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Articoli e note

n. 12/2006 - © copyright

ANDREA BONOMOLO*

Il (difficile) rapporto tra fonte normativa e

fonte contrattuale nel pubblico impiego privatizzato

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SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. L’assetto normativo previsto dal d.lgs. n. 165/2001. – 2.1. Le tecniche (derogatoria e abrogativa) utilizzate dall’art. 2. – 2.2. Gli artt. 69 e 71 e la tecnica delegificatoria. – 3. Pubblico impiego privatizzato e riforma del titolo V (parte seconda) della Costituzione. – 4. La commistione tra fonte normativa e contrattuale. – 5. Considerazioni conclusive.

1. Uno degli scopi primari della cosiddetta privatizzazione o contrattualizzazione [1] del rapporto di pubblico impiego, inaugurata con il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 e successive modifiche (ora decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e successive modifiche) era rappresentato dalla necessità di razionalizzare l’organizzazione dei pubblici uffici e di improntare l’azione delle pubbliche amministrazioni a criteri rispondenti ad una maggiore efficienza ed economicità.

Nonostante l’iniziale scetticismo, corroborato dal parere fortemente critico espresso dal Consiglio di Stato [2] in relazione al disegno di legge-delega per la revisione della disciplina in materia di pubblico impiego [3], è prevalsa, anche in ambito dottrinario, l’idea che la funzionalizzazione dell’organizzazione e dell’attività amministrativa ai canoni costituzionali del buon andamento e dell’imparzialità ben potesse essere raggiunta anche attraverso un (più o meno) equilibrato riparto di competenze, in materia di rapporto di lavoro nelle P.A., tra fonte normativa e fonte contrattuale.

Come evidenziato dalla giurisprudenza costituzionale di metà anni Novanta del secolo scorso, la riforma era intesa a “valorizzare la distinzione tra organizzazione della pubblica amministrazione (la cui disciplina viene, in primo luogo, affidata alla legge [nel rispetto della riserva prevista dall’art. 97 Cost., n.d.r.]) e rapporti di lavoro dei pubblici dipendenti (regolati dalla contrattazione collettiva)”[4].

L’attuale assetto delle fonti che regolano il rapporto di pubblico impiego (rectius, rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche [5]), ha risentito, nel tempo, di numerosi interventi correttivi e di assestamento normativo, sollecitati sia dalla giurisprudenza, sia – e soprattutto – dalle organizzazioni sindacali, le quali hanno ripetutamente richiesto, ed ottenuto, un allargamento del raggio di azione della contrattazione collettiva.

Il quadro generale, in materia, si presenta, allo stato, piuttosto incerto e fluido, in quanto i ruoli assunti dalla legge, dalle fonti secondarie e dalla contrattazione collettiva risultano in costante evoluzione, suscitando complessi problemi interpretativi, anche per coloro che sono chiamati, nell’ambito delle pubbliche amministrazioni, ad assumere decisioni concrete per la gestione della cosa pubblica.

Ancora oggi, come si vedrà più specificamente in seguito, la riconduzione dei rapporti di lavoro al diritto comune continua a subire “colpi di reazione” [6] da parte della fonte pubblicistica, tanto che occorre chiedersi se il sistema congegnato dal legislatore delegato non debba essere rivisitato, anche alla luce delle disposizioni in materia di competenze legislative dello Stato e delle regioni, contenute nel riformato titolo V della seconda parte della Costituzione.

In questa sede, compatibilmente con le esigenze espositive consentite dal presente lavoro, si tenterà di ricostruire le problematiche di maggior rilievo che si pongono in ordine al difficile rapporto tra fonti normative e fonti contrattuali nel pubblico impiego privatizzato, anche con riguardo alle fattispecie concrete più rilevanti, in cui si ravvisi una pregnante commistione tra le predette fonti.

2. Successivamente alla cosiddetta “seconda privatizzazione” del rapporto di pubblico impiego, intervenuta a seguito della legge delega 15 marzo 1997, n. 59 e del successivo decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, l’area della contrattazione collettiva risulta considerevolmente ampliata, concorrendo così, unitamente alla fonte legale e nei rispettivi ambiti, alla disciplina del rapporto di lavoro [7].

Sulla base del riparto di competenze in materia, delineato dal legislatore delegato del 2001, mentre la cosiddetta alta o macro organizzazione resta governata dalla fonte pubblicistica [8], anche in ossequio alla riserva (relativa) di legge prevista dall’art. 97, comma 1, Cost., “tutte le materie relative ai rapporti di lavoro” dei dipendenti pubblici vengono ricondotte alla disciplina privatistica [9].

