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Articoli e note

 

Guido Corso
(Ordinario di diritto amministrativo nell’Università di Palermo)

Per una giustizia amministrativa più celere.

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1.- Per riconoscimento universale, la celerità della giustizia è una componente della effettività della giustizia. Il sesto emendamento della Costituzione americana garantisce ai cittadini il diritto ad uno speedy trial. L'art. 14 del patto internazionale dei diritti civili e politici del 1966, recepito nell'ordinamento italiano e munito dell'efficacia conferitagli dall'art. 10 della Costituzione, riconosce all'imputato nel processo penale, il diritto di "essere giudicato senza ingiustificato ritardo". La convenzione europea dei diritti dell'uomo prescrive, all'art. 6, un "termine ragionevole" per lo svolgimento del processo.

Se ci volgiamo al processo amministrativo e consideriamo alcune delle proposte rivolte a ridurre la sua durata, ci si accorge che esse possono confliggere con la richiesta di tutela del cittadino: così come, reciprocamente, alcune delle proposte rivolte a rendere più ampia e più piena la tutela giurisdizionale, potrebbero implicare, se accolte senza correttivi, un allungamento dei tempi del processo.

Si pensi, ad es. alla spinta culturale e sociale, in parte assecondata dalla giurisprudenza civile ed amministrativa, ad allargare la legittimazione a ricorrere o, se si preferisce, ad estendere il novero degli interessi giustiziabili. Nella misura in cui si amplia l'accesso alla giustizia ed aumenta il numero dei procedimenti, si estende, coeteris paribus, la durata del processo.

Si pensi, ancora, all'altra domanda di avvicinare territorialmente il giudice alla utenza potenziale, domanda anch'essa ispirata da esigenze di ampliamento della tutela. L'effetto del suo accoglimento è quello di moltiplicare il contenzioso: lo ha dimostrato la esperienza dei TAR, a conferma di una regola organizzativa universale, secondo cui il decentramento territoriale degli apparati erogatori di pubblici servizi - dalla istruzione, alla sanità, ai servizi sociali - porta ad incrementare la domanda sociale.

Si consideri un'ipotesi più specifica.Una delle tendenze della giurisprudenza amministrativa è quella di estendere, nell'ambito della giurisdizione esclusiva sul pubblico impiego, il novero degli atti paritetici con correlativa riduzione della sfera degli atti autoritativi. Si amplia la tutela del pubblico impiegato, a cui viene consentito di avvalersi di un termine quinquennale di prescrizione, anziché del termine breve di decadenza. Di conseguenza si incentiva il contenzioso, con ovvi effetti sulla durata dei processi.

Un quarto esempio.Si censura la prassi dell'assorbimento - sulla quale peraltro torneremo - come indebitamente restrittiva di una domanda di tutela riferita a tutti i motivi di ricorso. E' ovvio però che se questi ultimi dovessero essere sempre tutti analiticamente esaminati si allungherebbero i tempi necessari al deposito della sentenza.

Guardiamo ora ai rapporti tra le due istanze - accelerazione del processo ed effettività della tutela - assumendo il punto di vista della prima, e non della seconda.

Come l'ampliamento della tutela tende, nelle ipotesi considerate, ad allungare i tempi del processo, così alcuni suggerimenti indirizzati a ridurre la durata del processo, potrebbero, se accolti, ridurre la tutela. Valga per tutte la proposta formulata da alcuni magistrati di TAR in sede di audizione davanti alla Commissione per gli Affari costituzionali della Camera dei Deputati, in occasione dell'esame del d.d.l. e del p.d.l. sul processo amministrativo (1984), di eliminare la motivazione della sentenze dei TAR o meglio di subordinare il deposito alla richiesta della parte e in vista della prosecuzione del giudizio in appello.

Per concludere su questo primo punto. In questo, come in tanti altri settori, le scelte pubbliche vanno sottoposte ad un vaglio di congruenza e soprattutto vanno fatte valere con la consapevolezza dei limiti di compatibilità reciproca. Ampiezza e pienezza di tutela giurisdizionale sono auspicabili, così come è auspicabile l'accelerazione del processo: ma non sempre le misure dirette ai due obiettivi sono tra loro conciliabili.

