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Giurisprudenza
n. 5/2006 - © copyright

TRIBUNALE DI PISA – sentenza 15 aprile 2006 – G.U. Tarquini, - G.M.G. (Avv. Favati) c. Ministero dell’Economia e delle Finanze (n.c.) e Agenzia delle Entrate, Direzione Regionale della Toscana (Dr. Aiello e Dr.ssa Tocci ex 417 bis c.p.c.)

1. Giurisdizione e competenza – Pubblico impiego – Incompatibilità – Incarichi esterni – Revoca autorizzazione - Controversie - Giurisdizione del giudice ordinario.

2. Pubblico impiego - Privatizzazione – Incompatibilità - Atti di gestione – Natura privatistica degli atti di gestione – Applicazione principi generali di correttezza e buona fede ex artt.1175 e 1375 cod. civ.

1. Rientra nell’ambito della giurisdizione del giudice ordinario, così come definita dall’art. 63 del d.lgs. n. 165 del 2001, una controversia concernente la legittimità della revoca di autorizzazione a svolgere un incarico extraistituzionale rilasciata dall’amministrazione di appartenenza ad un dipendente.

2. Gli atti delle amministrazioni volti ad assicurare il rispetto della disciplina in tema di incompatibilità con lo status di dipendente pubblico si configurano come atti di gestione del rapporto di lavoro e, in quanto tali, devono essere sindacati secondo i parametri di correttezza e buona fede, di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ.

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Commento di

LUCA BUSICO
(Ufficio legale dell’Università di Pisa)

Le determinazioni delle p.a. in materia di incompatibilità dei dipendenti pubblici

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La sentenza in commento si presenta di notevole interesse, perché affronta sotto diversi profili il tema delle incompatibilità dei dipendenti pubblici [1].

La materia è disciplinata dal combinato disposto degli artt. 53 del d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165 e 60 del D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3 (a cui esplicitamente rinvia il comma 1 del medesimo art.53), i quali danno concreta attuazione al tradizionale principio di esclusività del rapporto di impiego pubblico. La fonte di tale principio è costituita dall’art. 98, comma 1 della Costituzione Repubblicana, secondo il quale i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione.

La norma, da intendersi nel senso che i dipendenti pubblici non devono essere portatori di interessi partigiani alternativi o confliggenti a quelli della pubblica amministrazione [2], è funzionale alla realizzazione dei principi di buon andamento ed all’imparzialità dell’amministrazione (art.97 Cost.), come esattamente sottolineato nella sentenza.

La legge 23 ottobre 1992 n. 421, contenente delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale, che rappresenta il punto di partenza del processo di privatizzazione del rapporto di lavoro di buona parte dei pubblici impiegati, all’art. 2, comma 1, lett. c), include tra le sette materie riservate espressamente alla legge ed alle fonti normative secondarie quella relativa alla disciplina della responsabilità e delle incompatibilità tra l'impiego pubblico ed altre attività e i casi di divieto di cumulo di impieghi e incarichi pubblici.

La sottrazione di tale materia dall’alveo della contrattualizzazione deve essere individuata nell’esigenza che la regolamentazione delle incompatibilità, avendo la finalità di disciplinare i conflitti di interesse che possono crearsi tra l’amministrazione ed i propri dipendenti, risponde alle peculiarità connesse alla natura pubblica del datore di lavoro ed al rispetto dei principi costituzionali di buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa.

L’art. 53, comma 1 del D.lgs. n. 165 del 2001, richiamando l’applicazione degli artt.60 e segg. del D.P.R. n. 3 del 1957, ha ribadito la disciplina pubblicistica della materia.

Il citato art.60, che rimane, pertanto, la norma generale del regime delle incompatibilità, vieta ai lavoratori pubblici l’esercizio di attività commerciali ed industriali, l’esercizio di professioni, l’assunzione di impieghi alle dipendenze di privati e di cariche in società aventi fine di lucro.

