n.
7-8/2012 - ©
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GUSTAVO CUMIN
(Magistrato del T.A.R. Sicilia - Catania)
La spending review, con specifico
riguardo
alla disciplina delle locazioni passive delle PP.AA.
Con la legge 7 agosto 2012, n. 135, che ha operato la conversione, con modifiche, del D.L. 6 luglio 2012, n. 95, ha finalmente assunto una versione definitiva la disciplina della cd. "spending review". Premesso che dall’esame complessivo di un tale testo di legge pare emerge una scarsissima consapevolezza circa la tenuta delle soluzioni escogitate, qui ci occuperemo, più limitatamente, della disciplina in materia di riduzione dei costi sostenuti per la locazione passiva di immobili da parte delle amministrazioni pubbliche.
Cominciamo dall’illustrare il contenuto dell’art. 3 della legge, al cui interno la relativa disciplina risulta esser collocata.
Al primo comma è previsto un azzeramento dell’aggiornamento secondo gli indici ISTAT del canone di locazione, il quale pertanto si conserva invariato per tutta la durata del relativo contratto, anche in deroga a specifiche sue clausole che l’aggiornamento avessero all’opposto previsto. Non contento di ciò il legislatore, al quarto comma dello stesso articolo, ha previsto – a partire dal 2015 – una riduzione del 15% dell’importo dei canoni di locazione in essere, conferendo peraltro in questo caso, e a differenza che per l’ipotesi di mancato aggiornamento del canone, un diritto di recesso al locatario.
La disciplina così sommariamente esposta solleva (almeno) due pressanti interrogativi.
In primo luogo, è conforme al principio di eguaglianza ex art. 3 Cost. una disciplina che, a fronte di un effetto economico dello stesso tipo – e più in particolare: di una depauperazione del locatario, determinato, nell’ipotesi di mancato aggiornamento del canone, dalla perdita del valore reale del pagamento riscosso a titolo di canone locatizio, e nell’ipotesi di riduzione del canone, dalla perdita del valore nominale del pagamento riscosso a titolo di canone di locazione – discirmini in ordine ai rimedi concessi al locatario, consentendo, nell’un caso (riduzione del canone), la liberazione dal vinculum juris, e nell’altro (esclusione dell’aggiornamento del canone) escludendolo?
In secondo luogo, con riguardo all’ipotesi della forzosa riduzione del canone di locazione, sorprende non poco la leggerezza con cui il legislatore, nel momento in cui ha "beneficiato" i locatari di un diritto di recesso, non abbia previsto adeguate contromisure per un eccesso di domanda sul mercato delle locazioni cui non si possa far fronte, quantomeno in tempi celeri, con strumenti negoziali. Stante la ormai quasi completa obsolescenza della disciplina in materia di requisizioni, sarebbe stato infatti necessario por mano ad essa, onde consegnare quantomeno un più efficace "paracadute" alle amministrazioni pubbliche…senza più fissa dimora!
Le problematiche sopra evidenziate verranno ora esaminate più in dettaglio, all’interno dei due successivi distinti paragrafi.
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La disarticolazione (anche) soggettiva in capo allo Stato dei suoi diversi poteri ha consentito di fare ciò che ai comuni cittadini una concorde giurisprudenza nega. Alludo, qui, alla rigorosissima giurisprudenza della Suprema Corte (1) in ordine alla cd. "autoriduzione" del canone di locazione ad opera del conduttore. Considerata l’Amministrazione, come potere esecutivo, un soggetto "altro" dagli organi statutali preposti all’esercizio del potere normativo, il legislatore nazionale è così riuscito a sfuggire ad una impasse altrimenti assai imbarazzante, e ad evitarla del tutto – per il ricorrere di una alterità soggettiva qui invece sostanziale – con riguardo alle altre amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica ai sensi dell'articolo 1, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, e diverse dalle amministrazioni centrali dello Stato.
Non ci dilungheremo sulla capziosità di un tale distinguo; non foss’altro perchè i problemi che affliggono la disciplina in esame sono ben altri, e di ordine assai più grave, legati come sono al rispetto di uno dei principi-cardine del nostro ordinamento giuridico.
