, la rapida riscuotibilità del credito o non “ostativi” quali la stabilità dei rapporti giuridici.
[12] La valutazione organizzativa consiste nella scelta della P.A. del modo di esercizio del potere, tra quelli attribuiti dalla legge, che meglio corrisponde all’interesse primario di reperire risorse sotto il profilo dell’economicità e dell’efficienza.
[13] Naturalmente la descrizione esemplificativa di momenti dell’istruttoria di accertamento in termini di assenza di poteri discrezionali, non esime dall’annoverare, anche in tale fase situazioni di conflitto tra interesse primario pubblico al reperimento di risorse finanziarie e interessi privati: si pensi al contrasto tra ampiezza dei poteri di indagine dell’amministrazione finanziaria e il diritto all’inviolabilità del domicilio dei singoli. E’ solo in questi casi, che la preesistenza di una situazione giuridica soggettiva all’esercizio del potere istruttorio, rende evidente e degna di tutela, anche giurisdizionale, la posizione del privato di fronte ad una “valutazione (stavolta) comparativa”, che connota l’attività amministrativa.
[14] Altro è, il riferimento alla discrezionalità tecnica che afferisce all’attività logico-giuridica di precisazione di concetti indeterminati, frequenti nella norma tributaria, quali l’inerenza, la stabile organizzazione, l’esercizio normale dell’impresa, che peraltro il legislatore, frequentemente riduce, dettando discipline sempre più minutamente procedimentali, al fine di consentirne il controllo da parte dei contribuenti.
[15] Il ruolo costituiva e costituisce il titolo che attesta il diritto dell’ente impositore di imporre i tributi. Viene formato dall’ufficio competente includendovi coloro che vengono da esso considerati contribuenti, e consegnato all’esattore (oggi concessionario, domani, come vedremo, con tutta probabilità società a capitale pubblico) per l’attività di concreta imposizione. Esso diviene esecutivo, a pena di decadenza, entro i termini previsti dall’art. 17 D.P.R. n. 602/73, e viene trasformato dall’esattore nella cartella di pagamento, la quale per divenire legittimamente valida a riscuotere l’imponibile, deve essere notificata ai contribuenti. Per una disamina critica sulla materia cfr. M. Santamaria Notifica e termini di consegna “canzonatori” per i concessionari della riscossione,in D&G, n. 43/04, p. 106.
[16] Essa trova il suo referente giurisprudenziale nella decisione della Corte dei Conti n. 7202/02, sezioni riunite, che nega la sua stessa giurisdizione nei confronti degli ufficiali della riscossione, sulla base dell’assenza di nesso di causalità diretta tra condotta dell’agente della riscossione (dipendente della società concessionaria) ed ente concedente, riflettendosi tale rapporto interno di lavoro esclusivamente sull’obbligazione di risultato che il concessionario ha assunto nei confronti dell’ente, e sull’esclusiva rilevanza civile del menzionato rapporto.
[17]E delle associazioni di enti locali che si occupano del problema: cfr. il sito www.anutel.it.
[18] Un esempio di tale rinnovato slancio organizzativo può rinvenirsi nella riscossione tanto spontanea che coattiva. Prima della novella del 1997, l’unica modalità di riscossione era mediante il ruolo, strumento pensato esclusivamente per il concessionario della riscossione. Con il co. 6° dell’art. 52 si è ammessa di nuovo la facoltà di utilizzare l’ingiunzione fiscale, proprio per consentire a quegli enti che non volessero fare ricorso al concessionario, di affrontare ugualmente, in proprio la riscossione coattiva.
[19]
Essa consiste nella richiesta di pagamento nei confronti del contribuente
moroso, qualificato tale, solo successivamente all’omesso pagamento dell’importo
contestato con provvedimento di liquidazione
o di accertamento, ed è atto amministrativo, unilaterale, recettizio, il quale
acquista efficacia nel momento in cui è portato a conoscenza del destinatario
secondo le forme della notifica, ai sensi del codice di procedura civile.Gli
atti di ingiunzione sono esecutivi di diritto e la procedura di esecuzione
forzata segue le regole privilegiate dell’iscrizione a ruolo, di esclusivo
appannaggio dei concessionari della riscossione, contenute nel titolo 11 del
D.P.R. n. 602/73.