Pertanto, una volta fissate, da parte della legge e, sulla base di questa, da parte degli atti (amministrativi in senso stretto) delle singole amministrazioni, le linee fondamentali di organizzazione degli uffici, la gestione concreta dei rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici resta assoggettata alle determinazioni assunte dagli organi competenti, i quali agiscono, a tal fine, “con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro” (art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001) [10] ed ai contratti collettivi.

Questa tendenza pancontrattualista viene giustificata, da un lato, attraverso una più dinamica lettura dell’art. 97 Cost., il quale lascerebbe libero il legislatore di affidare a fonti diverse da quella pubblicistica la disciplina del rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni – pur nel rispetto dei canoni del buon andamento e dell’imparzialità dell’attività amministrativa – e, dall’altro, mediante il richiamo ai modelli organizzativi degli enti pubblici economici, nei quali, come noto, vi è una commistione tra regime pubblicistico e privatistico [11].

L’attuale assetto delle fonti del rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni è disciplinato, per quel che in questa sede interessa, dagli artt. 2, commi 2 e 3, 69, comma 1 e 71, commi 1 e 3 del citato d.lgs. n. 165/2001.

Al fine di meglio comprendere il rapporto tra fonti unilaterali e fonti contrattuali, anche in funzione della verifica dell’attuale prassi normativa, è necessario soffermarsi, sia pure in estrema sintesi, sulle disposizioni normative sopra richiamate.

2.1. L’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001 prevede, tra l’altro, che le disposizioni di “legge, regolamento o statuto” che introducano discipline, in subiecta materia, la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti pubblici, “possono essere derogate” da successivi contratti collettivi e, per la parte derogata, non sono ulteriormente applicabili, salvo che la legge disponga espressamente in senso contrario.

Per quanto concerne il trattamento economico dei dipendenti pubblici, il comma 3 della disposizione normativa da ultimo richiamata, dopo aver stabilito che la materia è regolata, in via esclusiva, dai contratti collettivi o da quelli individuali (nel rispetto, come è ovvio, delle condizioni previste dai contratti collettivi), prevede che le disposizioni di “legge, regolamenti o atti amministrativi” che attribuiscano incrementi retributivi non previsti da contratti “cessano di avere efficacia” a decorrere dall’entrata in vigore del relativo rinnovo contrattuale.

In disparte ogni considerazione in ordine alle diverse tipologie di fonti normative di riferimento, contemplate nelle succitate disposizioni (legge, regolamento o statuto, richiamati nel comma 2 e legge, regolamento o atti amministrativi, inseriti nel comma 3), è necessario qui soffermarsi sulla diversa tecnica utilizzata, dal legislatore delegato, nei commi 2 e 3 dell’art. 2.

Se si ha riguardo al secondo comma, sembrerebbe che il rapporto tra fonte pubblicistica e fonte contrattuale sia regolato non già dal generale principio di gerarchia, invero di difficile accoglimento in relazione a fonti eteronome, bensì dal criterio cronologico, configurandosi in termini di successione temporale.

Sicché, sulla base del meccanismo della deroga, il contratto collettivo, successivo alla legge, al regolamento o allo statuto, ben può (non deve) adottare disposizioni diverse ed incompatibili con la fonte unilaterale, che, per ciò solo, non può più essere ulteriormente applicabile.

Dunque, il legislatore non inibisce alla fonte legale di disciplinare determinati istituti del rapporto di lavoro ma delimita l’efficacia dello ius superveniens in funzione delle previsioni dei successivi contratti collettivi, siano essi più favorevoli o peggiorativi rispetto al trattamento assicurato dalla legge [12].

La tecnica in questione può essere assimilata ad una autorizzazione preventiva ovvero ad una delega, da parte della legge, nei confronti del contratto collettivo, per la disciplina di una determinata materia.

In tal modo, la disposizione in commento introduce una vera e propria condizione risolutiva dell’efficacia delle fonti pubblicistiche (che, giova ripeterlo, ben possono continuare a disciplinare la materia del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici, pur nella consapevolezza della limitazione di cui si discute [13]), subordinata all’entrata in vigore del contratto collettivo, che viene assunto, così, quale evento esterno ad una vicenda estintiva prevista dalla stessa fonte legale e quale mero fatto la cui ricorrenza determina gli effetti previsti dalla legge [14].

Dalla lettura dell’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001, inoltre, emerge che l’effetto derogatorio è limitato alle discipline applicabili esclusivamente ai dipendenti pubblici o a categorie degli stessi, essendo escluso, pertanto, in relazione alle disposizioni legislative di carattere generale.

Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (in materia di lavoro a tempo determinato), al decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 61 (in materia di lavoro a tempo parziale) ed al decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66 (in materia di orario di lavoro), che sono applicabili, salvo diversa determinazione dei contratti collettivi, anche – ma non solo – ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni.

La disposizione normativa da ultimo menzionata, nel rinviare spesso alla contrattazione collettiva [15], conferma la tendenza, da un lato, a riconoscere, in subiecta materia, la primazia della fonte negoziale e, dall’altro, ad affidare la disciplina degli aspetti più particolari della materia al livello decentrato di contrattazione.

Rimanendo sull’esempio offerto dal d.lgs. n. 66/2003, si può affermare che, sulla base della tecnica derogatoria in commento, i contratti collettivi ben potranno disciplinare (nuovamente) gli istituti contemplati dalla predetta disposizione normativa, a condizione di interpretare estensivamente l’art. 2, comma 2, nel senso di ricomprendervi non solo le disposizioni normative che introducano discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti pubblici, ma anche le disposizioni legislative aventi carattere generalizzato [16].

In realtà, da un punto di vista prettamente tecnico, il meccanismo della deroga dovrebbe implicare una regolamentazione espressa, da parte dei contratti collettivi [17], della materia già oggetto della disciplina normativa, tale da consentire, appunto, una deroga, eventualmente anche in via implicita (attraverso l’introduzione di disposizioni incompatibili rispetto alla disciplina stabilita dalla fonte unilaterale), allo ius positum.

Senonché, come si vedrà in seguito, da un lato, un siffatto meccanismo permanente di riserva della contrattazione collettiva sembra essere contraddetto dalla tecnica prevista dagli artt. 69 e 71 del d.lgs. n. 165/2001 e, dall’altro, i contratti collettivi nazionali sino ad oggi sottoscritti non si sono fatti carico, nel disciplinare i singoli aspetti del rapporto di lavoro, di citare espressamente le disposizioni legislative in vigore al fine di derogarne il contenuto.

Semmai, si sono preoccupati di citare espressamente determinate fonti normative che, essendo state “recepite” dai contratti collettivi, continueranno a spiegare i propri effetti nonostante il meccanismo dell’automatica inapplicabilità delle disposizioni legislative in vigore alla data del 13 gennaio 1994, previsto, come si vedrà meglio in seguito, dall’art. 69, comma 1, del d.lgs. n. 165/2001 [18].

Prima di proseguire nell’esame del comma 3 dell’art. 2 del d.lgs. n. 165/2001, si deve precisare che la tecnica della deroga in questione si presenta soltanto eventuale, sia perché, in tal senso, dispone letteralmente la norma (le disposizioni legislative “possono essere derogate”), sia perché la fonte legale può disporre espressamente in senso contrario.

Un evidente esempio della predetta “clausola di resistenza” è offerto dall’art. 19, comma 12 bis, del d.lgs. n. 165/2001 (introdotto dalla legge 15 luglio 2002, n. 145), a mente del quale le disposizioni in materia di incarichi di funzioni dirigenziali “costituiscono norme non derogabili dai contratti o accordi collettivi”.

Ed ancora, l’art. 8 della legge 23 marzo 2001, n. 97, recante “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche”, prevede che le disposizioni della predetta legge prevalgono sulle analoghe disposizioni contrattuali e che i contratti collettivi “non possono, in alcun caso, derogare alle disposizioni della [medesima] legge”.

La tecnica prevista dall’art. 2, comma 3, quarto periodo, del d.lgs. n. 165/2001, che comporta la cessazione dell’efficacia delle disposizioni di legge, regolamento o degli atti amministrativi in materia di incrementi retributivi, senza previsione alcuna di clausole di salvezza della fonte unilaterale, sembra che abbia valore più pregnante rispetto a quella stabilita dall’art. 2, comma 2, implicando effetti automatici a far data dall’entrata in vigore del rinnovo contrattuale [19].

Il meccanismo in argomento, fondato sull’esigenza del contenimento della spesa pubblica e del rispetto dei vincoli europei derivanti dal “patto di stabilità e crescita”, configura una vera e propria abrogazione della fonte pubblicistica ad opera della fonte contrattuale [20] e, a differenza della tecnica utilizzata all’art. 2, possiede il carattere della definitività, incidendo sulla vigenza stessa delle norme in materia.

Alla luce delle suesposte considerazioni, pertanto, si può osservare che il carattere comune delle disposizioni in commento è rappresentato dall’effetto, abrogativo o derogatorio, provocato dalla fonte negoziale, autorizzata a ciò dalla fonte legale [21].