Riduzione del canone di locazione ed esclusione del suo aggiornamento sono eventi entrambe pregiudizievoli per il locatore, in quale, all’interno di un contratto relativo ad un rapporto destinato a protrarsi nel tempo, aveva dato assetto agli interessi economici propri ed a quelli – economici sia pure in modo soltanto strumentale – del soggetto pubblico/conduttore. Cambiare le regole del giuoco a pattuizione già intercorsa è, oltre che eticamente accettabile, anche giuridicamente ammissibile?
In realtà un sommario esame della disciplina normativa dettata dalla esigenza di porre rimedio a sopravvenienze di carattere straordinario, che avevano completamente alterato il disegno distributivo di oneri e vantaggi con riguardo a diverse tipologie di contratti di durata (2), evidenzia come ad una ricostituzione per via di autorità dei termini del rapporto si sia sempre affiancata la prefigurazione, in favore di una, o di entrambe le parti, di un commodus discessus, sotto forma di un attribuito diritto di recesso.
Ed allora, con riguardo al caso di specie, perché il diritto di recesso non è stato attribuito anche al locatore che debba subire il pregiudizio da mancato aggiornamento del canone? E, soprattutto, è una tale discriminazione rispettosa o meno del principio di eguaglianza guarentigiato dall’art. 3 della vigente Carta Fondamentale?
Il nostro esame, com’è ovvio, dovrà muovere dalla giurisprudenza costituzionale, onde valutare se, alla sua stregua, sia legittimo differenziare la situazione dei soggetti che subiscano, rispettivamente, una perdita del valore reale o del valore nominale del pagamento loro dovuto ex contractu a seguito di un successivo intervento del legislatore su negozi relativi ad un rapporto destinato a protrarsi nel tempo. E tuttavia l’indagine dovrà risultare ancora più articolata al suo interno, occorrendo tenere in specifica considerazione "l'eccezionalità della situazione economica e tenuto conto delle esigenze prioritarie di raggiungimento degli obiettivi di contenimento della spesa pubblica" cui si riferisce il legislatore al primo comma dell’art 3 della legge 7 agosto 2012, n. 135; ed alla cui stregua una risposta differenziata, violativa del principio di eguaglianza in via ordinaria, potrebbe non esser più tale in un clima di "emergenza economica".
Cominciamo proprio dall’esaminare la compatibilità col dettato costituzionale di una risposta differenziata extra ordinem.
Il legislatore italiano non è nuovo ad interventi realizzati in un clima di "emergenza economica". Le ipotesi più rilevanti sono, allo stato, quelle che in materia di espropriazione per ragioni di pubblica utilità hanno inciso assai negativamente sul patrimonio dei privati cittadini, abbattendo di circa 1/3 rispetto al valore venale del bene quello dell’indennità di espropriazione dovuta per la sua forzosa acquisizione alla mano pubblica (3). Orbene: proprio con riguardo a tali ipotesi il giudice delle leggi, da un atteggiamento benevolo volto a salvare le innovazioni apportate rispetto al criterio di cui all'art. 39 della legge 2359 del 1865 (4), è passato ad uno di estremo rigore (5), in particolare stigmatizzando un esercizio della funzione legislativa a carattere emergenziale, che desse tuttavia vita a norma destinate a rimanere operanti senza alcun limite di tempo, e senza la individuazione di alcun meccanismo che consentisse di "agganciare" la cessazione della loro efficacia all’estinguersi della situazione di "emergenza economica" che era stata - giustamente o meno; ma in questo caso secondo una valutazione di ordine esclusivamente politico… - sua mallevadrice ( 6). Mi sembra quindi una vana fatica quella sostenuta dal legislatore nell’anno 2012 per munire di una clausola di "emergenzialità economica" una disciplina che presenta tutti i difetti che avevano condannato a morte l’art. 5-bid del D.L. n. 333/1993, convertito, con modificazioni, in legge n. 359/1992, e che verosimilmente non la salverà da una futura decapitazione a meno che, con altri argomenti, non si possa sostenere la legittimità di una risposta differenziata per i casi che stiamo qui esaminando.
