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Articoli e note

n. 9/2004 - © copyright

MARCELLO CAMPANARDI *

L’onere delle spese legali affrontate dagli amministratori locali
nel caso di reati attinenti la libertà di espressione

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1. La questione della liquidazione delle spese legali.

L’attività oratoria di un consigliere comunale va considerata come “causa” oppure come “occasione” dello svolgimento del mandato presso il proprio Ente di appartenenza?

L’interrogativo presenta riflessi pratici niente affatto scontati e realmente concreti nella misura in cui essi sono suscettibili di incidere sulla spesa dell’Ente locale, in quanto solo nel primo caso (e sempre che siano soddisfatte tutte le condizioni per l’ammissione al patrocinio a carico del proprio Ente pubblico di appartenenza) sarebbe ammissibile il patrocinio da parte dell’Ente. Eppure la linea di demarcazione resta difficile da tracciare.

E’ pacifico che, ove un giudizio penale per diffamazione sia iniziato a seguito di un’attività svolta dal consigliere comunale non nella propria qualità di amministratore dell’Ente, ma in veste estranea [1], la liquidazione delle spese legali da parte dell’Ente è illegittima e produttiva di danno erariale.

La difficoltà di analisi si presenta invece nel caso contrario, rappresentato dal consigliere comunale o provinciale che, nel corso del dibattito consiliare, e quindi nel pieno delle proprie funzioni pubbliche, svolga il proprio intervento con toni critici, magari accesi, nei confronti di un avversario politico, che i toni raggiungano un livello tale da sfociare in conflitto e che la parte “criticata” sporga querela. Un caso concreto di tale specie presenta scenari giuridici non omogenei, in alcune sfumature addirittura in conflitto, che rendono oggettivamente difficile per il funzionario pubblico la determinazione circa l’imputazione dell’onere sostenuto dal querelato per le spese legali.

Qualora il giudizio susseguente abbia prodotto una sentenza che assolva con formula piena il consigliere, e divenuta irrevocabile detta sentenza, il consigliere comunale potrà essere messo in condizione di richiedere il rimborso all’Ente di appartenenza delle spese legali sostenute per difendersi in giudizio.

2. I presupposti per l’assunzione dell’onere di difesa.

Per capire se e in quale misura sia ammissibile il rimborso delle spese legali in ipotesi quali quella sopra rappresentata, occorre rammentare che il principio del rimborso delle spese legali sostenute dagli amministratori di un Ente Locale a causa del proprio mandato si ricava dall’applicazione di una norma elaborata per i dipendenti degli EE.LL., l’art. 67 del D.P.R. 268 del 1987 [2].

Va precisato, innanzitutto, che il termine “rimborso” viene spesso utilizzato in modo improprio, in quanto la norma non prevede alcuna ipotesi di rimborso, bensì un’assunzione d’onere diretta e precedente all’instaurazione del giudizio da parte dell’Ente locale.

Il principio trova la sua radice nell’art.1720 del codice civile “spese e compenso del mandatario” (<<Il mandante deve inoltre risarcire i danni che il mandatario ha subiti a causa dell’incarico>>). Tale interpretazione è ampiamente acquisita, nel riconoscere agli amministratori la natura di pubblici funzionari loro riconosciuta ormai da tempo dalla giurisprudenza (Cass, sez. I, 13.12.2000 n. 15724) [3].

Si tratta, è bene sottolinearlo, di un’interpretazione estensiva del principio civilistico contenuto nel citato art.1720 e non di un’estensione delle disposizioni dettate per i dipendenti degli Enti Locali: ragion per cui essa dovrebbe essere soggetta ad un accertamento delle condizioni nel merito ancor più rigorose [4].

