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(a proposito dell'art. 6 del D.D.L. di riforma del processo amministrativo)
La previsione contenuta nell'art. 6 del DDL sulla riforma del processo amministrativo, secondo cui "I ricorsi che alla data di entrata in vigore della presente legge risultano depositati da oltre dieci anni sono dichiarati perenti con le modalità di cui all'ultimo comma dell'articolo 26 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, introdotto dal comma 1 del presente articolo, salvo che le parti propongano istanza per la decisione entro novanta giorni dalla stessa data", è una norma assolutamente incivile e pericolosa.
In un processo, come quello amministrativo, in cui non possono neppure ipotizzarsi atti remoratori del ricorrente, se una responsabilità nell'accumulo dell'arretrato deve ricercarsi questa è da attribuire non ai magistrati, né agli uffici giudiziari, né agli avvocati ma ad un errore di valutazione compiuto dal Legislatore degli anni 70 il quale ha creduto che un corpo giudicante di meno di 500 giudici amministrativi di primo grado potesse reggere all'impatto (forse non prevedibile né auspicato) di decine di migliaia di ricorsi l'anno e ad un errore, ancor più grave, dei governi e dei parlamenti successivi che non hanno voluto porre riparo a quell'originario errore quando lo stesso si è evidenziato in modo eclatante.
Nessuna voce di scandalo si è levata quando il Legislatore, in spregio al principio della divisione dei poteri, ha dichiarato estinti una massa enorme di giudizi sostituendosi all'Autorità Giudiziaria emanando -addirittura- una statuizione tipica delle pronunce giudiziarie: la compensazione delle spese di lite. Ma almeno, in quel caso (ci si riferisce all'articolo 4 della legge 29 gennaio 1994 n. 87) la cessazione della materia del contendere era effettiva e la legge prevedeva una regolazione, per così dire transattiva, degli interessi in gioco.
Ma nella vicenda attuale, per gli interessi sottesi ai giudizi ultradecennali non viene proposta alcuna soluzione concreta, essi hanno la sola colpa di essere stati proposti da cittadini pazienti i quali, confidando a torto che lo Stato ha la buona creanza di rispondere, hanno atteso.
Negli archivi di ogni avvocato che si occupa di difesa avanti ai Tribunali Amministrativi Regionali esistono ricorsi antecedenti al 1989 per i quali sono state presentate due o più domande di prelievo e, ancor più, giudizi pendenti da 15 o 16 anni per i quali non è stata presentata alcuna domanda di prelievo per la semplice ragione che si tratta di cause che non presentano ragioni di urgenza particolare rispetto a quelle di pari anzianità e che, pertanto, dovrebbero essere decise perché è arrivato il loro turno e non già perché titolate a godere di un qualche privilegio
Il rimedio concepito dal Parlamento dimostra una assoluta ignoranza del fenomeno e non procurerà alcun giovamento al processo amministrativo; avrà l'unico scopo di far incassare all'erario qualche miliardo di imposta di bollo per le marche necessarie a regolarizzare le domande di fissazione e di intasare le segreterie dei TAR con migliaia di domande di fissazione che dovranno essere registrate, archiviate, etc., con buona pace degli intenti acceleratori. E' difatti evidente che a scanso di responsabilità (civile e professionale) gli avvocati non potranno decidere loro se è sopravvenuta la carenza di interesse e, nei 90 giorni assegnati dalla legge non potranno interpellare tutti i clienti per stabilire la permanenza dell'interesse (costituendo ciò, oltretutto, un impegno gravoso per gli studi legali: corrispondenza, conferenze di trattazione nella quale spiegare il contenuto della legge, etc.) e, quindi, l'atteggiamento del Foro sarà quasi certamente quello di rinnovare le domande di fissazioni punto e basta.
D'altra parte è da ritenere che qualora fossero compulsati i ricorrenti tutti direbbero che sussiste ancora un interesse alla decisione: in definitiva hanno pagato (il professionista e lo Stato) per avere una decisione ed è comprensibile che continuino a volerla.
Se proprio non si vogliono seguire altre strade, volte a dare una risposta a quanti si sono rivolti al giudice amministrativo, il che -forse- è anche un diritto costituzionale posto che il diritto di agire in giudizio ha senso solo allorché all'azione corrisponda una decisione, che almeno si prevedano dei riti brevi o sommari o alternativi in cui sia un Giudice (anche monocratico o onorario) a dettare la regola per il caso concreto e non sia il Parlamento a decidere in via generale che chi ha avuto la pazienza di aspettare non merita più una decisione.
La strada prescelta costituisce, infine, l'ennesima cripto-sanatoria in quanto, se è vero che circa la metà dei ricorsi è accolta, non portarli in decisione significa mantenere efficaci migliaia di provvedimenti illegittimi e confermare negli amministratori il convincimento che il tempo sana qualsiasi illegittimità comprese quelle che il "suddito" ha avuto l'ardire di sottoporre ad un giudizio imparziale.