A tale divieto espresso in termini generali l’art. 53 del D.lgs. n. 165 appone una serie di deroghe, che possono così essere individuate:

1) deroghe di tipo soggettivo per magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari, nonché agli avvocati e procuratori dello Stato (comma 2), per i dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale con prestazione lavorativa non superiore al cinquanta per cento di quella a tempo pieno, dei docenti universitari a tempo definito e delle altre categorie di dipendenti pubblici ai quali è consentito da disposizioni speciali lo svolgimento di attività libero-professionali (comma 6);

2) deroghe di tipo oggettivo, poiché non violano il regime di incompatibilità alcune attività elencate dal comma 6 dell’art.53 (collaborazione a giornali, riviste, enciclopedie e simili, l’utilizzazione economica da parte dell'autore o inventore di opere dell'ingegno e di invenzioni industriali, la partecipazione a convegni e seminari), che costituiscono estrinsecazione di valori costituzionalmente tutelati quali la libertà di insegnamento e di ricerca, la libertà di manifestazione del pensiero;

3) deroghe per gli incarichi retribuiti, anche occasionali, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, conferiti da altre amministrazioni pubbliche o da soggetti privati, previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza (commi 7, 8, 9 e 10).

In quest’ultimo caso l’'autorizzazione è rilasciata dagli organi competenti dell'amministrazione di appartenenza del dipendente su istanza dello stesso o del soggetto pubblico o privato conferente l’incarico (comma 10) secondo criteri oggettivi e predeterminati, che tengano conto della specifica professionalità, tali da escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, nell'interesse del buon andamento della pubblica amministrazione (comma 5).

La riserva pubblicistica della materia, cui si faceva riferimento in precedenza, riguarda la disciplina che fissa le regole del dovere di esclusività del dipendente pubblico, delle incompatibilità e delle possibili deroghe. Come ben evidenziato nella sentenza in commento, costituiscono, invece, atti di gestione del rapporto di lavoro le autorizzazioni rilasciate ai singoli dipendenti per lo svolgimento di incarichi extraistituzionali e le successive ed eventuali opposte determinazioni di revoca.

Il giudicante tiene conto, a tal proposito, della distinzione tracciata nella normativa di riforma del pubblico impiego tra atti di organizzazione ed atti di gestione.

L’art. 2, comma 1 del D.lgs. n. 165 del 2001 (che ha riprodotto il contenuto dell’art. 2, comma 3 dell’abrogato D.lgs. n. 29 del 1993) ha conservato nell’area pubblicistico-provvedimentale solo gli atti che definiscono le linee fondamentali di organizzazione degli uffici, individuano gli uffici di maggiore rilevanza ed i modi di conferimento della titolarità dei medesimi, determinano le dotazioni organiche complessive. L’art. 5, comma 2 del D.lgs. n. 165 del 2001 (in precedenza art. 4, comma 2, del D.lgs. n. 29 del 1993) dispone che nelle amministrazioni pubbliche le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte dagli organi preposti alla gestione con le capacità e i poteri del privato datore di lavoro.

Dal coordinamento di tali dati normativi emerge che resta affidata alla legge ed alla potestà amministrativa l’organizzazione nel suo nucleo essenziale [3], mentre il rapporto di lavoro dei dipendenti viene attratto nell’orbita della disciplina civilistica per tutti quei profili che non sono connessi al momento esclusivamente pubblico dell’azione amministrativa.

L’inclusione delle autorizzazioni per incarichi extraistituzionali e delle opposte determinazioni di revoca nel novero degli atti di gestione del rapporto di lavoro consente al giudice del lavoro pisano di risolvere sia la questione pregiudiziale di giurisdizione sollevata dall’amministrazione convenuta sia il merito della controversia.

Sotto il primo profilo non vi sono dubbi che la controversia in esame, avendo ad oggetto la legittimità della revoca di autorizzazione a svolgere un incarico extraistituzionale rilasciata dall’amministrazione di appartenenza ad un dipendente, ricada nella giurisdizione del giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro [4].