La domanda – l’unica residua domanda, io credo a questo punto – allora è: un pregiudizio al valore reale di una obbligazione pecuniaria può valer meno del pregiudizio al valore nominale della stessa?
La questione, invero, non è mai stata affrontata dalla Corte costituzionale in modo espresso; ma esistono nondimeno diverse pronunce nelle quali, avendo il giudice delle leggi evidenziato la natura di danno risarcibile nella perdita del potere di acquisto della moneta, è stata esclusa, per violazione del principio di eguaglianza rispetto alla regola generale enunciata dall’art. 1224 C.C., la legittimità costituzionale di talune norme che operavano un discrimine in ordine al pieno ristoro patrimoniale di talune categorie di creditori. In termini, nella sentenza 17 maggio 2001, n. 136, la Corte Costituzionale, pronunciando sulla legittimità di una norma dettante la disciplina delle somme dovute a pubblici dipendenti in forza di inquadramenti con efficacia retroattiva, così affermava: "Ma, più in generale, il diniego di interessi e rivalutazione comporta per il personale in esame una posizione deteriore rispetto a qualsiasi altro creditore di somma di danaro, tenuto conto che l'art. 1224 c.c. collega all'inadempimento delle obbligazioni pecuniarie l'effetto normale della corresponsione degli interessi e quello eventuale del risarcimento del maggior danno, nel quale rientra il pregiudizio da perdita di valore della moneta". Né, secondo quella stessa pronuncia, una generica esigenza di contenimento della spesa pubblica avrebbe potuto legittimare deroghe ad un principio ordinamentale tanto pregnante quanto quello di eguaglianza (7). Il medesimo convincimento peraltro era già stato espresso dal giudice delle leggi nella sentenza 23 marzo 1986, n. 52. Ma di ancor maggiore interesse, per quel che ci riguarda, è la sentenza 22 aprile 1980, n. 60. Qui la Corte Costituzionale afferma che " È incontestabile ed universalmente noto che il deprezzamento della moneta incide sul valore reale dei rapporti di credito-debito in valuta: ma gli effetti della svalutazione monetaria rispetto alle obbligazioni pecuniarie (specie se a medio o lungo termine) potranno eventualmente richiedere misure della più varia natura, non necessariamente l'aumento del saggio degli interessi legali".
Si può adesso tentare di estrarre, dalla giurisprudenza menzionata, una "regola generale" per quanto riguarda la tutela del valore reale delle obbligazioni pecuniarie in favore del creditore, articolandola secondo la seguente scansione:
1)la perdita del valore reale del diritto di credito avente ad oggetto una somma di denaro costituisce danno risarcibile;
2)viola il principio di eguaglianza ogni normativa che limiti, derogando al precetto di cui all’art. 1224 C.C. (utilizzato quale tertium comparationis), il risarcimento del danno da perdita del valore reale di un diritto di credito avente ad oggetto una somma di denaro;
3) la violazione del principio di eguaglianza si realizza anche quando al titolare del credito avente ad oggetto una somma di denaro non viene concesso l’accesso a "misure" diverse dal diritto al risarcimento del danno, delle quali può invece beneficiare il soggetto che abbia subito una riduzione del valore nominale del proprio diritto di credito.
Ora non credo ci voglia molto per comprendere come il sistema delineato dal primo e dal quarto comma dell’art. 3 della legge 7 agosto 2012, n. 135 si ponga in aperto contrasto, con esiti esiziali quanto alla sua legittimità ex art. 3 Cost., con la "regola generale" che si è in precedenza ricostruita. In particolare la mancata attribuzione del diritto di recesso al locatore nell’ipotesi di azzeramento dell’aggiornamento del canone secondo gli indici ISTAT rappresenta la negazione del diritto di accesso ad una "misura", che rende deteriore la di lui posizione rispetto al pregiudizio discendente da una riduzione del valore nominale di un credito avente ad oggetto una somma di denaro.