La sentenza di assoluzione, da sola, non costituisce requisito sufficiente per la legittimità della refusione delle spese di lite. I presupposti per l’assunzione degli oneri di difesa da parte dell’Ente sono ricavabili, in parte dalla norma, in parte dalla giurisprudenza formatasi sull’argomento, secondo la sintetica elencazione fatta di seguito [5]:

1) diretto interesse e quindi diretta imputabilità dell’attività del soggetto all’Amministrazione di appartenenza (rapporto di immedesimazione organica) [6];

2) assenza di conflitto di interessi, da ricavarsi direttamente dalla sentenza di assoluzione [7];

3) richiesta preventiva di patrocinio legale;

4) sentenza di assoluzione con formula piena;

5) l’interessato che richiede il rimborso deve essere coinvolto nel procedimento penale in qualità di convenuto [8];

3. Una prima conclusione sulla diretta imputabilità dell’oratoria consiliare all’Ente.

Sulla base di questa “griglia” di requisiti, la valutazione dell’ipotesi di una sentenza per un reato di diffamazione tra consiglieri comunali che abbiano esercitato il proprio diritto di critica nel corso di un dibattito consiliare presenta delle peculiarità. Il consigliere comunale nell’esprimere le proprie considerazioni esercita un diritto riconosciuto dall’ordinamento democratico. Resta sempre da stabilire se nell’esercizio della propria attività oratoria si concretizzi l’immedesimazione organica con l’organo Consiglio comunale; in altre parole, se nel corso di tale attività si concretizzi il nesso (il mandato ex art.1720 c.c.) tra l’attività del singolo amministratore e la volontà dell’Ente al quale egli è legato dal vincolo di mandato.

Un primo orientamento sostiene che questo nesso non si realizza nel corso dell’attività oratoria, che rimane unicamente imputabile al soggetto che la esprime, mentre si realizza nel caso in cui tale volontà concorra a determinare la volontà dell’organo, sfociando nell’adozione dell’atto deliberativo. Secondo tale impostazione, l’oratoria del consigliere, che è poi suscettibile di sfociare in un procedimento giudiziario per l’accertamento della sussistenza degli estremi del reato di diffamazione, non è un’ attività ricollegabile all’Ente di appartenenza.

L’assunzione dell’onere della difesa giudiziale degli amministratori è ammissibile quando <<sussiste un interesse direttamente collegato ai fini dell’Ente, essendo la difesa destinata a far accertare la liceità o legittimità del comportamento degli amministratori riconducibile direttamente all’Ente come azioni proprie di quest’ultimo [9]>>.

Il rimborso delle spese legali sostenute nel procedimento penale svoltosi a carico del dipendente (e, per estensione, a carico dell’amministratore) riguarda fatti direttamente connessi all’espletamento di compiti d’ufficio, quale ineliminabile presupposto [10].

La norma, infatti, richiede che l’amministrazione abbia un diretto interesse derivante dal fatto che l’attività dello stesso è ad essa imputabile.

Ai fini del rimborso è necessario accertare pertanto che le spese siano state sostenute a causa e non semplicemente in occasione dell’incarico. La norma ha un ambito di applicazione riguardante le sole spese sostenute dal mandatario in stretta dipendenza dei propri obblighi: il codice del 1942 riporta l’espressione “a causa” in luogo della locuzione “in occasione” contenuta nel precedente codice del 1865. Tale sostituzione compiuta dal legislatore appare pienamente voluta e consapevole.

Si tratta infatti di una conclusione strettamente connessa al principio della personalità della responsabilità penale, così come personale è il giudizio volto ad accertare la sussistenza del reato contestato all’imputato [11].

Seguendo questa impostazione, non sembra sussistere un legame di imputabilità della volontà del consigliere assolto all’Ente di appartenenza. L’ipotesi di diffamazione non sarebbe quindi un’attività ricollegabile all’ente perché è una mera manifestazione (per così dire “patologica”) dell’attività oratoria del singolo consigliere [12].