Sotto il secondo profilo il suddetto atto di revoca, in quanto atto di gestione del rapporto di lavoro, deve essere qualificato come atto di diritto privato e non come provvedimento amministrativo.

La qualificazione degli atti di gestione del personale pubblico come atti privatistici comporta, secondo la dottrina [5] e la giurisprudenza [6], l’inapplicabilità agli stessi di istituti tipicamente pubblicistici, come le regole fissate dalla legge 7 agosto 1990 n. 241 oppure l’autotutela, ed, invece, l’applicazione delle norme di diritto privato ed in particolare di quei canoni integrativi della correttezza e buona fede quali parametri di verifica dell’esatto adempimento delle obbligazioni contrattuali (art. 1175 cod. civ.) e del complesso di interessi sostanziali delle parti nell’esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.), idonei ad integrare il contenuto e gli effetti del contratto stesso.

Nella sentenza in esame il sindacato del giudicante sull’atto di revoca dell’autorizzazione allo svolgimento di incarico esterno segue proprio i descritti parametri privatistico-negoziali di correttezza e buona fede, che risultano violati dall’amministrazione convenuta.

 

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[1] Cfr.: VARRONE, In tema di limiti alla incompatibilità nel rapporto di pubblico impiego, in Com. d’Italia 1995,459; GUARISO, Incompatibilità del pubblico dipendente, in Riv. crit. dir. lav. 1997,701; MONTINI, Dipendenti pubblici: incompatibilità e conferimento di incarichi, in Lav. nella giur. 1999,27

[2] Illuminanti sono le parole di un grande costituzionalista, CARLO ESPOSITO, La Costituzione italiana, Saggi, Padova, 1954, pag. 246, secondo il quale “l’impiegato, se pure è servo e presta servizio, e presta per compenso o per mercede la sua attività, è servo dell’ufficio e non dei superiori”.

[3] Cfr., a tal riguardo, la sentenza della Corte Costituzionale 16 ottobre 1997 n. 309, in Giur. it. 1998,I,1028 con nota di ALFANO, richiamata da SORDI, I confini della giurisdizione ordinaria nelle controversie di pubblico impiego, in Arg. dir. lav. 1999,178.

[4] Cfr. Cons. St., Sez. IV, 7 giugno 2004 n. 3618, in Foro amm. CDS 2004,2561 con nota di  GAGLIARDI.

[5] Cfr.: D’ANTONA, Contratto collettivo, sindacati e processo del lavoro dopo la seconda privatizzazione del pubblico impiego (osservazioni sui d.lg. n. 396 del 1997, n. 80 del 1998 e n. 387 del 1998), in Foro it. 1999,I,621; TENORE-APICELLA, Corte di Cassazione e Consiglio di Stato in contrasto sulla natura attizia o contrattuale delle determinazioni datoriali nel rapporto di pubblico impiego, in Foro amm. 1999,2166; CARINCI, Gli atti di gestione del rapporto di lavoro pubblico privatizzato sono atti privatistici, non amministrativi, in Riv. it. dir. lav. 2000,II,655; POTI, Atti di gestione del personale e responsabilità penale dei dipendenti pubblici, in Il lav. nelle P.A. 2000,947; TENORE, Devoluzione al giudice ordinario del contenzioso sul pubblico impiego, in NOVIELLO-SORDI-APICELLA-TENORE, Le nuove controversie sul pubblico impiego privatizzato e gli uffici del contenzioso, II ed., Milano, 2001, 84 e segg..