 

2.- In un disegno di accelerazione del processo amministrativo, che tenga presente le ragioni della tutela, distinguerei due tipi di misure.

Misure che attengono alla gestione della domanda di giustizia e quindi, concretamente, all'ordine di trattazione dei ricorsi; misure che attengono alla conduzione del processo.

Per quanto riguarda le prime, si potrebbe immaginare, in deroga al principio della trattazione dei ricorsi secondo l'ordine cronologico che dovrebbe costituire la regola (così come in materia amministrativa: art. 13 D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3), le seguenti priorità:

a) ricorsi per i quali la durata del processo si risolve tutta in danno del ricorrente che ha ragione: danno che, alla stregua del persistente diniego di risarcimento del pregiudizio nascente da lesioni di interessi legittimi, non è riparabile neppure dall'accoglimento del ricorso. Mi riferisco, principalmente, o al diniego di provvedimento o al silenzio mantenuto sulle domande di provvedimenti che abilitano allo svolgimento di attività economica (dall'autorizzazione dell'esercizio del commercio alla concessione edilizia richiesta da un imprenditore edile). In questi casi la decisione di accoglimento del ricorso ed il successivo adempimento da parte dell'amministrazione con rilascio del provvedimento prima negato non elimina il danno prodotto medio tempore.

Il principio elaborato da Chiovenda a proposito della tutela cautelare è che in casi del genere è del tutto impotente, salvo che non si comincino a sospendere, come il TAR Sicilia ha fatto, atti negativi siffatti - dovrebbe operare come criterio di precedenza nella trattazione dei ricorsi.

Lo stesso vale per l'impugnazione del diniego di pronuncia di chi sia stato utilmente collocato in graduatoria o dell'atto di risoluzione del rapporto d'impiego o per il ricorso proposto contro il rifiuto di un finanziamento pubblico, o contro l'annullamento o la revoca di atti a contenuto patrimoniale o con rilevanti implicazioni patrimoniali.

Non si giustifica, invece, una priorità generalizzata a favore dei ricorsi in tema di pubblico impiego, qual'è consacrata dall'art. 28 della legge quadro (L. 29 marzo 1983 n. 93), ove si consideri che nelle ipotesi di pretese patrimoniali il danno prodotto dalla durata del processo è risarcito mediante gli interessi e la rivalutazione delle somme, e che molte delle pretese relative alla carriera sono suscettive di venir soddisfatte con effetto dalla data di proposizione della domanda (o di adozione del provvedimento impugnato) attraverso l'espediente giuridico del'"ora per allora".

b) Ricorsi contro provvedimenti che hanno efficacia limitata nel tempo (di solito un anno) e sono soggetti a rinnovo: per es. incarichi di insegnamento, contributi a corsi di formazione, etc. La trattazione con urgenza soddisfa un interesse che altrimenti verrebbe meno, esonera il soggetto dal reiterare il ricorso contro l'atto del successivo e fa sì che il giudice, con la sentenza fornisca un orientamento all'amministrazione in sede di rinnovazione dell'attività.

c) Ricorsi che, pur essendo stati proposti in data successiva, abbiano oggetto uguale o simile a quelli di altri precedenti per i quali sia fissata l'udienza di trattazione.

L'ipotesi è frequente, specie in materia di pubblico impiego e soprattutto in relazione alla applicazione degli accordi nazionali di lavoro. Tale applicazione, per ciascun accordo, si verifica in tempi diversi presso le amministrazioni interessate, sicchè diversi sono i tempi d'impugnazione. La trattazione congiunta che, peraltro, alcuni presidenti di TAR dispongono, ha il duplice vantaggio di una considerazione globale del tema e di una soluzione della lite che è più neutra rispetto agli interessi in gioco, e meno si presta a soluzioni di specie (o di favore).

d) Ricorsi collettivi proposti da numerosi ricorrenti, spesso decine e talvolta centinaia.