[20] F.Pica, L ‘affidamento ai privati della gestione degli enti locali, in Rivista dei Tributi Locali, Anno XXVIII, n. 3, maggio — giugno 1998, p. 110.
[21] Cfr. C.d.S., sez. VI, 12 marzo 1990, n. 370.
[22] Se il metodo prevalentemente usato è quello dell’asta pubblica, va precisato che nella particolare materia di cui si tratta, andranno valorizzati all’interno del bando alcuni parametri di valutazione delle offerte che prescindono dalla semplicistica indicazione del prezzo-base per il servizio che si intende delegare in.outsourcing. Infatti nell’ambito dei parametri di remunerazione si faranno rientrare ad esempio i vari generi di aggio, rimborsi-spese e compensi, che oltre a rispondere alle diverse attività corrisposte, sono espressione di un particolare modo di intendere l’organizzazione del servizio che ogni concorrente illustrerà, preferibilmente, in un documento economico finanziario (o business-plan) in cui si metteranno in correlazione i prezzi offerti, con le variabili in gioco: volume dei flussi di riscossione previsti, numero dei soggetti coinvolti, numero delle operazioni di notifica e volume delle procedure coattive, così da rendere agevole per l’ente la quantificazione del costo del servizio.
[23] Era d’uopo sotto la denominazione di servizio di elaborazione dati posta a base degli atti di liquidazione e accertamento, nascondere attività che erano ben lungi dall’essere puramente accertative, e che si reggevano su forme di compensi prive di criteri prestabiliti.
[24] Va precisato che a seguito dell’istituzione del presente albo, le dimensioni del mercato hanno subito un notevole ampliamento dovuto soprattutto al fatto che, mentre in precedenza le attività di cui si tratta, potevano essere affidate a privati con l’assegnazione di pubbliche funzioni unicamente in relazione a TOSAP e imposte sulla pubblicità, ora per tutti i rimanenti tributi, non sono chiamati ad operare unicamente i concessionari, ma tutti i soggetti iscritti all’albo.
[25] Già con la legge del 1990 all’art. 22 co.3 lett. e), il legislatore aveva inserito tra i soggetti affidatari dei pubblici servizi la società per azioni a prevalente capitale pubblico, qualora si ritenesse vantaggioso affiancare all’ente un nuovo soggetto capace di capitali disponibili da investire, esperienza e competenze specifiche in ordine al servizio da erogare. La valutazione di mera opportunità (e quindi la totale discrezionalità) per gli enti locali di usufruire di questa chance ha lasciato il posto con l’art. 4 del D.P.R. n. 553/96 a una serie di condizioni e requisiti (minima partecipazione degli enti locali; capitale iniziale di conferimento; modalità di nuovi ingressi privati) che rendono, comunque maggiormente regolamentata questa disciplina.
[26] La scelta di affidare un pubblico servizio locale ad una società mista afferisce all’organizzazione delle attività principali dell’ente locale, riservata esclusivamente all’autonomia e alla responsabilità del Comune. Pertanto il provvedimento con il quale un Comune decida di costituire una società mista per la gestione di un pubblico servizio non può essere impugnato, per mancanza di interesse dall’imprenditore privato privo dei requisiti necessari per partecipare alla suddetta società mista (cfr. C.d.S., sez.V, n. 5643/04 in D & G, n. 38/04 p. 27, con commento di M. Alesio, L‘affidamento dei servizi pubblici: spazi ristretti per le attività in house ).
[27] A differenza di quelle a prevalente capitale privato, ove la necessarietà della gara era espressamente consacrata nell’art. 12 della legge n. 498/92.
[28] Nella risalente sentenza Tar Piemonte, sez. II, n. 159/96, si affermava esplicitamente che la mancanza di una gara creerebbe “una sorta di enclave soggetta ad un regime privatistico in ambito sempre di pertinenza di procedimenti amministrativi, diretti a garantire il confronto concorrenziale, che solo assicura la trasparenza e il buon andamento della P.A”.