Quale allora il futuro della normativa in esame?
Riterrei probabile un intervento sostanzialmente cassatorio della Consulta - meglio se nelle forme della sentenza interpretativa di accoglimento, la quale dichiari la illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost., del primo comma dell’art. 3 della legge 7 agosto 2012, n. 135 nella parte in cui, nell’ipotesi di azzeramento dell’aggiornamento del canone di locazione in essere secondo gli indici ISTAT, non attribuisca al locatore il diritto di recesso dal contratto, così come nell’ipotesi di riduzione ex lege del canone di locazione.
Il che non potrà mancare di rendere ancor più grave l’approccio poco lungimirante del legislatore con riguardo all’ipotesi di amministrazioni pubbliche sotto sfratto, secondo quanto meglio si dirà al successivo paragrafo.
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Con riguardo al diverso profilo che ci eravamo riservati di esaminare in un diverso paragrafo, sconcerta l’insieme di cinismo e miopia con cui il legislatore ha affrontato la materia del diritto di recesso del locatore nell’ipotesi di riduzione legale (del 15%) del canone di locazione in essere. Per chiarire meglio il senso della precedente affermazione occorre però rinunciare ad un approccio di tipo esclusivamente giuridico, e piuttosto ragionare nei termini degli effetti economici che può produrre una domanda addizionale che si riversi sul mercato delle locazioni, ad opera delle amministrazioni pubbliche destinatarie di un legittimo atto di recesso da parte del locatore a norma del quarto comma dell’art. 3 della legge 7 agosto 2012, n. 135..
La insufficiente domanda sul mercato delle locazioni di immobili a fini non abitativi è forse l’indice più evidente di una situazione generalizzata di crisi dell’intero sistema economico – le saracinesche abbassate fanno più male, e raccontano assai meglio di quanto non i più manipolabili indici circa il tasso di disoccupazione od il ricorso alla C.I.G. straordinaria… Orbene: è proprio in una situazione di generalizzata e perdurante crisi economica che il Governo può pensare di conseguire il massimo risultato utile delle misure in esame, solo in una tale condizione essendo probabile che il locatore eviti di esercitare il diritto di recesso a sè attribuito non credendo di poter dare in locazione a privati l’immobile (oltretutto spesso di grandi dimensioni, e costruito per corrispondere alle esigenze specifiche di una data P.A. non fungibili con diverse modalità di suo impiego) reso nuovamente disponibile, e pertanto rassegnandosi a subire una decurtazione del 15% del canone di locazione in essere piuttosto che rimanerne inutilmente titolare, al solo scopo – e qui, davvero, la ciliegina sulla torta! – di dover corrispondere una IMU sempre più onerosa.
Ecco dunque il cinismo del legislatore italiano: con una mano (ed in particolare: con la coeva legge 7 agosto 2012, n. 134, con la quale è stato convertito in legge il D.L. 22 giugno 2012, n. 85) adotta iniziative per promuovere la crescita economica; e con l’altra (ed in particolare: con l’art.3 della legge 7 agosto 2012, n.135) adotta misure di contenimento della spesa pubblica che, per risultare economicamente efficaci, presuppongono proprio il perpetuarsi di una situazione di crisi economica generalizzata!
Ma al di là dei giudizi etici, veniamo ora ad esaminare criticamente le conseguenze di una disciplina assolutamente involuta, che rischia di produrre effetti economici di segno esattamente antitetico (ed altro che risparmi di spesa!) nell’ipotesi di un clima di ripresa economica.
Una sufficiente domanda di beni immobili da locare ad uso non abitativo proveniente dai privati potrebbe rendere la generalità delle amministrazioni pubbliche senza più…fissa dimora. Piuttosto che rassegnarsi alla percezione di un canone di locazione ridotto ex lege, i locatari potrebbero essere indotti ad esercitare il diritto di recesso a sè attribuito e successivamente scegliere, come proprie controparti negoziali, esclusivamente soggetti parimenti privati, impedendo così ai soggetti pubblici di acquisire la disponibilità di immobili strumentali allo svolgimento della propria missione istituzionale mediante la via del consenso. Con previgenza, un legislatore non dico "illuminato", ma quantomeno non miope, avrebbe quindi dovuto preoccuparsi del pessimo stato della strumentazione giuridica esistente in materia di acquisizione in via autoritativa della disponibilità in uso di beni, mobili ed immobili.