In questi casi la priorità di trattazione si giustifica in base alla considerazione elementare che con una sola decisione si soddisfa una domanda di giustizia che, al di là della apparenza ingenerata dalla unicità del ricorso, è in realtà plurima.

e) Ricorsi contenenti una domanda di sospensione accolta, quando la trattazione del merito sia sollecitata, mediante istanza di prelievo, dalla amministrazione o dai controinteressati.

Non mi pare, invece, che la precedenza si giustifichi in assenza di una sollecitazione in questo senso. La contraria prassi, di fissare comunque con precedenza la trattazione dei ricorsi con sospensiva accolta muove dall'idea che il giudice amministrativo debba farsi carico dell'interesse pubblico anche in assenza di una iniziativa della amministrazione parte del giudizio, e che tale interesse pubblico coincida con l'esecuzione del provvedimento impugnato: idea che non ritengo compatibile con la struttura, costituzionalmente obbligata, del processo amministrativo come processo di parte con la configurazione del giudice amministrativo come giudice (come tale estraneo agli interessi in gioco piuttosto che tutore dell'interesse pubblico).

f) Ricorsi che risultino, prima facie, irricevibili o inammissibili. Quel criterio di selezione che per i ricorsi per cassazione legittima la pronuncia in camera di consiglio, anziché in pubblica udienza (art. 375 c.p.c.) qui potrebbe valere ai fini dell'ordine di trattazione e di un più rapido sfoltimento dei ruoli.

g) Un altro espediente di un certo rilievo è quello del ruolo aggiunto, introdotto in alcuni tribunali. Per renderlo più efficace, ossia per evitare il malvezzo dei ricorrenti di dichiarare persistente un interesse anche quando è venuto meno, si potrebbe far uso del potere di condanna alle spese quando si accerti, in sede di decisione, che in realtà l'interesse a coltivare il ricorso mancava già al momento di quella dichiarazione.

L'elenco potrebbe continuare a lungo. I più idonei ad integrarlo sono proprio i giudici che meglio di ogni altro sperimentano il peso che sui ruoli esercitano le relazioni tra i ricorsi ed i tipi di ricorso.

Come è agevole notare, alcune delle ipotesi di accelerazione sopra prospettate (soprattutto lett.c), lett. e), lett. f) sono formulate non a tutela dei ricorrenti interessati, ma degli altri ricorrenti i quali, ai fini della riduzione dei tempi di attesa, hanno tutto l'interesse a che i ruoli vengano liberati di ricorsi analoghi ad altri posti in deliberazione, di ricorsi irricevibili, di ricorsi inammissibili: ricorsi che, continuando a languire sui ruoli, persistono invece come concorrenti che aspirano ad una più sollecita trattazione. E' il raggruppamento dei ricorsi ed una più sollecita trattazione - sulla scorta dei criteri suindicati e di tanti altri ipotizzabili - che semplifica il processo decisionale e sfoltisce la waiting list del servizio di giustizia amministrativa (cfr. l'osservazione di A. La Pergola, La giustizia costituzionale nel 1986, in Foro it. 1987, V, 151: "grazie ad un ormai avviato sistema informatico, l'ufficio ruolo e massimario fornisce alla Corte la compiuta visione delle pendenze e sopravvenienze e riesce così a prospettare una piena semplificazione ed organizzazione del lavoro, offerta dalla riunione dei giudizi, talvolta in largo numero, ai fini di un'unica decisione .... A giustificare la trattazione congiunta bastano profili di connessione materiale ....").

3.- L'altro aspetto riguarda la conduzione del processo.

Una delle lacune più grosse del processo amministrativo è la mancanza di un giudice istruttore, tant'è che i progetti di riforma ne prevedono la figura, come magistrato delegato alla ammissione dei mezzi di prova (salvo che la prova testimoniale, in ordine alla quale perdura, secondo il d.d.l. governativo, la competenza del collegio) e alla assunzione dei mezzi di prova (art. 1 n. 10 lett. b) e c). Anche se il ruolo del giudice istruttore, come entità separata dal collegio, è oggi contestato nel processo civile - il d.d.l. n. 2414/S/IX concernenti i provvedimenti urgenti per l'accelerazione dei tempi della giustizia civile presentato al Senato nella passata legislatura il 16.2.1987, configura il Tribunale come giudice monocratico - la necessità di una fase istruttoria che colmi lo spazio fra il momento della proposizione del ricorso e l'udienza di discussione è avvertita come inderogabile.