2.2. Passando, per quel che in questa sede interessa, all’esame degli artt. 69 e 71 del d.lgs. n. 165/2001, si deve sin d’ora anticipare che le due norme in questione, oltre che apparire reciprocamente contraddittorie, sembrano porsi in contrasto con le tecniche individuate dal più volte citato art. 2, commi 2 e 3.

Più specificamente, l’art. 69 prevede, con un meccanismo bifasico, che le norme del pubblico impiego, vigenti alla data del 13 gennaio 1994, divengano “inapplicabili” a seguito della sottoscrizione, per i diversi comparti, dei contratti collettivi relativi al quadriennio normativo 1994-1997, in relazione ai soggetti ed alle materie dagli stessi contemplati (cosiddetto “meccanismo di trasformazione” [22]), e “cessano in ogni caso di produrre effetti” a decorrere dalla sottoscrizione dei contratti collettivi per il quadriennio normativo 1998-2001.

I meccanismi utilizzati dal legislatore delegato, che la dottrina più attenta riconduce, indifferentemente, al medesimo fenomeno abrogativo [23] (al pari degli effetti previsti dall’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 165/2001), possono essere equiparati, in generale, alle tecniche delegificative, in quanto hanno il precipuo scopo di espungere dall’ordinamento giuridico determinate norme di natura pubblicistica, ancorché ad opera di atti di autonomia negoziale [24].

In proposito, merita di essere evidenziato l’effetto caducatorio automatico della fonte legislativa, sulla base della mera sottoscrizione dei contratti collettivi relativi alla seconda tornata contrattuale, a prescindere da una espressa dichiarazione di volontà in tal senso da parte dei contratti stessi.

Come osservato in dottrina, la cessazione dell’efficacia delle norme pubblicistiche deve essere ricollegata a ciascun contratto collettivo nazionale di lavoro che, come noto, a seconda dei comparti di contrattazione, viene sottoscritto in momenti differenti [25].

A tale ultimo riguardo, si deve osservare che il meccanismo in esame, così come congegnato, può (rectius, poteva) ingenerare pericolose disparità di trattamento tra i dipendenti pubblici, posto che la rimozione della medesima disposizione normativa, avente carattere generalizzato e, dunque, applicabile nell’ambito di tutte le amministrazioni pubbliche, oltre che creare effetti a singhiozzo o “a pelle di leopardo” [26], veniva fatta dipendere da fattori contingenti (l’approvazione degli atti di indirizzo dei comitati di settore, la sottoscrizione delle ipotesi di accordo e la stipulazione definitiva del contratto collettivo, come noto, rispondono a logiche differenziate da comparto a comparto), creando notevoli incertezze circa il momento del definitivo passaggio al regime privatistico per tutti i dipendenti delle pubbliche amministrazioni.

Inoltre, con una clausola di dubbia legittimità, gli stessi contratti collettivi della seconda tornata contrattuale hanno rinviato ad un secondo momento o a successive sessioni negoziali l’effetto automatico della cessazione dell’efficacia delle norma di rango pubblicistico, ponendosi, in tal modo, in palese contrasto con il dato testuale di cui all’art. 69, comma 3, del d.lgs. n. 165/2001 [27].

Come accennato in precedenza, le disposizioni di cui all’art. 69 pongono complessi problemi di coordinamento con l’art. 71, secondo il quale le norme pubblicistiche elencate agli allegati A) e B) del d.lgs. n. 165/2001 “cessano di produrre effetti” a seguito della stipulazione dei contratti collettivi relativi al quadriennio normativo 1994-1997.

A prescindere dalla diversa terminologia utilizzata nell’ambito della stessa disposizione normativa (“inapplicabilità” e “cessazione dell’efficacia” per l’art. 69 e “cessazione dell’efficacia”, “disapplicazione” e “inapplicabilità” per l’art. 71), di cui il legislatore delegato non sembra essersi pienamente reso conto, va segnalato che l’art. 71, nel rinviare ad elenchi di norme, allegati al d.lgs. n. 165/2001, distinti per comparti di contrattazione, ne dispone l’abrogazione a seguito della prima tornata contrattuale (sic!), quando il medesimo effetto è stato perseguito dal precedente art. 69 dal momento della sottoscrizione dei contratti collettivi del quadriennio 1998-2001 [28].

Ad attenuare le evidenti discrasie esistenti tra l’art. 69 e l’art. 71 del d.lgs. n. 165/2001, una parte della dottrina ritiene che la norma da ultimo richiamata sia una disposizione con finalità pratica e funzioni meramente ricognitive delle norme non più in vigore [29], facendosi, in tal modo, salva la tempistica degli effetti abrogativi previsti dall’art. 69.