Avendo visto la luce in un periodo vicino a quello bellico, la disciplina in materia di requisizione in uso è stagionata, caratterizzata da presupposti specifici che non corrispondono più alle ipotesi attualmente tipiche di "situazione emergenziale", nonché assolutamente scollegata rispetto al pluralismo autonomistico secondo cui si articola l’ordinamento giuridico interno in regime post-repubblicano. Intervenire su di essa, con riguardo alle amministrazioni pubbliche private della disponibilità attuale di una sede istituzionale per l’esercizio del diritto di recesso da parte del locatore a norma del quarto comma dell’art. 3 della legge 7 agosto 2012, n. 135, costituiva dunque un imperativo categorico .
Cosa che si sarebbe potuta fare, aggiungo, realizzando delle misure di contenimento della spesa pubblica rispettose dei parametri costituzionali.
E sia questo il ragionamento.
Stante la eterointegrazione del contratto limitatamente al corrispettivo dovuto a titolo di canone di locazione a norma del quarto comma dell’art. 3 della legge 7 agosto 2012, n. 135, neppure la semplificazione procedimentale rappresentata dalla possibilità di concludere il relativo contratto mediante ricorso alla trattativa privata – prima ex art. 38, comma primo, n. 4) del R.D. 23 maggio 1924, n. 827; ed oggi a norma dell’art. 57, comma secondo, lettera b) del D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, essendo in contratto di locazione di immobili quello in cui tipicamente "il contratto (può) essere affidato unicamente ad un operatore economico determinato" - , in un clima di rinnovata crescita economica, potrebbe ragionevolmente contribuire a soddisfare il fabbisogno locativo delle PP.AA. La requisizione in uso, dal canto suo, è una soluzione – allo stato – molto più onerosa della conservazione della disponibilità del bene a canone ridotto, poiché si ancora al "reddito normale che il bene è atto a produrre" (8) – ovvero, nell’ipotesi di immobili già locati in precedenza, al corrispettivo pagato dal precedente conduttore, rimodulato mediante applicazione di un coefficiente di correzione stocastico in base al futuro "stato del mondo" nel tempo Tf. Si può dunque pensare, per far quadrare i conti, di rimodulare l’indennità di requisizione in uso secondo la misura del canone ridotto ex art. 3, quarto comma, della legge 7 agosto 2012, n. 135?
Non lo credo.
Il diritto di recesso, per conservare una sua logica funzione, deve essere preordinato al riacquisto della disponibilità dell’immobile da parte del locatore, onde consentirne allo stesso un reimpiego in termini economicamente più vantaggiosi. Ma se Tizio, recedendo dal contratto di locazione passiva con l’amministrazione x, può vedersi imporre la stessa come legittimo occupante del medesimo bene ex auctoritate, ed a condizioni economiche non dissimili da quelle proprie ad un contratto di locazione a canone ridotto ex quarto comma dell’art. 3 della legge 7 agosto 2012, n. 135, come potrebbe escludersi un esproprio del diritto di recesso in concreto da parte del legislatore che avesse in quella misura rideterminato l’indennità di requisizione in uso? Una tale norma, a mio parere, sarebbe affetta da un palese difetto di ragionevolezza. Essa finirebbe col negare quanto prima era stato concesso, ed opererebbe una parificazione fra situazione radicalmente "altre" – e più in particolare: fra la disponibilità del bene conservata, rispettivamente, bilateralmente mediante consenso (ovvero mediante astensione dall’esercizio del diritto di recesso da un contratto concluso in conformità a quanto previsto dall’art. 1321 C.C.), ovvero unilateralmente ex auctoritate -, dando luogo, mutatis mutandis, a quella irragionevolezza che il giudice delle leggi aveva ritenuta propria ad una norma che aveva parificato, quanto, rispettivamente, a misura della indennità da corrispondere e del danno da risarcire, la espropriazione legittima a quella legittima (9).