La realtà è sotto gli occhi di tutti.

Dopo anni il ricorso viene assegnato alla udienza di trattazione e non può essere deciso perchè manca del tutto la documentazione o perchè il contraddittorio va integrato, etc. Da quì la sentenza interlocutoria che anzichè chiudere il processo, pone le premesse perchè esso duri un'altro anno, altri due anni o più.

Il rimedio è reperibile anche nel sistema vigente, e di tanto in tanto viene utilizzato (sul punto v. E. Cannada Bartoli, in La riforma del processo amministrativo - Camera dei Deputati, 1984, p. 325).

Se il relatore della causa venisse nominato, anziché (come oggi di solito accade) con lo stesso decreto di fissazione dell'udienza, all'atto del deposito del ricorso o subito dopo - nessuna norma esiste in proposito, salvo che in materia elettorale (art. 83/11 del T.U. 16 maggio 1960 n. 570) - egli diverrebbe, secondo l'efficace espressione di Merusi, un opportuno regolatore del "traffico", in entrata nel TAR. Potrebbe avviare il ricorso al ruolo veloce, ove ricorrano i presupposti prima richiamati: aggregarlo a ricorsi consimili per oggetto e motivi; inviarlo alla decisione "conforme" se ripropone questioni già decise; verificare la completezza del contraddittorio, in modo che si possa provvedere alla sua sollecita eventuale integrazione con la notifica ai controinteressati non intimati: individuare i documenti, menzionati nel ricorso o desumibili dal ricorso, necessari alla decisione; ai fini della loro sollecita acquisizione al giudizio (F. Merusi e G. Saviti, L'"ingiustizia" amministrativa in Italia, Bologna 1986, 53).

Il relatore verrebbe a predisporre l'ordinanza presidenziale istruttoria di cui all'art. 23 co. 5° della L. 1034/1971 che è svincolata dall'accordo delle parti, previsto invece come condizione per l'ammissibilità dell'esercizio del potere istruttorio del Presidente dalla normativa sul Consiglio di Stato (art. 44, co. 3°, T.U. 1054/1924 e art. 28 R.D. 624/1907): sicché la causa arriverebbe alla udienza di trattazione già istruita e con la presenza di tutte le parti del giudizio o, quanto meno, la loro avvenuta intimazione.Attiene anch'esso allo svolgimento del giudizio un altro elemento, che incide negativamente sui tempi.

Sulla base della ritenuta non perentorietà del termine fissato dall'art. 22 della legge TAR per la costituzione in giudizio della amministrazione resistente, questa suole costituirsi con memoria dieci giorni prima dell'udienza, indicando spesso documenti che non produce, e facendo affermazioni dalle quali sorge l'esigenza di acquisire altri documenti. Anche questo è causa di allungamento dei tempi processuali se si traduce in una sentenza istruttoria. Per rimediare a tale situazione non è sufficiente l'attività del magistrato relatore, quale si è sopra prospettata, ma sarebbe necessaria la affermazione della perentorietà del termine per la costituzione ed il deposito dei documenti, come avviene in cassazione per il controricorso ed il deposito degli atti e dei documenti (art. 370 c.p.c.: per il suggerimento, P. Virga, in La riforma ... cit., 302). Ad un sistema di preclusione, in funzione di accelerazione del giudizio, si tende a tornare nel processo civile ed in questo senso sono orientati tutti i progetti di riforma.