[29] L’attività prestata al di fuori dell’ambito territoriale dell’ente di riferimento, pur esulando dagli scopi prossimi dell’ente che ha costituito la società, deve comunque essere rivolta anche se indirettamente alla soddisfazione degli interessi della comunità rappresentata dall’ente di riferimento. L’estensione della suddetta attività al di fuori dei limiti territoriali di appartenenza, presuppone comunque un collegamento funzionale, tra il servizio eccedente l’ambito locale e la necessità della collettività locale, collegamento che non può essere ridotto al solo interesse imprenditoriale (cfr. T.A.R. Liguria, 8 maggio 1997, n. 134, confermata da C.d.S,, sez. V, 19 febbraio 1998, p. 192; T.A.R. Lombardia sez. III, 29 giugno 1999, n. 3248; C.d.S., sez. V, 25 giugno 2002, n. 3448, secondo cui “per le società partecipate, è operante una maggiore flessibilità nel dimensionamento funzionale con l’ente soci, nel senso di ammettere l’impegno extraterritoriale, ove ciò comporti apprezzabili ritorni di utilità e non distolga in maniera rilevante risorse e mezzi dalla collettività di riferimento”).
[30] Tradendo ancora l’assenza di una definizione unitaria del concetto di servizio pubblico, e per citare solamente la normativa più recente, dei servizi pubblici locali si comincia a parlare, con riferimento alle “concessioni all’industria privata” negli artt. 265-267 del R.D. n. 1175/31 (Testo Unico sulla Finanza Locale). Una organica disciplina la si ritrova solo nella legge sugli Enti Locali n. 142/90, superata in blocco dal T.U.E.L. (d.lgs. n. 267/00), che si occupa esplicitamente dei modi di gestione dei s.s.p.p.1.l. riservati agli enti locali. Ma è l’art. 35 della l. 448/01 (Finanziaria 2002), che ha definitivamente avviato il processo di riforma che sembra aver trovato il suo assetto attuale nell’art. 14 del d.l. n. 269/03, conv. in l. n. 326/03.
[31] In particolare nei settori della difesa, dei i trasporti, delle telecomunicazioni e delle fonti di energia.
[32] Cfr. per un ampia disamina del problema: M. Alesio, Concessioni e appalto di servizio: alla ricerca delle differenze perdute, in D & G, n. 36/04, pag. 76, in commento a T.A.R. Milano, sez. III, n. 3242/04.
[33] La questione, che potrebbe risultare priva di interesse per la recessività del modello concessorio, conserva in realtà ancora profili di interesse per la sostituzione ad esso dello strumento dell’affidamento.
[34] Cfr. Tar Liguria, sez. II, n. 484/04.
[35] Si pensi all’appalto del servizio di pulizia dei locali del palazzo sede del municipio di un Comune, che determina una prestazione utile anche ai cittadini, in quanto consente loro di frequentare i locali del medesimo palazzo in condizioni accettabili.
[36] Cfr. C.d.S., sez. VI, n. 2634 /02; oppure C.d.S. sez. IV, n. 253/02. Il criterio è utilizzato anche dalla giurisprudenza comunitaria: cfr. Corte di Giustizia della CE, n. 324/00.
[37] Cfr. T.A.R. Puglia Bari, sez. II, n. 367 /98.
[38] Ebbene in applicazione dei summenzionati principi, sono state qualificate concessioni di pubblico servizio la gestione della pubblicità all’interno di uno stadio (cfr. C.d.S., sez. V, n. 5671/02 ) il servizio di custodia nei parcheggi a pagamento (cfr. T.A.R. Puglia, sez. Bari, sez. II, n. 1170/01 ), il servizio di ricovero cani randagi ( cfr. C.d.S., sez. VI, n. 4688/00 ) il servizio di tesoreria comunale ( cfr. T.A.R Emilia Romagna, sez. Parma, n. 27/96, ma contra T.A.R. Campania, sez. I n. 2841 ) e non il conferimento a un privato, di alcune soltanto delle fasi di cui si compone il servizio pubblico di smaltimento dei rifiuti solidi urbani.
