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10/2012 - ©
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NICOLÒ D’ALESSANDRO
(Avvocato del Foro di Catania)
La perdita di sovranità e la furbizia italiana
Il recente prospettato aumento del contributo unificato previsto dal disegno di legge sulla «stabilità» mi ha portato a riflettere sulla ragione per la quale l’incremento di tale imposta colpisce esclusivamente la materia degli appalti (cioè i giudizi aventi ad oggetto "provvedimenti concernenti le procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture", essendo numericamente poco rilevanti quelli aventi ad oggetto "provvedimenti adottati dalle Autorità amministrative indipendenti").
La disposizione varata dal Governo prevede (art. 3 comma 17) che " il contributo è di euro 2.000 quando il valore della controversia è pari o inferiore ad euro 200.000,00; per quelle di importo compreso tra € 200.00,00 e 1.000.000,00 euro il contributo dovuto e di € 4000 mentre per quelle di valore superiore a 1.000.000,00 euro è pari ad euro 6.000"; il successivo comma 18 prevede che per i giudizi di impugnazione il contributo è aumentato della metà.
Vero è che il rinvio al "valore della controversia" per stabilire l’importo del contributo potrebbe dar luogo ad un interminabile dibattito, stante che la giurisprudenza –quando si è trattato di quantificare detto parametro per liquidare gli onorari ai legali- ha costantemente affermato che i giudizi avanti al Giudice amministrativo sono sempre di valore indeterminato e che, dal punto di vista dell’imprenditore, il valore della controversia è dato –al massimo- dall’utile presunto dedotte le spese che dovrà sostenere per materie prime e personale (quindi, presuntivamente, il 10% dell’offerta formulata), ma è facile profezia immaginare che gli uffici di segreteria ed il Fisco riterranno, questa volta, che il valore della controversia sia l’importo a base d’asta.
La chicca si trova all’art. 3 comma 9 laddove si prevede che, quando l’impugnazione è dichiarata inammissibile (ma qui per impugnazione ci si riferisce al gravame –appello o ricorso per cassazione-) il contributo a carico del soccombente raddoppia.
Per capire meglio è indispensabile fare un po' di conti:
Per appalti al di sotto dei 200.000 euro il contributo è stato ridotto a 2.000 euro rispetto ai 4.000 euro precedentemente stabiliti; ma la riduzione è di scarso peso in quanto il raddoppio in appello rende sempre abbastanza improbabile che un imprenditore abbia la voglia di rischiare di dover pagare al fisco circa 18.000,00 euro di tassa fissa per un utile sperato pari … al medesimo importo. Letteralmente: il gioco non vale la candela!
Per un appalto di importo fino ad 200.000 euro (quindi anche un appalto con importo d’asta di 50.000 euro o meno) si richiede il versamento complessivo alle (immaginiamo due) parti, per due gradi di giudizio, di un importo che si aggira sui 18.000 euro (2.000 ricorso introduttivo, 2.000 motivi aggiunti, 2000 per ricorso incidentate, 4.000 per l'appello 4.000 per contro appello incidentale ed altre 4.000 a carico del soccombente in grado di appello).
54.000 euro è l'imposta che lo Stato richiede nel caso di appalti al di sopra del milione di euro per i due gradi di giudizio.
La giustificazione di tale esosa imposizione di certo non può essere legata alla presunta "ricchezza" della materia in quanto, come si è visto nell'esempio sopra riportato, può ben accadere che l'importo richiesto dallo Stato per rendere un servizio finalizzato ad accertare che il contraente individuato dall'amministrazione sia stato scelto secondo diritto sia addirittura superiore all'utile sperato dell'appaltatore e, in molti casi è effettivamente tale (ciò è certo per appalti di opere e servizi inferiori a 100.000,00 euro a base d’asta ma, stante l’attuale livello dei ribassi, è probabile per appalti sino a 2 milioni di euro).
C'è, invero, una ragione meramente ragionieristica negli aumenti -evidenziata dalla stessa legge- che è quella di finanziare gli apparati della giustizia ordinaria ed amministrativa, ma anche tale giustificazione è, a mio giudizio, apparente e fallace, in quanto il numero assoluto dei giudizi amministrativi in materia di appalti è notevolmente diminuito e ancor più diminuirà in futuro, con la conseguenza che i ricavi realizzati per tale via dall'amministrazione pubblica saranno in assoluto sempre minori.
Un’altra giustificazione, più o meno sotterranea, che viene correntemente rappresentata, lega l’aumento del contributo alla necessità di ridurre il contenzioso in materia di appalti per incrementare l'efficienza dell’economia nazionale.