4. La richiesta preventiva del patrocinio legale e la valutazione sul conflitto di interesse.

In relazione alla concessione del patrocinio legale da parte dell’Ente di appartenenza, detto patrocinio deve essere richiesto anticipatamente e non a procedimento concluso, in quanto il funzionario o amministratore ha diritto ad essere difeso a spese dell’amministrazione da un legale da essa incaricato, ma non di ottenere il rimborso delle spese sostenute a procedimento concluso per l’incarico ad un legale individuato autonomamente dall’interessato [13].

In sintesi, la norma presuppone la preventiva scelta dell’ente di assumere la difesa in giudizio del dipendente. Più precisamente essa esclude la possibilità di ripetere nei confronti del dipendente le spese, anticipate dal comune, in tutti i casi di proscioglimento; ma non stabilisce affatto che l’interessato possa ottenere dall’amministrazione il rimborso delle spese legali da lui affrontate [14].

L’assunzione dell’assistenza legale non è automatica, ma deve essere conseguenza di alcune valutazioni che l’ente è tenuto a fare nel proprio interesse <<per assicurare una buona e ragionevole amministrazione delle risorse economiche e a tutela del proprio decoro e della propria immagine>> [15].

Le condizioni (<<essenziali e imprescindibili>>) sono:

- la valutazione sulla necessità di tutelare i propri interessi e la propria immagine;

- la diretta connessione con la carica o l’ufficio ricoperto nell’Ente dall’imputato;

- la carenza di conflitto di interesse tra gli atti compiuti dal soggetto imputato e l’Ente [16].

L’Amministrazione può assumere la difesa a condizione che il reato ascritto riguardi un’attività svolta in connessione con fini dell’Ente e pertanto, in caso di contrapposizione giudiziale tra il dipendente o amministratore ed essa, non è ammissibile l’assunzione a suo carico delle spese legali [17].

La sentenza n°10680 del 14.12.1994 della Corte di Cassazione - Sezioni Unite, indagando sull’ applicazione delle norme civilistiche sul mandato (artt.1703 e ss. del codice civile) riconosce al mandatario il diritto di esigere dal mandante il risarcimento dei danni subiti a causa dell’incarico (art.1720), ma impone al medesimo il dovere di eseguire il mandato “con la diligenza del buon padre di famiglia”(art.1710) per accertare la corrispondenza tra l’attività del funzionario/amministratore inquisito ed l’interesse dell’amministrazione di appartenenza prima di procedere all’assunzione dell’onere delle spese legali da parte di quest’ultima [18].

Il tribunale di Catanzaro (sentenza 12 gennaio 2003 [19]) giunge a sostenere che, quando l’ente è parte offesa nel giudizio penale, anche se si è costituito parte civile, ricorre l’ipotesi di conflitto di interessi che esclude la possibilità della richiesta di accollo alle casse comunali delle relative spese legali sostenute da un suo amministratore (quel giudice, inoltre, partiva dal non riconoscimento dell’estensione analogica della norma dai dipendenti agli amministratori).

Nel caso che ci occupa, soltanto apparentemente il conflitto di interessi può essere rappresentato dal fatto che il querelante sia un altro appartenente dell’Amministrazione comunale, che si consideri diffamato dalle affermazioni fatte dal consigliere comunale. La querela, tuttavia, può essere anche considerata come un atto compiuto dal querelante in qualità di libero cittadino che si senta diffamato dalle dichiarazioni fatte dal consigliere comunale per la difesa in giudizio della propria dignità personale oppure della propria deontologia professionale e non in qualità di membro di un organo istituzionale.

Resta il dubbio se, in caso di querele presentate reciprocamente da due o più amministratori, il Comune debba sopportare le spese di ciascuno oppure debba “prendere posizione” per patrocinare solo una parte.

Considerata l’ampiezza del panorama di casi che si possono presentare in caso di querela tra amministratori locali, l’unico dato realmente acquisito è che il conflitto di interessi debba ricavarsi direttamente dalla sentenza di assoluzione senza possibilità di “andare oltre” esaminando dati di contesto o fatti la cui cognizione è già stata appannaggio dall’organo giudiziario competente: se la sentenza non reca in sé alcuna osservazione riguardante tale aspetto, il conflitto di interessi andrebbe escluso.