Questa interpretazione deve essere, senza dubbio, accolta, anche perché ha il pregio di conferire all’intero sistema, già di per sé alquanto complesso [30], carattere di maggiore certezza e stabilità.

Difatti, a fronte di un effetto (quello previsto dall’art. 71, comma 3) potenzialmente sterilizzato da parte degli stessi contratti collettivi, i quali dovrebbero (rectius, avrebbero dovuto, nella seconda tornata contrattuale) provvedere alla disapplicazione espressa delle norme incompatibili con gli stessi contratti collettivi, la cessazione automatica (“in ogni caso”) degli effetti delle norme generali e speciali del pubblico impiego viene disposta, dall’art. 69, comma 1, del d.lgs. n. 165/2001 – non a caso ribattezzata, con una brillante metafora, “norma ghigliottina” – a decorrere da un termine certo (la sottoscrizione dei contratti collettivi), ancorché diversificato per i vari comparti di contrattazione [31].

3. Con la riforma del titolo V della seconda parte della Costituzione, attuata con legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, lo scenario relativo all’assetto delle fonti regolatrici del pubblico impiego privatizzato si è ulteriormente complicato.

Difatti, il nuovo testo costituzionale non chiarisce se la materia del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici debba essere ascritta alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, alla potestà legislativa concorrente di Stato e regioni ovvero debba essere ricondotta, in via residuale, alla potestà legislativa (esclusiva) delle regioni [32], né, d’altronde, il d.lgs. n. 165/2001 si è fatto carico, ancorché a Costituzione invariata, di disciplinare il raccordo tra le prescrizioni in esso contenute e l’autonomia delle regioni e degli enti locali.

Pur senza la pretesa di esaurire in queste pagine la materia che ci occupa, invero caratterizzata da notevole complessità e da una continua evoluzione, è necessario ricostruire brevemente il quadro normativo, anche attraverso gli sforzi interpretativi della dottrina pubblicistica, al fine di meglio comprendere l’attuale distribuzione delle competenze legislative tra lo Stato e le regioni, in relazione al lavoro pubblico.

Secondo un orientamento seguito da numerosi autori, il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici potrebbe essere ricondotto alla materia dell’ordinamento civile [33], in ordine alla quale sussiste la potestà legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. l), Cost.

In effetti, in assenza di specifiche differenziazioni, da parte del legislatore costituente, tra lavoro pubblico e lavoro privato [34], sembra ragionevole sostenere che la disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche – dunque, anche dei dipendenti delle regioni e degli enti locali – rientri nella materia dell’ordinamento civile dello Stato comunità, intesa, questa, come la “disciplina delle relazioni negoziali che costituiscono espressione dell’autonomia privata riconosciuta ai soggetti, diritto del lavoro compreso” [35].

Ad avvalorare la posizione di chi ritiene che la disciplina dei rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici debba essere ascritta alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, viene richiamata la materia della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (art. 117, comma 2, lett. m), Cost.).

Si pensi, ad esempio, alla normativa in materia di orario di lavoro [36] e di congedi parentali [37] che, salva la riserva in favore della contrattazione collettiva, ha proprio lo scopo di garantire, su tutto il territorio nazionale, il godimento di determinati diritti nei confronti dei lavoratori e, tra questi, dei genitori, senza che la legislazione regionale possa limitarli o condizionarli.

Di contro, altra parte della dottrina, a prescindere dal carattere trasversale delle materie sopra richiamate [38], tende a ricondurre la disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti delle regioni e degli enti locali nell’ambito della materia della “tutela e sicurezza del lavoro”, in relazione alla quale, ai sensi dell’art. 117, comma 3, Cost., sussiste la potestà legislativa concorrente di Stato e regioni [39].

Ed ancora, argomentando a contrario dall’individuazione, nell’ambito della legislazione esclusiva dello Stato, dell’ordinamento e dell’organizzazione amministrativa statale e degli enti pubblici nazionali [40], si è sostenuto che la materia in argomento rientrasse nella competenza legislativa residuale delle regioni, con conseguenti vincoli anche per la contrattazione collettiva nazionale [41].

Ciò ha condotto un’attenta dottrina ad affermare che “la disciplina del rapporto di lavoro pubblico risulta, dunque, ripartita tra “ordinamento civile” e “ordinamento e organizzazione amministrativa”, rispettivamente per i profili “privatizzati” (in quanto appunto rientranti nel “diritto civile”), e per quelli organizzativi del rapporto (mantenuti ancora nel “diritto pubblico”)” [42].