Il che non vuol dire dover rinunciare a priori alla ricerca di soluzioni pur sempre vantaggiose per il pubblico erario.
De jure condendo, credo al contrario che sarebbe possibile giungere ad una soluzione che contemperi, da un lato, le esigenze di contenimento della spesa per locazioni passive delle PP.AA., e dall’altro eviti una totale omologazione della disciplina di una rapporto che prosegua consensualmente, ovvero unilateralmente - per via d’autorità - mediante il ricorso ad un provvedimento ablatorio. De equo et bono sarei propenso a limitare il risparmio di spesa conseguibile dalla P.A. interessata alla semisomma, in valore assoluto, del differenziale fra vantaggio nullo e vantaggio massimo conseguibile mediante la riduzione ex lege del canone di locazione in essere secondo quanto previsto dal quarto comma dell’art. 3 della legge 7 agosto 2012, n. 135; in formula: | 0 – 15|:2 = 7,5. E tuttavia, riterrei parimenti "ragionevole", e dunque esente da mende a norma dell’art. 3 Cost., una disciplina normativa che, tenuto conto dei più affidabili modelli econometrici a disposizione del Governo per stimare l’effetto utile dell’intervento in un ottica di assetto generale degli equilibri di finanza pubblica, stabilisca ex novo l’importo dell’indennità di requisizione in una misura che si rapporti al canone di locazione in essere al momento dell’esercizio del diritto di recesso da parte del locatore a norma del terzo comma dell’art. 3 della legge 7 agosto 2012, n. 135, ridotto in una misura che non sia inferiore al 5% nè superiore al 10%.
NOTE
(1) Ex plurimis, Cass. Civ., sez. III, sent. 26 giugno 2012, n. 10639; Cass. Civ., sez. III, sent. 20 dicembre 2011, n. 27560; Cass. Civ., sez. V, sent. 9 luglio 2010, n. 16204.
(2) Con riguardo alla disciplina codicistica, si può far menzione della facoltà di recesso contemplata in favore dell’affittuario (così come dell’affittante) ove " in conseguenza di una disposizione di legge, [di una norma corporativa,] o di un provvedimento dell'autorità riguardanti la gestione produttiva, il rapporto contrattuale risulta notevolmente modificato in modo che le parti ne risentano rispettivamente una perdita e un vantaggio" (art. 1623 C.C.), od ancora in favore dell’appaltatore ove egli sia tenuto, per l'esecuzione dell'opera a regola d'arte dell’opus commissum ad apportare "variazioni (che) super(ino) il sesto del prezzo complessivo convenuto" (art. 1660). Con riguardo a quanto previsto dalla legislazione speciale, si può ex adverso focalizzare l’attenzione sulla mancata attribuzione del diritto di recesso al mutuatario che abbia pattuito in proprio favore interessi usurari: qui infatti è proprio la conservazione forzosa del rapporto che si atteggia, secondo la miglior dottrina (e G. Collura, più in particolare), a sanzione in danno del mutuatario, palesando così come la mancata attribuzione del diritto di recesso, nell’ipotesi di sopravvenienze incolpevoli che incidano sull’economia di un certo rapporto giuridico, si ponga in non lieve contrasto con il principio di tutela dei patrimoni privati desumibile dal testo dell’art. 42 Cost.
(3) Così a norma dell’art. 5-bis del D.L. n, 333/1992, convertito, con modificazioni, in legge n. 359/1992.
(4) Corte Cost., sent. 16 giugno 1993, n. 283; Corte Cost., sent. 16 dicembre 1993, n. 442
(5) Corte Cost., sent. 24 ottobre 2007, n. 348; C. Cost., sent.