5. La tutela del bene giuridico pubblico “libertà di espressione” quale criterio per l’assunzione dell’onere di difesa.

Dalle osservazioni finora svolte appare indubbio che la norma si presti a differenti interpretazioni e che la sua applicazione può condurre a soluzioni pratiche difformi. Prova ne è il fatto che esistono pareri e sentenze contrastanti tra loro.

Tornando al punto nodale dell’immedesimazione organica si possono assumere due impostazioni alternative.

Nel primo caso, come già visto sopra, non sembrerebbe sussistere tale legame di imputabilità della volontà del consigliere assolto all’Ente di appartenenza. Tale nesso infatti non si realizza nel corso dell’attività oratoria, che rimane unicamente imputabile al soggetto che la esprime, mentre si realizza nel caso in cui tale volontà concorra a determinare la volontà dell’organo, sfociando nell’adozione dell’atto deliberativo. Secondo tale impostazione la diffamazione non è un’ attività ricollegabile all’Ente.

Tale impostazione sembra suffragata da considerazioni che hanno poco di carattere giuridico e rivestono più il carattere di “riflessioni” sulla moralità della gestione della spesa pubblica: perché, ci si può chiedere, il cittadino deve pagare le spese di diatribe tra amministratori che sfociano nelle aule giudiziarie?

Ma non fermiamoci qui. Per mettere alla prova tale impostazione occorre rivolgere la propria attenzione ad un “bene giuridico” finora dato per scontato. La seconda impostazione, contraria alla precedente, porterebbe a considerare quale “bene giuridico” (che la norma di riferimento indirettamente finisce per tutelare) la libertà di espressione del consigliere comunale. L’Ente, dunque, dovrebbe tutelare la funzione del consigliere nella sua qualità di parte dell’organo Consiglio comunale o provinciale e, in quanto tale, soggetto istituzionale che concorre alla determinazione della volontà pubblica anche attraverso la propria attività oratoria, mediante l’esercizio di critica, di richiesta di chiarimenti, interrogazioni, ecc…: l’esercizio della funzione di controllo che l’ordinamento delle autonomie locali riconosce all’organo consiliare si esprime anche attraverso la singola attività di ciascun consigliere.

In tal senso si deve riconoscere la necessità di ricondurre all’Amministrazione di appartenenza l’interesse a tutelare legalmente la libertà di espressione del consigliere comunale (fatta salva ovviamente la ripetizione delle spese in caso di condanna, o, per meglio dire, in caso di non assoluzione con formula piena). In presenza di una sentenza definitiva di assoluzione, pertanto, l’onere delle spese dovrebbe essere sostenuto dall’Ente, in quanto l’attività oratoria rientra nello svolgimento di una pubblica funzione [20].

A suffragio di quest’ultima impostazione si osserva che, se la norma avesse voluto escludere l’assunzione dell’onere di difesa da parte dell’Ente, avrebbe dovuto prevedere ipotesi di reato che risultino a priori escluse dalla possibilità di ottenere il patrocinio e l’assunzione del conseguente onere delle spese legali e, in particolare, quella serie di reati che il codice qualifica come “contro l’onore”.

Ma la norma non contempla una simile deroga. Ed in effetti sarebbe stato difficile concepire tale distinzione in una norma che, come si ricordava sopra, è tuttora concepita solo per i dipendenti e non (espressamente) per gli amministratori: concepire l’imputazione del reato di diffamazione per un dipendente nello svolgimento delle proprie funzioni è indubbiamente un’ipotesi molto più remota che concepirlo per una carica, quale quella del membro di un Consiglio, che incentra gran parte della propria attività proprio nell’attività oratoria in sede di dibattito pubblico, laddove le affermazioni dei consiglieri non di rado trasmodano in apprezzamento sulle qualità morali personali delle persone. Come a dire che il rischio di incorrere in una imputazione di diffamazione è enormemente più calzante per chi fa dell’oratoria uno strumento principe della propria funzione. La difficoltà di ricondurre allo schema delineato dalla norma il reato attinente la libertà di espressione costituisce un limite evidente della estensione analogica della norma stessa dai funzionari agli amministratori.