In buona sostanza si immagina che riducendo la quantità del contenzioso le opere pubbliche verranno portate più celermente ad effetto ed in tal modo si incrementerà l'economia ed il Moloch del momento: il PIL.
In questa ottica, poco importa che riducendo lo spazio del controllo giurisdizionale si aumenta la possibilità di un uso abusivo del potere dei funzionari delle stazioni appaltanti, i quali ben comprendono che, a fronte di loro comportamenti illegittimi, i partecipanti alla gara non hanno concrete possibilità di rivolgersi al Giudice amministrativo.
Ciò che importerebbe sarebbe la celerità. Ma anche tale ultima giustificazione e apparente in quanto, qualora si volesse rendere effettiva e celere la procedura di scelta del contraente, basterebbe scarnificare le procedure, fino al limite del mero sorteggio tra i partecipanti iscritti ad un determinato albo o elenco, in tal modo si otterrebbe il massimo della velocità e della trasparenza e si eviterebbero interventi corruttivi e di malaffare, tanto più possibili quanto più complessa e farraginosa è la procedura.
Ma questa scelta, apparentemente banale, non può essere percorsa. E qui entra in gioco la perdita di sovranità e la furbizia italiana.
E’ l'Unione Europea che ci chiede, anzi ci impone, determinate complesse e garantiste procedure di scelta del contraente con il quale stipulare i contratti di appalti di opere e servizi pubblici e l’Italia non può sottrarsi a tali procedure (questa è la perdita di sovranità) ma, poi, l’apparato burocratico non è in grado di gestirle (e qui viene in gioco la furbizia): la civile, razionale e -in altre terre- efficiente disciplina viene introdotta nell’ordinamento italiano, salva poi cedere alla tentazione, anch’essa tutta italiana, di creare ostacoli per impedire di verificare se la medesima disciplina è correttamente applicata oppure no. (fin tanto che il problema non vede la luce può ben fingersi che non esiste).
Tradizionalmente la norma costituisce un ordine alla generalità dei cittadini e istituzionalmente l'apparato giudiziario è stato chiamato a verificare che tale ordine venga osservato.
È già scandaloso che lo Stato, piuttosto che premiare il soggetto che si rivolge all'ordine giudiziario per la verifica dell'effettivo rispetto della normativa, lo vessi con la richiesta di pagamento di tasse assolutamente spropositate rispetto al servizio offerto.
Un servizio che, in definitiva, nella materia degli appalti pubblici, non è finalizzato alla cura di un interesse privato ma alla cura dell'interesse pubblico, acchè le risorse pubbliche vengano spese nella maniera più oculata possibile, contraendo con soggetti qualificati e prescelti mediante un procedimento trasparente e legittimo.
La normativa in materia di appalti, viceversa, non viene recepita per essere osservata ma solo per fingere (furbescamente) di "accontentare" l'Unione Europea.
Sintomatica di questo andazzo mi sembra la risposta data in Italia all’obbligo comunitario di introduzione rimedi anticipatori rispetto al giudizio, volti ad assicurare il controllo da parte di soggetti terzi ed imparziali della corretta gestione della procedura d'appalto e finalizzati, in definitiva, a garantire il rispetto delle norme e minimizzare il contenzioso.
Le direttive europee ci chiedono l’introduzione di adeguati mezzi di tutela, sia amministrativa che giurisdizionale, per garantire l'osservanza delle disposizioni vigenti e la risposta dell’Italia è in prima battuta l’art. 245 codice degli appalti, salvo poi, a causa dell’incapacità (anche questa tutta italiana) di farne funzionare il meccanismo, trasferire tutto nell’alveo del codice del processo amministrativo, con la conseguenza che gli adeguati mezzi di tutela amministrativa spariscono dall’orizzonte (ivi compreso il ricorso straordinario –salvo, forse, dall’ordinamento siciliano-) e restano solo quelli giurisdizionali, per l’accesso ai quali viene, però, imposto un balzello insostenibile.
Ma quanto può durare l'inganno e quali frutti ci può riservare tale furbizia ?
Un primo prevedibile frutto è quello dell'aumento dei casi di corruzione (pur posta al centro dell’attenzione dell’azione di governo), in quanto i recenti fatti di cronaca dimostrano come il costo della corruzione è piuttosto basso, e d'altronde, richiedere quale tassa fissa per l’accesso alla giustizia un importo pari al doppio o triplo dello stipendio netto annuo di un funzionario può facilmente indurre l'imprenditore (scorretto sì, ma attento al risultato finale) a scegliere la via più celere ed economica della corruzione, e, sul fronte opposto rendere rende il funzionario più sensibile a cedere alla lusinga corruttiva.