Nel processo amministrativo, restando invariata la legislazione, si può far ricorso alla condanna alle spese per sanzionare i comportamenti neghittosi o fraudolenti delle amministrazioni resistenti in ordine alla produzione di documenti dei quali siano in possesso: così come un più ampio uso andrebbe fatto della "regola di giudizio" contenuta nell'art. 116 c.p.c. che consente al giudice di desumere argomenti di prova dal contegno mantenuto nel processo dalle parti e, in caso di rifiuto ingiustificato di cooperazione all'istruzione, di ritenere provati i fatti affermati dalla controparte.

Uno strumento efficace per la definizione della lite può talvolta essere offerto dalla ordinanza istruttoria emessa in sede di giudizio cautelare.

Sulla richiesta di sospensione del provvedimento impugnato il tribunale dispone l'acquisizione di documenti e chiarimenti ai quali subordine la decisione. L'ordinanza può mettere a nudo, in tal caso, la fragilità della posizione dell'amministrazione; l'esecuzione dell'istruttoria spesso dimostra non solo l'inesistenza dei presupposti giustificativi del provvedimento. Il che può indurre l'amministrazione resistente a ritirare l'atto impugnato.

Quanto più si accentua, nella prospettiva giustiziale l'autonomia tra i singoli atti dell'amministrazione, tanto più si impone la necessità di impugnare con separati ricorsi atti emanati in tempi diversi, ma legati da un qualche nesso (presupposizione, connessione, conseguenzialità).

E' nota la costruzione, giurisprudenziale e dottrinale, in tema di atti presupposti ed atti conseguenziali. Quando questi ultimi non siano meramente esecutivi dell'atto presupposto, l'eventuale annullamento giurisdizionale dell'atto presupposto non travolge gli atti conseguenziali: sicchè, anche per loro, si impone una autonoma impugnazione. In difetto della quale il ricorso contro l'atto presupposto si considera improcedibile per sopravvenuta carenza d'interesse.

La questione si pone in giurisprudenza anche sotto il diverso profilo degli effetti del giudicato in relazione alla distinzione fra due forme di invalidità derivata. Si avrebbe una invalidità "caducante" quando l'atto impugnato costituisce il presupposto unico ed imprescindibile dell'atto conseguenziale, sicchè la sua eliminazione travolge automaticamente l'atto conseguenziale, e si avrebbe invece una invalidità soltanto "viziante" quando l'atto conseguenziale risente dei vizi dell'altro ma resiste al suo annullamento, occorrendo per la sua eliminazione un provvedimento amministrativo e giurisdizionale (P. Virga, in Studi Gucciardi, Padova 1975; S. Cassarino, Il processo amministrativo, II, 812).

In base allo stesso ordine di idee si ritiene che se l'amministrazione, anzichè confermare puramente e semplicemente un precedente atto impugnato, lo sostituisce con altro, sia pure di analogo contenuto, il ricorrente è tenuto ad impugnare anche il nuovo atto; se intende salvare il ricorso contro l'atto sostituito da improcedibilità per sopravvenuto difetto d'interesse.

Per arginare la proliferazione dei ricorsi che è imposta da queste costruzioni sarebbe necessario configurare diversamente la causa petendi, l'oggetto del giudizio amministrativo d'impugnazione, l'efficacia oggettiva del giudicato. Se si facesse leva, più che sull'atto impugnato, sulla lesione del soggetto privato ed in genere di chi è sottoposto al potere amministrativo - lesione che persiste inalterata ed è semmai aggravata dagli atti successivi a quello impugnato, ma adottati sul presupposto di questo od in sua sostituzione - non occorrerebbe un nuovo ricorso, non occorrerebbe neppure la proposizione di motivi aggiunti (di cui la giurisprudenza prevalente nega l'ammissibilità nei riguardi di atti diversi da quello impugnato): sarebbe sufficiente svolgere ed ampliare la difesa nell'ambito della originaria impugnazione per ottenere giustizia. La questione è troppo importante perchè possa essere toccata di sfuggita: vengono evocati temi ed alternative come quelli del giudizio sull'atto - giudizio sul rapporto, del parallelismo tra giudizio amministrativo e giudizio civile e via dicendo.