Come si vede (rammentando la norma civilistica di riferimento art. 1720 c.c. citata all’inizio), il punto che appare decisivo per optare tra l’una o l’altra impostazione è sempre quello posto inizialmente: l’attività oratoria di un membro del Consiglio comunale o provinciale va considerata come “causa” oppure come “occasione” dello svolgimento del mandato che lo collega al proprio Ente di appartenenza?

Dal punto di vista pratico, conseguenze negative potrebbero derivare qualora venisse riconosciuta l’assunzione a carico dell’Ente dell’onere di spesa sostenuto a causa di un processo per diffamazione e a seguito di sentenza assolutoria. La conseguenza potrebbe essere quella di ingenerare nei consessi consiliari un clima di de-responsabilizzazione e indurre a comportamenti, linguaggi e contenuti meno “prudenti” nell’ambito del dibattito politico-amministrativo, giustificati essenzialmente dall’assenza del rischio di dover poi “pagare di tasca propria” le proprie imprudenti affermazioni.

Va considerato che conseguenze altrettanto negative potrebbero derivare nel caso di un mancato riconoscimento del diritto al patrocinio, perché, in un clima di particolare acrèdine tra le fazioni politiche che concorrono al governo di una città, si potrebbe determinare il caso di chi, nell’Amministrazione, essendo particolarmente “sensibile” alle critiche, usi lo strumento della querela oltre ogni limite, abusandone anche in casi in cui la critica è puramente politica e contenuta nell’ambito della legalità. In tal caso il consigliere comunale chiamato a difendersi per causa ( e non in occasione) del proprio mandato, una volta assolto con formula piena, potrebbe interrogarsi sul perché debba sopportare l’onere di una spesa soltanto per aver esercitato il proprio mandato elettorale, esprimendo valutazioni e critiche che l’ordinamento democratico gli consente di svolgere. La conseguenza sarebbe duplice:

- la prima di carattere giuridico, perché svuoterebbe di contenuto il concetto di mandato proveniente dal corpo elettorale.

-  la seconda afferente il confronto democratico nelle sedi istituzionali del governo locale, dato che la libera espressione delle opinioni verrebbe condizionata fortemente dal timore di incorrere in procedimenti giudiziari originati da querela per diffamazione.

Entrambi gli scenari sopra delineati sono certamente portati all’estremo, proprio perché è utile a volte ragionare per assurdo. Un argine è stato recentemente posto dalla Suprema magistratura per le frasi offensive scambiate durante le riunioni del consiglio comunale, le quali non costituiscono ingiurie penalmente perseguibili (Cass. V sez. penale n. 20067 del 5.5.2003 [21]. Infatti la ingiuria cosiddetta “politico – amministrativa”, in quanto riferita non alla persona fisica che riveste il ruolo politico (sindaco, consigliere o assessore) ma alla funzione che essa riveste, gode dell’esimente dell’esercizio di critica di cui all’art. 51 del Codice Penale.

Vale a dire che le affermazioni dirette esclusivamente alla funzione istituzionale ricoperta e non anche alle prerogative personali di privato cittadino, non sono perseguibili in sede penale.

In conclusione, riconosciuta la necessità per l’Ente di tutelare il consigliere comunale nel suo ruolo di controllo e di critica politica, occorre considerare che tale ruolo:

1) è garantito ampiamente dalla legge;

2) può esprimersi mediante diverse forme tra cui anche quella dell’attività oratoria.