[6] Cfr.: Cass., Sez. Un., 7 novembre 2000 n. 1154, in Giust. civ. 2001,I,257; Cass., Sez. Un. 22 marzo 2001 n. 128, ivi,1975, Giorn. dir. amm. 2002,275 con nota di SGARBI; Cass., Sez. Un. 11 giugno 2001 n. 7859, in Foro it. 2002,I,2968; Cass., Sez. Un. 22 luglio 2002 n. 10724, in Giust. civ. 2002,I,3332; Cass., Sez. lav., 28 luglio 2003 n. 11589, in Foro amm. CDS 2004,2064; Cass., Sez. lav., 20 marzo 2004 n. 5659, in Il lav. nelle P.A. 2004,153 con nota di BOSCATI, Foro amm. CDS 2004,2046 con nota di MONTINI, Giorn. dir. amm. 2004,1095 con nota di NICOSIA, Riv. giur. lav. 2004,II,522 con nota di GIUFFRE’, Foro it. 2005,I,1530 con nota di D’AURIA; Cass., Sez. Lav., 6 aprile 2005 n. 7131, ivi,3071 con nota di D’AURIA.

 

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(Omissis)

MOTIVI DELLA DECISIONE

Deve pregiudizialmente esaminarsi, per il suo carattere eventualmente assorbente, la proposta eccezione di difetto di giurisdizione del giudice adito.

Essa è senz’altro infondata.

Invero, pacificamente rientrante il rapporto di lavoro inter partes nell’ambito dell’impiego pubblico contrattualizzato, l’atto autorizzativo dell’incarico di cui è causa e la successiva opposta determinazione costituiscono atti di gestione del rapporto di lavoro, come tali emessi dalla convenuta Amministrazione, ex art.5 del D.Lvo 165/2001 “con le capacità ed i poteri del privato datore di lavoro“, così non essendovi nella specie atti amministrativi della cui validità si faccia questione.

La controversia deve dirsi quindi correttamente instaurata davanti al giudice adito.

Nel merito, deve innanzi tutto rilevarsi come sia del tutto pacifica l’attuale titolarità del rapporto di lavoro con la ricorrente in capo alla convenuta Agenzia delle Entrate, in quanto succeduta ex lege in tutte le funzioni già svolte dagli uffici periferici e centrali del Dipartimento delle Entrate del Ministero delle Finanze, cui la ricorrente era, all’epoca della rilasciata autorizzazione, addetta.

Non vi è poi questione in ordine all’onere della sola Agenzia delle Entrate di subire il giudizio (onere affermato, infatti, dallo stesso convenuto costituito), per essersi perfezionata la vicenda successoria prima dell’emanazione dell’atto - la revoca dell’autorizzazione - che si assume ingiustamente pregiudizievole e la cui provenienza dall’Agenzia delle Entrate è invero pacifica e comunque documentata (cfr. doc. 3 della ricorrente).

Tutte le domande proposte in confronto del Ministero dell’Economia e Finanze, estraneo alla controversia, vanno pertanto respinte.

Ciò posto è noto come, anche all’esito della contrattualizzazione dell’impiego pubblico, il legislatore abbia confermato, da ultimo con l’art.53 del D.Lvo 165/2001, il tradizionale principio di esclusività delle prestazioni del dipendente pubblico (con rapporto di lavoro a tempo pieno), principio il cui fondamento risiede del resto nell’art.98 primo comma della Costituzione, secondo cui “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”, e la cui ratio è scritta nell’art.97 della Carta, essendo funzionale l’impegno esclusivo dei lavoratori pubblici al buon andamento ed all’imparzialità dell’Amministrazione da cui dipendono.

E‘ del pari noto come l’art.53 del D.lvo 165/2001 preveda, accanto ad un regime di incompatibilità assoluta di talune attività con l’impiego pubblico (quanto alla disciplina generale sul punto rimandando la norma al divieto di cui all’art.60 del T.U. delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato, D.P.R. 10.1.1957 n. 3, che vieta ai lavoratori pubblici l’esercizio di attività commerciali ed industriali, l’esercizio di professioni, l’assunzione di impieghi alle dipendenze di privati e di cariche in società aventi fine di lucro), un regime di incompatibilità relativa, consentendo, in presenza di determinate condizioni sostanziali e procedimentali, sia il conferimento di incarichi diversi dai compiti d’ufficio da parte delle Amministrazioni ai propri dipendenti, sia l’autorizzabilità di incarichi provenienti da soggetti terzi.

