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n. 1/2008 - © copyright

LUCA BUSICO

Breve excursus storico sulla flessibilità nel pubblico impiego

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L’introduzione di forme flessibili di lavoro negli enti pubblici è stata a lungo vista con sfavore dal legislatore, come dimostra anche il D.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, con il quale venne realizzata la prima fase del processo di privatizzazione dell’impiego pubblico.

L’art.36, comma 4 del citato D.lgs., nella formulazione originaria, prevedeva il divieto per le amministrazioni pubbliche di costituire rapporti di lavoro a tempo determinato di durata superiore a tre mesi, la nullità delle assunzioni avvenute in violazione di tale divieto e la responsabilità personale, patrimoniale e disciplinare a carico di chi le avesse disposte.

Il quadro cambiava notevolmente con la c.d. “seconda privatizzazione”, attuata con l’emanazione del D.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, il cui art.22 sostituiva l’art.36 del D.lgs. n. 29 del 1993, disponendo l’estensione alle pubbliche amministrazioni delle forme contrattuali flessibili previste per il rapporto di lavoro privato. Tale intervento normativo segnava la transizione nell’ordinamento delle pubbliche amministrazioni da un atteggiamento di sospetto e rifiuto ad un atteggiamento di favore verso forme flessibili di assunzione del personale e di impiego della risorsa lavoro [1]. L’evidente intento del legislatore era quello di proseguire sulla via di una effettiva privatizzazione del pubblico impiego avvalendosi di tutti gli schemi negoziali privatistici utilizzabili per l’organizzazione dell’attività lavorativa [2].

L’art.36, comma 1 del D.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (riproduttivo dell’art.36, comma 7 del D.lgs. n. 29 del 1993), nella formulazione vigente sino all’entrata in vigore della legge finanziaria per il 2008, prevedeva che le pubbliche amministrazioni, nel rispetto delle disposizioni sul reclutamento del personale, si avvalgono delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa [3].

Il processo di effettiva privatizzazione ha incontrato una netta battuta d’arresto in occasione della riforma del mercato del lavoro attuata nel 2003 (c.d. Riforma Biagi). La legge delega 14 febbraio 2003, n. 30 all’art.6 prevede che “le disposizioni degli articoli da 1 a 5 non si applicano al personale delle pubbliche amministrazioni ove non siano espressamente richiamate”. Allo stesso modo l’art.1, comma 2 del D.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, attuativo della legge delega, prevede che “il presente decreto non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale”.

Come è stato evidenziato in uno dei primi commenti [4], la ragione di tale esclusione può essere ricondotta allo scopo espressamente dichiarato dell’intervento legislativo (ispiratosi alle indicazioni delineate a livello comunitario nell’ambito della c.d. “Strategia europea per l’occupazione”) di aumentare il tasso di occupazione e favorire la crescita occupazionale: nel settore pubblico, che è caratterizzato da un eccesso di personale rispetto ai reali bisogni, non avrebbe senso pensare a misure volte ad ampliare il numero di occupati.

Più di un commentatore ha, però, profilato dubbi di legittimità costituzionale sull’esclusione del lavoro pubblico dall’ambito di applicazione della riforma del mercato del lavoro [5]. Della evidente inversione di tendenza rispetto al processo di privatizzazione in corso probabilmente si è reso conto anche il legislatore, visto che l’art.86, comma 8 del D.lgs. n. 276 del 2003 prevede che il Ministro per la funzione pubblica può convocare le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche per esaminare i profili di armonizzazione conseguenti alla entrata in vigore del decreto medesimo anche ai fini della eventuale predisposizione di provvedimenti legislativi in materia. Tale norma non ha mai avuto attuazione.

Inoltre, la formulazione delle disposizioni del D.lgs. n. 276 del 2003 contenenti riferimenti alle amministrazioni pubbliche non rende agevole il compito dell’interprete di ricostruire il nuovo quadro normativo. Come è stato efficacemente evidenziato [6], si assiste “ad una tecnica di esclusione/inclusione del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche realizzata a macchia di leopardo nella topografia del D.lgs. n. 276”, ove si rinvengono norme particolari che ribadiscono l’esclusione con riferimento ad alcuni istituti, ovvero norme altrettanto particolari che includono il lavoro pubblico.

Per espressa disposizione del D.lgs. n. 276 del 2003 si applicano al lavoro pubblico:

1)      il contratto di somministrazione a tempo determinato (art. 85, comma 9), con esclusione della sanzione della conversione (art.27, comma 1);

2)      il contratto di formazione e lavoro, fatto salvo quanto previsto dall’art. 59, comma 3 (art. 86, comma 9);

3)      esclusivamente per gli enti di ricerca il contratto di inserimento (art. 54, comma 2, lett. e).

A partire dalla “Riforma Biagi” si delinea, pertanto, in tema di tipologie flessibili nel pubblico impiego una sempre più insistita divaricazione dalle regole generali dettate per il rapporto di lavoro tra privati per esigenze di contenimento della spesa e di controllo delle assunzioni [7].