La “cosa pubblica” che la Pubblica Amministrazione deve tutelare in questo contesto, astraendola dal caso concreto, è la libertà di espressione democratica nell’ambito dei propri organi istituzionali e non certamente la singola posizione del consigliere o amministratore comunale, il quale riceve la propria tutela direttamente dalla legge: lo status del consigliere comunale trova infatti il suo fondamento nel Testo Unico sull’ordinamento degli Enti locali, all’art. 43 “Diritti dei consiglieri” e all’art. 77 “Definizione di amministratore locale”, per il quale la Repubblica tutela il diritto di ogni cittadino chiamato a ricoprire cariche pubbliche nelle amministrazioni degli enti locali ad espletare il mandato, disponendo del tempo, dei servizi e delle risorse necessari, ecc…

Soltanto seguendo questa impostazione potrà ritenersi l’attività oratoria del consigliere comunale come attività collegata al mandato istituzionale e, ravvisando in ciascuna concreta fattispecie il soddisfacimento dei presupposti per il rimborso delle spese legali (o, per meglio dire, per l’assunzione dell’onere di spesa a carico dell’Ente di appartenenza), l’istanza di rimborso potrà essere accolta. In tal senso si esprime il nesso funzionale tra il consigliere e l’Ente di appartenenza [22].

Non appare fuori luogo l’ipotesi di un consesso consiliare che, all’inizio del proprio mandato elettorale si esprima (possibilmente a larga maggioranza se non all’unanimità) con un atto di indirizzo ed autoregolamentazione per decidere se considerare l’attività oratoria dei consiglieri comunali come attività attinente il mandato elettorale e quindi svolta a causa e non in occasione del mandato medesimo, riconoscendo pertanto il diritto al patrocinio legale dell’Ente nei casi in cui siano soddisfatti tutti i requisiti dettati dalla estensione analogica della norma, oppure se privilegiare argomentazioni legate alla moralità dell’azione pubblica, impegnando (seppur solo moralmente e non giuridicamente) ciascun consigliere a non richiedere l’impropriamente denominato “rimborso” durante tutto il mandato amministrativo.


 

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* Funzionario del Comune di Porto Sant’Elpidio (AP)

[1] Corte dei Conti Basilicata sez. giurisd. 29 marzo 2001, n.73: in quel caso il giudizio si riferiva ad un’attività di redazione di volantini denigratori redatto da alcuni consiglieri nella propria veste di sindacalisti.

[2] In precedenza la fattispecie era disciplinata dall’art. 16 del D.P.R. 1 giugno 1979 n. 191 successivamente recepito tanto nell'art. 22 del D.P.R. 25 giugno 1983, n. 347, quanto nell'art. 67 del D.P.R. 13 maggio 1987 n. 268 (con modifiche). Il D.P.R. 13-5-1987 n. 268 “Norme risultanti dalla disciplina prevista dall'accordo sindacale, per il triennio 1985-1987, relativo al comparto del personale degli enti locali”, pubblicato nel Suppl. Ord. Gazz. Uff. 11 luglio 1987, n. 160, all’art. 67. “Patrocinio legale”, dispone:<< 1. L'ente, anche a tutela dei propri diritti ed interessi, ove si verifichi l'apertura di un procedimento di responsabilità civile o penale nei confronti di un suo dipendente per fatti o atti direttamente connessi all'espletamento del servizio e all'adempimento dei compiti d'ufficio, assumerà a proprio carico, a condizione che non sussista conflitto di interessi, ogni onere di difesa sin dall'apertura del procedimento facendo assistere il dipendente da un legale di comune gradimento. 2. In caso di sentenza di condanna esecutiva per fatti commessi con dolo o con colpa grave, l'ente ripeterà dal dipendente tutti gli oneri sostenuti per la sua difesa in ogni grado di giudizio.>> La norma è stata ribadita con integrazioni nell’art. 28 “Patrocinio legale” del Contratto collettivo nazionale di lavoro per il personale del comparto Regioni e AA.LL del 14 settembre 2000.