24 ottobre 2007, n. 349.(6) "Sotto il primo profilo, si deve notare che il criterio dichiaratamente provvisorio previsto dalla norma censurata è divenuto oggi definitivo, ad opera dell'art. 37 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità) - non censurato ratione temporis dal giudice rimettente -, che contiene una norma identica, conformemente, del resto, alla sua natura di atto normativo compilativo. È venuta meno, in tal modo, una delle condizioni che avevano indotto questa Corte a ritenere la norma censurata non incompatibile con la Costituzione. Né si può ritenere che una «sfavorevole congiuntura economica» possa andare avanti all'infinito, conferendo sine die alla legislazione una condizione di eccezionalità che, se troppo prolungata nel tempo, perde tale natura ed entra in contraddizione con la sua stessa premessa. Se problemi rilevanti di equilibrio della finanza pubblica permangono anche al giorno d'oggi - e non si prevede che potranno essere definitivamente risolti nel breve periodo - essi non hanno il carattere straordinario ed acuto della situazione dei conti pubblici verificatasi nel 1992, che indusse Parlamento e Governo ad adottare misure di salvataggio drastiche e successivamente non replicate.": C. Cost., sent. 24 ottobre 207, n. 348.
(7) Cfr. Corte Costituzionale, sent. 17 maggio 2001, n. 136, nella quale, tra l'altro, si legge: "L'Avvocatura dello Stato sostiene che la norma denunciata non sarebbe irragionevolmente discriminatoria, perché determinata da esigenze di contenimento della spesa pubblica. Tale allegazione è del tutto generica, riducendosi in sostanza a richiamare l'esigenza di tener conto della giurisprudenza amministrativa che, per l'inadempimento dell'obbligazione retributiva da inquadramento, faceva decorrere gli accessori dalla data della deliberazione dell'indicata Commissione e non dai provvedimenti individuali. Non viene minimamente spiegato come siffatto orientamento possa avere giustificato la sottrazione radicale di taluni crediti retributivi - in quanto tali meritevoli, ex art. 36 Cost., di trattamento privilegiato - alla disciplina generale dell'inadempimento prevista non solo per le retribuzioni degli altri dipendenti pubblici e dei lavoratori in genere, ma addirittura per i comuni crediti pecuniari di ogni altro cittadino. Alla rilevata totale genericità del riferimento alle esigenze di bilancio, consegue che la Corte non debba soffermarsi sul se e in quali limiti esse possano eventualmente incidere sui crediti retributivi del settore del lavoro pubblico".
(8) Ciò facendo applicazione di quanto previsto dall’art. 422 del D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 66, il cui art. 422 ribadisce quanto già previsto dall’art. 57 del R.D. 18 agosto 1940, n. 1761, sul presupposto – invero non del tutto convincente, ma necessario per la pochezza delle fonti normative altrimenti utilizzabili - che una situazione di "emergenza economica" possa venir parificato ad una situazione di "crisi internazionale" (il che consente di intestare poteri anche alle autorità civili, in virtù di quanto previsto dall’art. 402di quello stesso D.Lgs; in perfetta conformità, del resto, alla disciplina precedentemente contenuta all’interno del R.D. 18 agosto 1940, n. 1761). Del resto un chiaro indizio della inesistenza di una normativa diversa utilizzabile per risolvere i medesimi problemi in tempo di pace si evince chiaramente dalla O.P.C.M. 18 febbraio 2011, n. 3924, che della requisizione in uso si occupa con esclusivo riguardo a quella "strumentale all’acquisizione della disponibilità delle aree"; ovvero con riguardo ad un procedimento espropriativo d’urgenza – con consequenziale rinvio alla disciplina dell’art. 22-bis del D.P.R. n. 327/2001 -, che poco o nulla ha a che vedere con l’istituto giuridico della requisizione in uso.
(9) Corte Cost. 2 novembre 1996, n. 369, la quale ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 65, della legge 28 dicembre 1995, n. 549, nella parte in cui aveva modificato l’originario tenore del sesto comma dell’art. 5-bis del D.L. n. 333/1992, convertito, con modificazioni, in legge n. 359/1992.