Dal nostri limitato punto di vista ci pare utile sottolineare che questa diversa configurazione del giudizio amministrativo diversa da quella corrente, ma da qualcuno ritenuta più fedele alla sostanza ed alle funzioni del processo comporterebbe una riduzione del contenzioso e quindi - in base alla legge della correlazione inversa tra numero dei processi e durata di ciascun processo - una più rapida decisione.

4.- La giustizia (amministrazione della giustizia) è un servizio pubblico fra gli altri, anche se in posizione eminente. Il suo funzionamento dipende dall'equilibrio fra inputs (domande) ed outputs (decisioni, nel nostro caso decisioni preordinate alla tutela del privato): equilibrio che si rompe quando vi è un sovraccarico di domande alle quali è impossibile far fronte.

L'overload - espressione di una tendenza diffusa in ogni sistema di servizio - determina inefficienza. Da quì l'esigenza di introdurre criteri di selezione della domanda che, salvaguardando le finalità dell'istituzione (della giustizia alla sanità, all'istruzione universitaria), siano in grado di impedire un deterioramento complessivo delle prestazioni: quel deterioramento che è inevitabile quando si vogliono soddisfare tutte le domande senza porre limiti alla loro proporzione.

Le regole che subordinano l'accesso alla giurisdizione ad un interesse (es. art. 100 c.p.c.) o che qualificano questo interesse in termini di individualità e personalità appartengono al novero di questi criteri di selezione. In tali prospettive la tendenza ad allargare la legittimazione, ad ammettere azioni popolari, a riconoscere agli interessi diffusi accesso alla tutela giurisdizionale vanno guardate con cautela: perchè, incrementando la domanda di giustizia, potenzialmente aggravano la difficoltà che il sistema incontra nel soddisfare chi già aveva titolo ad una risposta.

Il discorso sin qui fatto attiene alla giustizia come apparato di erogazione di un servizio. Esso può, tuttavia, trovare fecondi svolgimenti nell'ambito di una più specifica riconsiderazione dei fini e dell'oggetto del processo amministrativo.

Il dato da cui partire è che, per prescrizione costituzionale, il processo amministrativo serve per la tutela del cittadino, non per il controllo della pubblica amministrazione. Serve alla protezione di interessi, non all'annullamento di atti illegittimi. L'illegittimità è sanzionabile, a mezzo del processo, se ed in quanto sia associata alla lesione di un interesse.

Se facessimo applicazione rigorosa di questo principio, del tutto ovvio, ne trarremmo una serie di conseguenze. Cerchiamo di chiarirle con qualche esempio (che valga ad esonerarci dalle complesse argomentazioni che invece occorrerebbero per fondarle con un minimo di rigore).

a) Tizio, partecipante ad una gara di appalto, impugna la sua esclusione e la successiva aggiudicazione ad altra ditta.

Secondo la giurisprudenza è sufficiente la partecipazione alla gara a radicare il suo diritto ad una decisione di merito. Secondo noi, solo dimostrando che la sua offerta sarebbe risultata la migliore, se non fosse stata indebitamente esclusa, Tizio ha titolo all'annullamento della gara. Non può considerarsi interesse tutelabile l'interesse alla rinnovazione della gara - interesse non diverso da quello che qualunque altra ditta potrebbe avere, senza che ciò le dia titolo a ricorrere.

b) Difetto o insufficienza di motivazione.

Si ritiene che esso basti per ottenere l'annullamento dell'atto (o del diniego o del silenzio) impugnato senza che l'amministrazione o il controinteressato siano abilitati a dimostrare che in ogni caso l'atto è legittimo, per ragioni diverse da quelle enunciate, o che il provvedimento reclamato dalla parte (attraverso l'impugnazione del silenzio) non avrebbe potuto essere adottato.

Si esclude che attraverso le difese giudiziali possa essere fornita la motivazione che manca o integrata la motivazione insufficiente. La regola è legata all'altra che nega all'amministrazione resistente o al controinteressato di proporre eccezioni in senso proprio. L'una e l'altra sono di pura costruzione giurisprudenziale e non trovano alcun addentellato nella normativa sul processo amministrativo.