[3] A favore: Corte dei Conti Abruzzo, sez giurisd. 29 novembre 1999, n.1122; Corte di Conti sez. riun. 1° giugno 1986, n.501. La Direzione generale civile del Ministero dell’Interno, con risoluzione 15900/10/B/1/A in data 9 agosto 1999 accoglie l’impostazione dell’interpretazione estensiva sul presupposto che anche agli amministratori possa essere, come la costante giurisprudenza della Corte dei Conti riconosce, attribuita la natura di pubblici funzionari, anche in considerazione delle norme che riconoscono la possibilità agli Enti di assicurare i propri rappresentanti (art.23. L. 816/85, art.26, comma 5, L. 265/99, art.86, comma 5, D.Lgs. 267/2000).

 Il Consiglio di Stato, Sez. V – Sentenza 17 luglio 2001 n. 3946 – afferma: <<Ai sensi degli artt. 22 D.P.R. 25 giugno 1983, n. 347 e 67 del D.P.R. 13 maggio 1987, n. 268 (cfr. anche l’art. 50 D.P.R. 3 agosto 1990, n. 333), hanno titolo al rimborso delle spese legali i dipendenti enti locali sottoposti a giudizio penale per fatti o atti direttamente connessi all'espletamento del servizio e all'adempimento dei compiti d'ufficio, sempreché il giudizio stesso non si sia concluso con una sentenza di condanna e non vi sia conflitto di interessi con l'Amministrazione di appartenenza; tali norme, anche se espressamente riguardanti il personale, sono da ritenere estensibili pure agli amministratori degli enti locali.

E' dovuto il rimborso delle spese di difesa sostenute da un amministratore locale (nella specie, un Sindaco) per un procedimento penale, purché i fatti che hanno dato luogo al procedimento stesso sia connesso ai compiti d'ufficio, il procedimento si sia concluso con una sentenza di assoluzione e manchi un conflitto di interessi con il Comune per ciò che concerne i fatti oggetto del giudizio penale.>>

[4] Consiglio di Stato, sentenza n.2242 del 2000, anche commentata su Il Sole 24 Ore del 28 agosto 2000.

[5] Da ultima la sentenza del TAR Puglia – Bari, SEZ. II – sentenza 18 marzo 2004 n. 1390: <<Affinché sorga il diritto del dipendente dell'Ente pubblico all'assistenza processuale, a carico dell’ente medesimo, ai sensi degli artt. 16 del D.P.R. 1 giugno 1979 n. 191, 22 , D.P.R.  n. 347/83, e 67, D.P.R. n. 268/87, debbono ricorrere le seguenti condizioni essenziali: 1) assenza di dolo e colpa grave; 2) stretta connessione tra il contenzioso (civile o penale) e la carica o l’ufficio rivestiti, di guisa che gli atti o i fatti oggetto di giudizio siano stati posti in essere nell’espletamento del servizio (ovvero, a causa di questo) e risultino, quindi, imputabili direttamente all’amministrazione – soggetto nell’esercizio della sua attività istituzionale; 3) l’assenza di conflitti d’interesse tra il dipendente e l’ente di appartenenza; 4) la circostanza che il procedimento si sia concluso con una sentenza di assoluzione.>>

[6] <<La difesa nel giudizio penale del pubblico dipendente risponde all'esigenza di adeguata tutela della pubblica amministrazione, per la salvaguardia dell'immagine e per la necessità di evitare o limitare i potenziali danni patrimoniali a carico dell'amministrazione stessa derivanti dalla responsabilità civile in base all'art. 28 della Costituzione e dalle norme attuative di tali principi, di cui agli artt. 18 e ss. D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3" (cfr. T.A.R. Veneto, Sez.I, 23.3.2000 n. 835).

[7] Servizio Segreteria della Conferenza Regione – Autonomie Locali – Consulenza giuridica agli Enti Locali, su www.regione.emilia-romagna.it/coreco, novembre 2000 “Diritto degli amministratori al pagamento degli oneri di difesa in giudizio”.