[39]G. Greco, Gli appalti pubblici di servizio e le concessioni di pubblico servizio, in Appalti pubblici di servizi e concessioni di pubblico servizio, a cura di F. Mastragostino, Padova 1998.
[40] E’ tramite infatti il richiamo ai principi comunitari del divieto di discriminazione basato sulla nazionalità dei concorrenti, della libera circolazione delle merci, della libertà di stabilimento, della libera prestazione di servizi e ancora della parità di trattamento, trasparenza e proporzionalità, che si può costruire una soddisfacente nozione di servizio pubblico, e prescindere, come doveroso, dall’applicazione diretta del d.lgs. n. 157/97.
[41] La posizione è riconducibile principalmente a una posizione interna alla P.A., di cui è portavoce l’Associazione Nazionale Uffici Tributi Enti Locali ( ANUTEL, cfr. nota n. 17), che nata nel 1994 si propone lo scopo di prestare opera e assistenza tecnica per il miglioramento dei compiti delle strutture tributarie, attraverso studi, consulenze, pubblicazioni e giornali.
[42] Raccoglie queste suggestioni P. Rossini, La fiscalità locale al tempo del federalismo: problemi di organizzazione e gestione, in www. diritto.it/articoli/enti_locali.
[43] Cfr. Il ruolo degli uffici delle entrate degli enti locali nel quadro della riforma federalista, (non firmato), in EuroP.A. magazine,, n° 1 /03, p. 14.
[44]Cfr. anche Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, parere 28 ottobre 1998, “Misure di revisione e sostituzioni di concessioni amministrative”, in Guida agli Enti Locali /11 Sole- 24 Ore, 12 dicembre 1998, pp. 79 e ss.
[45] Si tratterebbe in particolare delle funzioni di elaborazione dati dei singoli tributi o entrate: formazione delle minute di ruolo o delle liste di carico; riscossione dei tributi e delle entrate comunali spontanea e coattiva; attività propedeutiche e di supporto alla liquidazione e accertamento dei tributi attraverso controlli incrociati di banche dati informatiche; censimenti/rilevazioni dirette dei cespiti tassabili sul territorio; gestione del contenzioso in collaborazione con gli uffici/servizi dei singoli enti.
[46] La posizione si riferisce all’assetto di giurisdizione sui servizi pubblici anteriore alla sentenza della Corte Cost. n. 204/04.
[47] Cfr. www.dirittodeipubbliciservizi.it.
[48] Vedi anche per un sempre valido riferimento giurisprudenziale C.d.S., n. 2294/02.
[49] Nell’ambito, infatti, dell’affidamento a terzi della liquidazione, l’accertamento e riscossione dei tributi il decreto nel caso dell’art. 52 lett. b), n. 1, ovvero per il ricorso alle società per azioni o a responsabilità limitata a prevalente capitale pubblico locale, espressamente esige che l’affidamento avvenga “nel rispetto delle procedure vigenti in materia di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali”,come pure al n. 2 dello stessa lettera in merito alle procedure di affidamento alle società miste per la gestione presso altri Comuni.
[50]Si pensi, quali esempi di tali attività all’istruzione pubblica, ai trasporti, all’assistenza sanitaria. Si tratta di settori nei quali la cura dei pubblici interessi si concreta, oltre e più che nell’emanazione di atti giuridici, nello svolgimento di attività materiali, quali la lezione tenuta dall’insegnante, la somministrazione di un medicinale il trasporto di un malato da un capo all’altro della città.
[51]La cura degli interessi collettivi assicurata mediante l’esercizio di poteri amministrativi di stampo pubblicistico, viene definita più propriamente come funzione amministrativa in senso tecnico ed è parte della funzione lato sensu intesa. In tale ambito rientrano tutte le attività connotate dal dispiegarsi di poteri autoritativi, sia se svolte direttamente da soggetti pubblici sia se poste in essere nei casi contemplati dalla legge, da privati a ciò abilitati.
[52] Che può comportare anche limitazioni della libertà individuale: si pensi ai poteri della polizia tributaria che possono sostanziarsi anche nell’introduzione in private abitazioni o aziende.