Ma l’inganno non può durare a lungo in quanto l'Unione Europea non ci chiede una adesione formale al dato normativo, ma una adesione sostanziale allo scopo di assicurare a tutte le imprese della Unione identiche condizioni di contesto.
Anche qui mi sembra di intravedere un precedente, seppure in altro settore normativo.
Quando l'Italia doveva entrare nell'unione monetaria e le nostre finanze erano malmesse quasi quanto oggi, una delle scelte che vennero operate per abbattere i costi di realizzazione delle opere pubbliche fu quello di spingere verso il minimo assoluto il valore dell'indennità di espropriazione.
In buona sostanza, la strada prescelta dal Legislatore (art. 5 bis L. 359/1992) fu quella di mettere il proprietario con le spalle al muro dicendogli (qui, ovviamente, entro in metafora): «l'indennità di espropriazione in via di principio è pari alla metà del valore venale; se solo pensi di contestare tale valore in sede giudiziaria, immediatamente la riduco di un ulteriore 40%. In ogni caso sul 30% restante applico una imposta del 20%.»
Concludendo, al proprietario che aveva l'ardire di rivolgersi all'autorità giudiziaria per chiedere che l'amministrazione non incidesse in termini così pesantemente negativi sul proprio diritto di proprietà veniva corrisposto un indennizzo pari al 24% del valore venale. Ciò che per l’Ente espropriante valeva 100 (e, magari, nella realtà valeva 200), se l’espropriando adiva il Giudice diveniva 25, se si asteneva dal farlo otteneva 40.
La Corte costituzionale ha impiegato circa trent'anni per riconoscere, e solo dopo le vigorose spinte della Corte europea dei diritti dell'uomo, che tale normativa, oltre che iniqua, era assolutamente difforme dai principi costituzionali e comunitari.
Nel frattempo la furbizia ha pagato (nel senso che molti proprietari hanno ceduto alla minaccia e gli espropri sono stati fatti a prezzi "politici" e incostituzionali) ma tante altre volte non lo ha fatto, e molti dei debiti che la mano pubblica deve affrontare oggi sono figli degli espropri avviati sotto l’egida di una normativa che tutti sapevamo illegittima.
La materia degli espropri era, però, una materia interna e non di rilievo comunitario, a differenza della la materia degli appalti pubblici.
Riteniamo di avere il tempo di aspettare che l'Unione Europea, magari sul ricorso di un imprenditore tedesco o francese, il quale non può che restare stupito dei costi della giustizia in Italia e della "strana" alternativa che gli viene posta tra l’adeguarsi al livello di corruzione o rivolgersi al Giudice a costi impossibili, corregga la stortura verso la quale ci stiamo dirigendo ?
A cosa è servito abbattere i costi dei servizi legali di decine di punti percentuali, se poi il costo di accesso alla Giustizia, nella materia degli appalti, viene aumentato di importi ben maggiori dei risparmi sugli onorari dei legali ?
Probabilmente non ci verrà dato il tempo di attendere interventi correttivi da parte dell’Unione Europea in quanto il mercato, sul quale il Governo non manca mai di ragguagliarci quotidianamente, sembra essere molto più veloce anche della giustizia europea, ed il mercato italiano resterà un mercato sempre più squilibrato e sempre maggiormente abbandonato dall'economia vera.
Chi mai potrà fidarsi di una nazione che, in un settore vitale della propria economia, abbandona il criterio della verifica del rispetto delle regole lasciando che le medesime siano applicate da una burocrazia che certamente non ha fama (a livello internazionale) di efficacia e di incorruttibilità, eliminando ogni possibilità di controllo se non quella sporadica del giudice penale che, appunto per la sua episodicità e per occuparsi delle vicende più sporche, non potrà che aggravare la percezione sociale ed internazionale della ingovernabilità del sistema secondo procedimenti legali.
Poiché la linea della furbizia, che prima separava le terre della Magna Grecia dal resto d’Italia, ha già inglobato e superato Roma giungendo, coma già la linea della palma di sciasciana memoria, ai piedi delle Alpi, scacciando –nella sua avanzata- il diritto, invierò il presente scritto, con la mia sola sottoscrizione, al Presidente del Senato al Presidente della Camera ed al Presidente del consiglio, invitando chiunque ritenga -anche solo in parte- di condividerne le conclusioni di operare nella stesso modo.