A tale ultimo riguardo, l’interprete viene posto di fronte a numerose problematiche di carattere sistematico, in quanto vi è da chiedersi, innanzitutto, se il legislatore nazionale possa porre una riserva in favore della contrattazione collettiva, escludendo, in tal modo, ogni competenza alla legislazione regionale o, addirittura, attribuendo ai contratti collettivi la possibilità di derogare o abrogare le disposizioni legislative regionali vigenti e se, viceversa, la fonte legislativa regionale possa regolare l’intera materia del rapporto di lavoro dei dipendenti regionali, non essendo espressamente contemplata tra le materie indicate all’art. 117, commi 2 e 3, della Carta costituzionale [43].

Orbene, se, da un lato, è pur vero che una delle finalità più importanti, perseguite dalla riforma del pubblico impiego, è stata quella della devoluzione di gran parte delle materie alla fonte negoziale, dall’altra è altrettanto inconfutabile che l’esclusione della fonte legislativa regionale avrebbe come inevitabile conseguenza quella dello svilimento dell’autonomia delle regioni, quantomeno nelle materie relative alla competenza concorrente.

Nonostante il giudice delle leggi si sia espresso, in più di una occasione, nel senso di ritenere che la materia dello stato giuridico ed economico del personale regionale – compresa la materia relativa al reclutamento ed all’accesso alle amministrazioni regionali – sia da ricondurre alla potestà legislativa indicata all’art. 117, comma 4, Cost. [44], il rapporto tra contrattazione nazionale e autonomia normativa delle regioni appare, allo stato, appannaggio della prima.

4. Il contagio tra fonte unilaterale e fonte negoziale, in materia di rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, sembra aver assunto, di recente, una frequenza piuttosto preoccupante, che lascia trasparire, da un lato, le lacune dell’attuale assetto normativo, dall’altro, l’esigenza del potere legislativo di riacquisire il controllo degli aspetti nevralgici concernenti la gestione del personale [45].

Sicché, pur potendosi considerare i contratti collettivi quali espressione del “potere eteronomo filiato dal legislatore nazionale” [46], ossia come veri e propri “atti di esercizio di poteri pubblici, con i quali le pubbliche amministrazioni impiegano poteri amministrativi e risorse pubbliche per il perseguimento di interessi pubblici” [47], la competenza sui rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, di fatto, viene progressivamente erosa dalla fonte normativa statale [48].

Non a caso, allo scopo di contenere l’orientamento sopra delineato e di garantire la funzione della contrattazione collettiva, la Presidenza del Consiglio dei ministri ha dovuto emanare, nel 2002, un’apposita direttiva [49] finalizzata ad “evitare (...) l’assunzione di iniziative che, comportando deroghe alla richiamata riserva negoziale, riconducano determinate materie del rapporto di lavoro sotto la disciplina delle fonti unilaterali” e, pertanto, sviliscano la stessa ratio sottesa alla privatizzazione del pubblico impiego [50].

In tale contesto, occorre ora richiamare alcuni recenti esempi di intreccio normativo tra fonte pubblicistica e fonte contrattuale, anche al fine di verificarne gli effetti rispetto a quanto previsto dall’art. 2, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 165/2001.

Così, la legge 23 dicembre 2005, n. 266 (legge finanziaria 2006), dopo aver soppresso le indennità di trasferta dei dipendenti pubblici (art. 1, comma 213) e cancellato l’obbligo, per le amministrazioni, di rimborsare le spese di cura ai dipendenti che abbiano subito infortuni per causa di servizio (art. 1, comma 221), ha dichiarato le relative disposizioni normative inderogabili dai contratti o accordi collettivi (art. 1, comma 223) [51].

Sul punto, occorre richiamare l’attenzione sulla terminologia utilizzata dal legislatore, il quale prevede che siano “abrogate” o “soppresse” le disposizioni in materia contenute nei contratti collettivi nazionali.

A ben guardare, mentre la “soppressione” può essere considerata in senso atecnico, quale strumento che consente di espungere dall’ordinamento giuridico determinate norme, resta difficile pensare che una disposizione legislativa possa abrogare una previsione contrattuale, posto che il d.lgs. n. 165/2001, come visto, non esclude, di per sé, che una materia possa essere disciplinata da una fonte normativa, salva la possibilità della successiva riappropriazione della materia stessa da parte del contratto collettivo.

La legge finanziaria in argomento, inoltre, dichiara “inapplicabili”, ai sensi dell’art. 69, comma 1, del d.lgs. n. 165/2001, le norme di legge che prevedano la corresponsione della retribuzione per le festività civili nazionali ricadenti di domenica.