A norma del comma 2 della disposizione de qua, infatti, “Le pubbliche amministrazioni non possono conferire ai dipendenti incarichi, non compresi nei compiti e doveri di ufficio, che non siano espressamente previsti o disciplinati da legge o altre fonti normative, o che non siano espressamente autorizzati“.

Ed il comma cinque impone che “in ogni caso, il conferimento operato direttamente dall'amministrazione, nonché l'autorizzazione all'esercizio di incarichi che provengano da amministrazione pubblica diversa da quella di appartenenza, ovvero da società o persone fisiche, che svolgano attività d'impresa o commerciale, sono disposti dai rispettivi organi competenti secondo criteri oggettivi e predeterminati, che tengano conto della specifica professionalità, tali da escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, nell'interesse del buon andamento della pubblica amministrazione“.

Le conseguenze delle violazioni dei divieti ed obblighi sopra detti sono contenute nei commi 7 ed 8 dell’art.53, secondo cui “i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza. In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti.

Le pubbliche amministrazioni non possono conferire incarichi retribuiti a dipendenti di altre amministrazioni pubbliche senza la previa autorizzazione dell'amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi. Salve le più gravi sanzioni, il conferimento dei predetti incarichi, senza la previa autorizzazione, costituisce in ogni caso infrazione disciplinare per il funzionario responsabile del procedimento; il relativo provvedimento e' nullo di diritto. In tal caso l'importo previsto come corrispettivo dell'incarico, ove gravi su fondi in disponibilità dell'amministrazione conferente, e' trasferito all'amministrazione di appartenenza del dipendente ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti“.

Merita, poi, rilevare, al fine di compiutamente individuare il quadro normativo di riferimento nella specie, come il D.Lvo 30.7.1999 n. 300, istitutivo per quanto qui interessa delle Agenzie fiscali prevedesse, all’art.71 comma 2 che “al fine di garantire l'imparzialità e il buon andamento nell'esercizio della funzione pubblica assegnata alle agenzie fiscali, con regolamento da emanare entro sei mesi dall'entrata in vigore del presente decreto legislativo, ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, fossero emanate disposizioni idonee a garantire l'indipendenza e l'autonomia tecnica del personale“.

Il regolamento è stato peraltro emanato solo con D.P.R. 16.1.2002 n. 18 (pertanto dopo l‘accadimento di tutti i fatti di cui è causa), restando così irrilevante ai fini che interessano la disposizione in esso contenuta che esclude l’incompatibilità del rapporto di impiego dei dipendenti delle agenzie fiscali con l’incarico di revisore dei conti, limitatamente agli incarichi svolti nei confronti di istituzioni pubbliche, enti pubblici o società a totale partecipazione pubblica che non perseguano fini di lucro (astrattamente l’ipotesi che qui si dà).

Ne segue la giuridica necessità di fare applicazione nella specie della sola disciplina generale contenuta nel più volte citato art.53 del D.Lvo 165/2001.

Così procedendo deve innanzi tutto escludersi che nel caso di cui è processo si faccia questione di incompatibilità assoluta prevista dalla legge, non ricorrendo evidentemente alcuna delle condizioni previste dall’art.60 del D.P.R. 3/57, circostanza questa per vero del tutto pacifica in causa, entrambe le parti esplicitamente argomentando in ordine all‘astratta autorizzabilità dell‘incarico (si vedano sul punto quanto alla posizione dell‘Amministrazione con maggior chiarezza le note difensive).

Ciò posto, deve allora ritenersi che l’autorizzazione dell’incarico (astrattamente consentita dalla legge) rientri in concreto nel potere dell’Amministrazione datrice di lavoro, potere che, come per la generalità di quelli propri del datore di lavoro pubblico, è peraltro funzionalizzato al raggiungimento degli obiettivi costituzionalmente necessitati del buon andamento e dell’imparzialità.