[8] Tali criteri sono ampiamente esaminati in A. Sagna “Sull’ammissibilità del rimborso delle spese legali sostenute dagli amministratori di enti pubblici nei procedimenti penali definiti con formula assolutoria” a commento della sentenza Cassazione civile, Sez. I, n.54 del 3 gennaio 2001, in LexItalia.it.

[9] Corte dei Conti sez. riun. 22.12.87 n.563/A in Finanza locale 1988, n.4.

[10] Cassazione sez. Unite 10 aprile 2000 n.111.

[11] Consiglio di Stato, Sez. V, n.2242 del 14 aprile 2000, in  L’Amministrazione italiana n.10/2001.

[12] ANCI risponde: quesito del 7 settembre 1998.

[13] Corte dei Conti, Sez. Lombardia 1257, 8 giugno 2002.

[14] Di orientamento contrario Corte dei Conti, 18 giugno 1986, n.501. Conforme al menzionato principio vedasi T.A.R. Lombardia Sez.I  Milano 12 giugno 1996, n.799 e T.A.R. Sicilia, Sez. II, Catania 29 giugno 1998, n.1153.

[15] Corte dei Conti, Sez. Lombardia 1257, 8 giugno 2002.

[16] Corte di Cassazione 3 gennaio 2001, n.54 e Consiglio di Stato n.2242 del 2000.

[17] Consiglio di Stato, sez. V, 22 dicembre 1993, n. 1392; Consiglio di Stato, comm. Spec. 6 maggio 1996, n. 4; T.A.R. Piemonte sez. II, 28 febbraio 1995, n. 138; T.A.R: Emilia Romagna, Sez. Parma, 29 luglio 1998, n. 423; T.A.R. Abruzzo, 7 marzo 1997, n.108, Cassazione sez. I, 13 dicembre 2000, n.15724.

[18] Sull’argomento: M. Oricchio “Il regolamento delle spese nei processi ad iniziativa officiosa” www.lexitalia.it, n. 12-2002.

[19] Commentata su Italia Oggi del 13 giugno 2003, pag. 40.

[20] ANCI Risponde: quesito del 14 marzo 2003.

[21] Commentata su Italia Oggi del 16.5.03 pag.48.

[22] Sebbene riferita alla ben diversa  fattispecie di funzione parlamentare, può risultare utile per l’economia del presente lavoro riportare un breve stralcio della sentenza della  Corte Costituzionale 16 aprile 2004 n. 120, in materia di questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), nella parte in cui - nel dare attuazione all’art. 68, primo comma, della Costituzione - ha previsto che l’immunità si applica anche "per ogni altra attività […] di critica e di denuncia politica, connessa alla funzione di parlamentare, espletata anche fuori del Parlamento". La Corte Costituzionale afferma che <<Il limite estremo della prerogativa dell’insindacabilità, è costituito dall’affermazione che l’insindacabilità stessa non può mai trasformarsi in un privilegio personale, quale sarebbe una immunità dalla giurisdizione conseguente alla mera "qualità" di parlamentare e deve esistere un c.d. "nesso funzionale", che solo consente di discernere le opinioni del parlamentare riconducibili alla libera manifestazione del pensiero, garantita ad ogni cittadino nei limiti generali della libertà di espressione, da quelle che riguardano l’esercizio della funzione parlamentare. (…) Certamente rientrano nella sfera dell’insindacabilità tutte le opinioni manifestate con atti tipici nell’ambito dei lavori parlamentari, mentre, per quanto attiene alle attività non tipizzate, esse si debbono tuttavia considerare "coperte" dalla garanzia di cui all’art. 68, nei casi in cui si esplicano mediante strumenti, atti e procedure, anche "innominati", ma comunque rientranti nel campo di applicazione del diritto parlamentare, che il membro del Parlamento è in grado di porre in essere e di utilizzare proprio solo e in quanto riveste tale carica.>>  


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