Ed ancora, a conferma della tendenza allo sconfinamento dall’ambito di competenza delle fonti pubblicistiche, la l. n. 266/2005 detta norme in materia di remunerazione delle prestazioni di lavoro straordinario (art. 1, comma 197) e disciplina alcuni aspetti della mobilità del personale (art. 1, commi 228 e 229), che rientrano, senza dubbio, tra le materia relative al rapporto di lavoro, espressamente assegnate, dall’art. 40, comma 1, del d.lgs. n. 165/2001, alla contrattazione collettiva, in tal modo forzando il sistema delle relazioni sindacali [52].

Anche la legge 30 dicembre 2004, n. 311 (legge finanziaria 2005) sembra confermare questa tendenza, prevedendo, tra l’altro, apposite norme in materia di illecito disciplinare da parte dei dipendenti degli enti locali (art. 1, comma 42) ed in materia di mobilità, anche intercompartimentale (art. 1, comma 47).

Inoltre, la preoccupazione del legislatore di perdere il monitoraggio in materia di contrattazione collettiva ha condotto all’inserimento, da parte della legge finanziaria per il 2002 (legge 28 dicembre 2001, n. 448, art. 17), dell’art. 40 bis nel corpo normativo del d.lgs. n. 165/2001, al fine di controllare la compatibilità della spesa prevista dai contratti integrativi delle amministrazioni pubbliche rispetto ai vincoli di bilancio delle amministrazioni medesime.

Quanto al versante negoziale, merita di essere ricordato il contratto collettivo nazionale di lavoro relativo all’area 1 della dirigenza pubblica, quadriennio normativo 1998-2001, il quale, agli artt. 13 e 35, disciplina, rispettivamente, materie come i criteri di conferimento e revoca degli incarichi dirigenziali (già previsti dagli artt. 19 e 21 del d.lgs. n. 165/2001) e la valutazione del personale con qualifica dirigenziale (disciplinata, assieme agli altri controlli interni alle amministrazioni pubbliche, dal decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 286).

Ed ancora, il C.C.N.L. relativo al personale del comparto Ministeri per il quadriennio normativo 1998-2001 prevede la costituzione di comitati paritetici, con il compito di verificare, con cadenza periodica, tra l’altro, “le linee di indirizzo per la riorganizzazione e la ristrutturazione dell’amministrazione” (art. 6, lett. D) – forme di partecipazione), la cui disciplina generale, almeno relativamente agli atti di macro organizzazione, dovrebbe essere riservata alla fonte pubblicistica, senza possibilità di introdurre strumenti di cogestione della materia in questione [53].

In alcuni casi, poi, piuttosto che all’invasione dell’ambito di competenza riservato ad altra fonte, si assiste a clamorose defezioni normative, sia da parte del legislatore che da parte dei contraenti.

In particolare, quanto alla fonte pubblicistica, si osserva che la citata legge finanziaria 2006 non individua le risorse finanziarie necessarie per il rinnovo dei contratti collettivi scaduti, sia per la parte normativa che per quella economica, il 31 dicembre 2005.

A prescindere dall’evidente volontà politica di non rinnovare i contratti collettivi, almeno nel corso dell’anno finanziario di riferimento della l. n. 266/2005, si fa notare che mai, dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 29/1993, una legge finanziaria non definisse la spesa necessaria per la sottoscrizione del relativo biennio economico [54].

In relazione alla fonte pattizia, viceversa, si deve prendere atto che né i contratti collettivi nazionali di comparto, né i contratti collettivi nazionali quadro si sono fatti carico di disciplinare (come avrebbero potuto) il regime del trattamento economico accessorio spettante al personale posto in posizione di comando presso un’altra amministrazione pubblica, anche di diverso comparto di contrattazione.

Allo stato, come noto, la materia è pigramente regolamentata dall’art. 3, comma 63, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, il quale prevede che i pubblici dipendenti in posizione di comando non possono cumulare indennità, comunque denominate, corrisposte dall’amministrazione di appartenenza con analoghi trattamenti economici accessori previsti da specifiche disposizioni di legge a favore del personale dell’amministrazione presso la quale i predetti dipendenti prestano servizio.

Come è possibile osservare da quanto sin qui illustrato, pertanto, sembra delinearsi uno scenario normativo in cui, in alcuni casi, la fonte pubblicistica, pur non necessaria in quella determinata materia, in quanto astrattamente riservata alla fonte pattizia, risulta comunque portata alle estreme conseguenze (come, ad esempio, per le disposizioni in materia di incarichi di funzioni dirigenziali, dichiarate dal legislatore non derogabili ad opera dei contratti collettivi), in altri, la disciplina di una determinata materia, ancorché auspicabile, risulta inspiegabilmente (e, forse, consapevolmente) tralasciata da parte dei contratti collettivi.