[53]Cfr. Corte Cost. 6 luglio 2004,n. 204, commentata da A. Travi, La giurisdizione esclusiva prevista dagli artt. 33 e 34 D. Lgs. 80/98, dopo la sentenza della Corte Costituzionale 6 luglio 2004, in Foro It., n. 09/04, p. 2598; da F. Fracchia, La parabola del potere di disporre il risarcimento: dalla giurisdizione “esclusiva”, alla giurisdizione de/l giudice amministrativo, in Foro It., n. 09/04, p. 2605; da R. Garofoli, La nuova giurisdizione in tema di servizi pubblici dopo la Corte Costituzionale 6 luglio 2004 n. 204, in www.giustizia-aniministrativa.it.
[54] In proposito cfr. nella sentenza in parola i riferimenti alla P.A. che “agisce quale autorità” in par. 3.2, 3.4.2 3.4.3,al “potere autoritativo” nel par. 3.4.2,al “pubblico potere”, al par. 3.4.3.
[55]Cfr. O. Forlenza,, Sullo svolgimento dell’attività vincolata seri interrogativi dalla nuova normativa,, in commento a C.d.S - Adunanza Plenaria n. 1 2002, in Guida al Diritto, n. 05/02, p. 95.
[56] C.d.S., sez. IV, 5 ottobre 2004, n. 6489, in D & G, n. 40/04, con commento di R. Proietti, Servizi pubblici ecco quando sussiste la giurisdizione esclusiva amministrativa, p. 71.
[57] Non si può negare che però, il commentatore della pronuncia dissente da questa ricostruzione soprattutto per ciò che riguarda la questione relativa alla giurisdizione, rilevando che dalla correlazione normativa tra provvista di fondi ed espletamento del servizio discende che le posizioni soggettive delle amministrazioni coinvolte nel procedimento vanno inquadrate nel contesto del rapporto diritto-obbligo, nei cui confronti sussistono unicamente posizioni di diritto soggettivo, anche se la Corte per evitare il difetto di giurisdizione fa riferimento al concetto di “obbligazioni pubbliche”.
[58] Per un maggiore approfondimento cfr. F.Liguori, Le Regioni e i servizi pubblici locali, in www.giustiziaamministrativa.it, n. 11/04.
[59] Cfr. Tar Puglia, sez. Lecce, 17/03/03, n. 779, in www.dirittodeiservizipubblici.it: la Corte escludeva per il servizio di riscossione, l’applicazione della regola dell’evidenza pubblica per l’affidamento considerandolo caratterizzato da particolari prerogative, tipiche dei pubblici poteri e da esigenze generali che eliminano la natura meramente economica dell’attività in questione.
[60] L’elemento essenziale del carattere economico di un servizio, non è rinvenibile nello scopo di lucro, perché se lo si ritiene espressione dell’attività di impresa, va ricordato che il nostro ordinamento conosce l’impresa consortile e l’impresa cooperativa, ove l’esercizio dell’attività pur perseguito con metodo economico, è orientato verso altri fini quali la mutualità: cfr. A. Purcaro, La Riforma dei servizi pubblici locali- Appunti a margine dell’art. 14 del d.l. n. 269/03, in Nuova Rassegna, n. 18 /03.
[61] Cfr. C.d.S., sez. V, 30 /08/04 n. 5643, in Urbanistica e Appalti, n. 03/05, con commento di G. Mangialardi, Scelta dei modelli di gestione dei servizi pubblici e tutela dei privati.
[62] Che non sembra suscettibile di ripensamento senza conseguenze in termini giurisdizionali: cfr. C.d.S.., sez. V, 20.10.04 n. 6867, che, una volta intervenuta la costituzione di una società mista che abbia già iniziato la sua attività (il caso riguardava proprio la gestione del servizio di liquidazione e riscossione dei tributi locali) esclude da parte della P.A. la possibilità di sciogliersi dal vincolo sociale, esercitando un potere di recesso unilaterale. In particolare, il massimo organo di giustizia amministrativa sostiene che “dal momento della costituzione della società, quest’ultima è assoggettata al particolare regime disciplinare che la governa, ed in particolare alle norme di diritto comune”, non essendo, così consentito un contrarius actus al di fuori di un vietato potere di autotutela.