Il ragionamento potrebbe essere rovesciato.

Nel silenzio della legge processuale amministrativa andrebbe fatta applicazione del principio secondo cui le norme del processo civile hanno valore suppletivo e integrativo.

Se fosse consentito esporre in giudizio ragioni giustificative dell'atto impugnato, non enunciate in seno all'atto stesso, e di proporre eccezioni in senso proprio, il numero delle pronunce di accoglimento scenderebbe notevolmente (così come si ridurrebbe il numero dei ricorsi). Per converso l'accoglimento del ricorso (che si fondasse sul rigetto delle ragioni ed eccezioni esposte in giudizio a difesa dell'atto impugnato) precluderebbe all'amministrazione la rinnovazione del provvedimento, con nuova motivazione; espediente cui invece sovente si ricorre e che vanifica gli effetti della vittoria giudiziale, oggi spesso ottenuta troppo a buon mercato, sicché viene data esca a un rinnovato contenzioso.

Un giudicato che investisse non soltanto i profili di illegittimità prospettati dal ricorrente, ma anche le difese dell'amministrazione e dei controinteressati, se favorevole al ricorrente, chiuderebbe, almeno tendenzialmente la partita. Come è nell'essenza del giudicato: mentre oggi questo è spesso un intervallo tra due sequenze di attività amministrativa, la seconda delle quali solo in piccola misura è vincolata dalla statuizione giudiziale.

c) Altra regola che trova applicazione nel processo civile e a cui si nega ingresso nel processo amministrativo è quella per cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile.

Se essa venisse accolta, troverebbe un ulteriorie limitazione la prassi della rinnovazione del provvedimento annullato, con diversa motivazione.

Il giudicato investirebbe non soltanto le difese che l'amministrazione avesse spiegato in giudizio (la c.d. integrazione giudiziale della motivazione), ma anche quelle che avrebbe potuto spiegare e non ha spiegate (il deducibile non dedotto).

Ne risulterebbe vieppiù ampliata la sfera del giudicato, ed esaltata la funzione del giudizio; non più episodio tra due sequenze di attività amministrativa, ma vera e propria statuizione autoritativa del rapporto.

d) Nella prospettiva della tutela giudiziaria contro la lesione, anche la questione del c.d. assorbimento andrebbe riesaminata.

Abbiamo, da un lato, la prassi della selezione del motivo o dei motivi di ricorso da esaminare, con assorbimento degli altri in caso di accoglimento - prassi che limita in modo spesso arbitrario la portata del giudicato; dall'altro la richiesta di esame di tutti i motivi di ricorsi.

Probabilmente la soluzione più ragionevole sta nel mezzo. La richiesta di esaminare tutti i motivi di ricorso si giustifica teoricamente solo se, come si riteneva una volta da qualcuno, ciascun motivo viene fatto coincidere con una distinta azione: ma non se si ritiene che l'azione sia unica. I motivi andrebbero invece esaminati secondo il criterio della maggiore o minore prossimità alla tutela in senso sostanziale. Il motivo sostanziale andrebbe privilegiato rispetto al motivo formale, nel senso che quest'ultimo potrebbe essere dichiarato assorbito se il primo venisse accolto.

All'inverso se il motivo o i motivi sostanziali dovessero ritenersi infondati, verrebbe meno, il più delle volte, l'interesse all'esame dei motivi formali: che, di conseguenza, andrebbero dichiarati inammissibili.

Ancora una volta, privilegiando la prospettiva della Verletzung (§ 42 II), avremmo un minor numero di decisioni di accoglimento, ma una più intensa tutela, in caso di accoglimento, delle ragioni del privato.

E' superfluo rilevare che se l'attività di giudizio venisse orientata in questa direzione, una fetta rilevante di contenzioso (quella affidata soltanto, o prevalentemente, a motivi di ordine formale) non avrebbe più ragione d'essere. Il che, ovviamente, si ripercuote sui tempi complessivi della giustizia - con vantaggio di chi ha ragione.


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