Pare, tuttavia, alla decidente che se la funzionalizzazione obbliga il detentore del potere nell’ambito del proprio ordinamento (così ad esempio potendo rispondere disciplinarmente il dirigente che autorizzi incarichi in conflitto di interessi con l’amministrazione), a fronte del soggetto destinatario dell’autorizzazione il potere deve essere esercitato nei limiti dei principi di buona fede e correttezza che regolano il rapporto contrattualizzato.

Ne segue che, autorizzato l’incarico, risponde a detto principio (costituendo una delle forme tipizzate dell’agire secondo buona fede quello di essere coerenti con decisioni preventivamente assunte e rappresentando in contrario l’andare contra factum proprium un indizio della contrarietà della condotta a buona fede) che, pur consentita la revoca ove il detentore del potere autorizzativo accerti la contrarietà dell’esercizio del potere medesimo alle finalità di buon andamento ed imparzialità, il provvedimento di revoca debba contenere un’adeguata indicazione degli elementi che la fondano, così da consentire il sindacato giurisdizionale sul corretto esercizio del potere di autorizzazione e di revoca nell‘ambito del rapporto negoziale inter partes.

Al contrario, né nell’atto di revoca né successivamente la convenuta amministrazione ha fornito alcun elemento per ritenere che l’attività a suo tempo autorizzata determinasse, ab origine o eventualmente in ragione di un qualche sopravvenuto accadimento, un conflitto di interessi con l’amministrazione di appartenenza ovvero ne pregiudicasse il buon andamento.

Né d’altra parte (come sopra detto e come del resto espressamente conviene la difesa dell‘Amministrazione nelle note difensive, cfr. sul punto il paragrafo 3 di pag. 1 delle note), può dirsi che la revoca fosse imposta da una qualsiasi norma diversa da quelle autoposte dall’ente (la circolare dell’11.7.2001 o la decisione della direzione centrale del personale del 4.6.2001), esse di per sé del tutto irrilevanti almeno ai fini che qui interessano, dipendendo dalla sola determinazione dello stesso soggetto obbligato al rispetto del canone di buona fede.

Deve, quindi, ritenersi che nella specie l’Amministrazione sia andata contra factum proprium del tutto ingiustificatamente così violando il principio di buona fede e correttezza.

Alla violazione segue l’obbligo della convenuta di risarcire la ricorrente del danno emergente che ad essa violazione è immediatamente conseguente, rappresentato dal mancato compenso per il periodo di originaria durata dell’autorizzazione, non essendo evidentemente facoltà della ricorrente di proseguire nello svolgimento dell’incarico all‘esito della revoca, la prosecuzione costituendo violazione degli obblighi nascenti dal rapporto di impiego, con le ovvie conseguenze disciplinari .

Il pregiudizio risarcibile deve, peraltro, essere limitato, come sopra fatto cenno, al compenso che la lavoratrice avrebbe percepito per lo svolgimento dell’incarico per il periodo originariamente autorizzato (come indicato nell‘autorizzazione medesima, doc. 3 dell‘attrice, così il periodo oggetto del danno risarcibile essendo pari a nove mesi compresi tra la revoca dell‘autorizzazione e la scadenza fissata nell‘originaria autorizzazione) non potendo la stessa, per il periodo successivo, far valere alcuna posizione giuridica tutelabile in assenza di atti autorizzativi.

L’importo de quo deve, allora, essere quantificato, sulla base dei compensi riportati nel doc. 4 dell’attrice, nella somma di € 4.260,77 (maggiorato di interessi secondo il criterio di calcolo di cui in dispositivo).

Nulla è dovuto invece alla dott. G. a titolo di risarcimento del danno all‘immagine professionale, non essendo allegato in ricorso alcun fatto specifico dal quale desumere l‘effettività di un tale pregiudizio.

Le spese processuali di competenza del Ministero dell‘Economia, vittorioso, devono essere compensate già in ragione della dichiarata contumacia, mentre l’Agenzia delle Entrate deve essere condannata a rifondere quelle sostenute dalla ricorrente, nella misura indicata in dispositivo.

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