Tale divaricazione è proseguita nel 2006 con la legge 9 marzo 2006, n. 30 (legge di conversione del decreto legge 10 gennaio 2006, n. 4), che ha ritoccato gli artt.35 e 36 del del D.lgs. n. 165 del 2001. L’art.4 di tale legge ha aggiunto all’art. 36 del D.lgs. n. 165 del 2001 il comma 1 bis, secondo il quale “le amministrazioni possono attivare i contratti di cui al comma 1 solo per esigenze temporanee ed eccezionali e previo esperimento di procedure inerenti assegnazione di personale anche temporanea, nonché previa valutazione circa l'opportunità di attivazione di contratti con le agenzie di cui all'articolo 4, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, per la somministrazione a tempo determinato di personale, ovvero di esternalizzazione e appalto dei servizi”. Come è stato sottolineato[8], la norma si poneva in netta antitesi rispetto alla lettera ed alla ratio del comma 1 dell’art.36 e dei suoi rinvii legislativi. Suscitava, inoltre, qualche perplessità la scelta legislativa di considerare il ricorso alla somministrazione a tempo determinato prioritario rispetto al contratto a tempo determinato. Infatti, dal punto di vista strettamente operativo non si capisce quale beneficio maggiore abbia la somministrazione a tempo determinato rispetto al contratto a tempo determinato, se non la circostanza che per la singola somministrazione non occorra il concorso pubblico, pur essendo necessaria, comunque, la gara ad evidenza pubblica finalizzata a selezionare l’agenzia autorizzata di somministrazione di lavoro [9].

L’intervento legislativo del 2006 aveva il chiaro scopo di contenere il fenomeno di “precarizzazzione” nel pubblico impiego, che ha raggiunto dimensioni allarmanti [10], attraverso la disincentivazione del ricorso alla flessibilità in entrata.

La medesima finalità persegue, infine, in modo ancor più drastico la legge 24 dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria per il 2008), il cui art. 3, comma 79 ha integralmente riscritto l’art. 36 del D.lgs. n. 165 del 2001. In base al nuovo testo del comma 1 della norma le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato e non possono avvalersi delle forme contrattuali di lavoro flessibile se non per esigenze stagionali o per periodi non superiori a tre mesi fatte. Il comma 2, inoltre, vieta il rinnovo del contratto o l'utilizzazione del medesimo lavoratore con altra tipologia contrattuale.

Il legislatore del 2007 è, quindi, tornato dopo un lungo e faticoso percorso al punto di partenza del 1993.

 

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[1] Cfr. D’ORTA, Introduzione ad un ragionamento sulla flessibilità del lavoro nelle pubbliche amministrazioni, in Il lav. nelle P.A., 2000,515

[2] Cfr. MIANI CANEVARI, Le forme contrattuali flessibili nel pubblico impiego, in Dir. lav., 2002,I,295.

[3] Cfr.: AA.VV., Gli istituti di lavoro flessibile nella pubblica amministrazione e nelle autonomie locali, in Arannewsletter, n. 5/2003 (inserto); FIORILLO, Flessibilità e lavoro pubblico. Le forme contrattuali, Torino, 2003; BATTISTI, Commento art.36 del D.lgs. n. 165 del 2001, in AMOROSO, DI CERBO, FIORILLO e MARESCA (a cura di), Il diritto del lavoro, vol. III, Il lavoro pubblico, Milano, 2004,314; PINNA, Tipologie di lavoro flessibile nella P.A., in questa Riv.,  n. 3/2007.

[4] Cfr. BELLAVISTA, Alcune considerazioni sulla legge n. 30/2003, in Lav. giur., 2003,706; cfr. anche ALTAVILLA, Le forme flessibili di impiego nelle pubbliche amministrazioni e il D.lgs. n. 276/2003, in Dir. lav., 2004,I,63.

[5] Cfr.: ZOPPOLI, La subordinazione tra persistenti diseguaglianze e tendenze neo-autoritarie, in www.unicz.it/lavoro; SANTUCCI, Contrattazione collettiva e lavori flessibili nelle pubbliche amministrazioni, in Dir. rel. ind., 2003,114; BUSICO-VIVALDI, Le collaborazioni coordinate e continuative nelle amministrazioni pubbliche,  in questa Riv., n. 11/2003; BORGOGELLI, La nuova disciplina del mercato del lavoro e la pubblica amministrazione, in Lav. dir., 2004,69.

[6] Cfr. MAINARDI, D.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 e riforma del mercato del lavoro: l’esclusione del pubblico impiego, in Il lav. nelle P.A., 2003,1073.

[7] Cfr. GARILLI, La privatizzazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni e l’art.97 Cost.: di alcuni problemi e dei possibili rimedi, in Riv. giur. lav., 2007, I, 322.

[8] Cfr. MAINARDI, Piccolo requiem per la flessibilità del lavoro nelle pubbliche amministrazioni. A proposito della legge 9 marzo 2006, n. 80, in Il lav. nelle P.A., 2006,36.

[10] Cfr. PINNA, cit..


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