[63] La tendenza è espressa da una ricerca svolta da Ascotributi (Associazione di categoria dei concessionari delle imposte) secondo la quale su 226 Comuni di diversa tipologia demografica, l’87% ha optato per un affidamento a società esterne di tutta o una parte della gestione delle entrate ( in particolare UCI e TARSU). Cfr. S. Fossati, L’outsoucing per i tributi locali convince l’87% dei Comuni, ne Il Sole 24 ore, del 04.11.04.
[64] Le parole in corsivo riproducono le definizioni del “Libro Verde” sul partenariato pubblico-privato, presentato il 30 aprile 2004 dalla Commissione Europea.
[65] Per una precisa disamina della tematica vedi G. Aronica, Ipotesi di esternalizzazione delle entrate tributarie, in Nuova Rassegna, n.03/05.
[66] Si confronti anche il D.M. n. 289/00 art. 2 co. 2°.
[67] E questo risponderebbe anche all’opzione fatta propria dall’Amministrazione finanziaria centrale, che in esecuzione dell’art. 41 del d.lgs. n. 287/92, ha rinunciato ad un’organizzazione atomistica degli uffici tributari, privilegiando la creazione di uffici unici delle entrate su base territoriale.
[68] Cfr. C.d.S. 25.06.02 n. 3448, secondo cui l’impegno extraterritoriale della società mista è ammesso solo ove ciò comporti apprezzabili ritorni di utilità e non distolga in maniera rilevante risorse e mezzi alla collettività di riferimento.
[69] Per queste è sufficiente che l’iscrizione all’albo sia detenuta dal socio privato.
[70] Quanto alla normative di settore si menzionano gli artt. 52 co. 5° lett. b) n. 1 del d.lgs. 446/97 e art.2 co. 2° del D.M. 289/00. Il dato è confermato in sede giurisprudenziale: solo esemplificaticamente si vedano C.d.S., sez. V 03.09.01, n. 4586; C.d.S., sez. V, 19.02.98 n. 192; C.d.S., sez. V, 06.04. 98 n. 435.
[71] Si vedano a proposito Cass. S.U. 06.05.95, n. 4989; Ad. Gen. Parere 16.05.96 n. 90; C.d.S., sez. V, 19.02.04, n. 679; Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento delle Politiche Comunitarie circolari nn. 12727/01 e 3944/02.
[72] Vedi tra gli altri M. Dugato, La disciplina dei servizi pubblici locali, in Giorn. Dir. Amm., n. 02/04, p. 121, che, peraltro, per assicurare armonia con l’ordinamento comunitario, richiedeva che la gara per la scelta del socio, quanto a meccanismo di svolgimento e a regole di concorrenzialità, venisse condotta in modo sostanzialmente analogo a quanto previsto per le gare finalizzate all’individuazione del gestore privato.
[73] Per distinguerla dalla gestione diretta in senso sostanziale, riconducibile al modello di affidamento a società interamente pubblica sulla quale gli enti titolari del capitale sociale esercitino un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi, e a patto che la stessa realizzi la parte più importante dell’attività con gli enti stessi.
[74] Cfr. T.A.R. Toscana, sez. II, n.2833/04.
[75]Corte di Giustizia, 18.11.99, Teckal Srl contro Comune di Aviano, causa C-197/98; Corte di Giustizia, 15.06. 00, sentenza Arge; Corte di Giustizia, 07.12.00, sentenza TeleAustria ).
[76]Corte di Giustizia, sez. I, 11.01.05, causa C- 26/03, in Diritto & Giustizia, n. 05/03, con commento di M. Alesio, Società miste, no all’affidamento diretto. Mai appalti in house se ci sono i privati.
[77] Cfr. C.d.S., sez. V, 19.02.04, n. 679, in Foro Italiano, parte terza, 2004, p. 196 e ss., con nota a sentenza di Ursi.
[78] Così la Commissione Europea nell’atto di messa in mora dello Stato Italiano (8 novembre 2000), in relazione alla disciplina dettata dall’art. 22 della l. n. 142/90.