5. Dopo aver individuato, sia pure in estrema sintesi, le coordinate in ordine al rapporto tra fonte normativa e fonte contrattuale del pubblico impiego privatizzato, è ora possibile tracciare qualche breve considerazione conclusiva, la cui unica pretesa è quella di stimolare alcuni spunti di riflessione.

In primo luogo, sia da una lettura delle norme del d.lgs. n. 165/2001 esaminate, sia, soprattutto, avendo riguardo alla più recente legislazione in materia di pubblico impiego privatizzato, si ha l’impressione che il sistema delineato dal legislatore delegato non si sia ancora stabilizzato ed abbia, al contrario, realizzato una finalità opposta a quella prefissata [55].

In effetti, si assiste a continui sconfinamenti, sovrapposizioni e intrecci di discipline, che danno vita ad “istituti a geometria variabile” [56] nello spazio – a seconda, come visto in precedenza, dei vari livelli di governo – e nel tempo.

Alla luce di quanto sopra esposto, sembra, a chi scrive, che lo strumento più idoneo a garantire i diritti fondamentali dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sia proprio la fonte normativa che, in quanto dotata del carattere della generalità (oltre che dell’astrattezza), consente di superare gli elementi di criticità del sistema e le complesse problematiche conseguenti alle differenti applicazioni contrattuali, a seconda dei diversi comparti di contrattazione.

Una siffatta conclusione risulta tanto più sentita se si ha riguardo allo scarso utilizzo della contrattazione collettiva intercompartimentale, almeno in relazione agli istituti di maggiore rilevanza.

Si pensi alla materia dell’orario di lavoro, alla mobilità intercompartimentale o alle procedure di equiparazione di dipendenti appartenenti a diversi comparti di contrattazione collettiva.

In particolare, si ritiene che quest’ultimo problema rivesta particolare importanza, anche per incentivare la mobilità volontaria dei dipendenti pubblici di amministrazioni rientranti in comparti di contrattazione assolutamente disomogenei quanto al sistema di classificazione del personale [57].

L’assenza di puntuali disposizioni contrattuali in tal senso [58], causata, spesso, da complicati meccanismi di “pesi e contrappesi” politici tra Governo – rappresentato, in sede di contrattazione collettiva nazionale, dall’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni – comitati di settore e parti sociali, ben potrebbe essere surrogata dalla fonte legislativa, abilitata ad immettere nell’ordinamento, per tutti i dipendenti pubblici e con la medesima decorrenza, norme quadro idonee a creare certezza nei rapporti giuridici.

Senonché, la strada percorsa, da ultimo, dal d.lgs. n. 66/2003 sembra dimostrarsi una scelta soddisfacente, in quanto realizza un giusto equilibrio tra le diverse fonti regolatrici del rapporto di lavoro, valorizzando, al contempo, il ruolo della fonte negoziale, attraverso i continui richiami ad essa.

Probabilmente, per alleviare i contrasti tra la fonte contrattuale e la fonte normativa, sarebbe sufficiente “rispolverare” le materie affidate alla fonte unilaterale dalla l. n. 421/1992, inopinatamente dimenticata dal legislatore della seconda privatizzazione.

Difatti, è sempre più forte, soprattutto per i funzionari pubblici che sono quotidianamente chiamati ad interpretare i contratti collettivi e la normativa di settore (ivi comprese le norme transitorie e finali), l’esigenza di una disciplina uniforme del rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001.

In fin dei conti, il sostanziale fallimento della privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, ormai condiviso da gran parte della dottrina [59], non può non passare attraverso il tormentato (e tuttora irrisolto) rapporto tra fonte normativa e fonte contrattuale.

 

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* Dottorando di ricerca in diritto amministrativo nell’Università degli studi di Roma Tre.

[1] Secondo A. BELLAVISTA, Fonti del rapporto. La privatizzazione del rapporto di lavoro, in F. CARINCI, L. ZOPPOLI (a cura di), Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Utet, Torino, 2004, 77, sarebbe preferibile utilizzare il termine “privatizzazione”.

[2] Cons. Stato, Ad. gen., 31 agosto 1992, n. 146, in Foro it., 1993, III, 4, secondo cui fra lavoro privato e pubblico è riscontrabile una “diversità ontologica” che solleva ostacoli “obiettivamente insuperabili ed ineliminabili” alla privatizzazione dell’impiego pubblico. Per una analisi critica del parere in argomento, si rinvia alle argomentazioni esposte da G. D’AURIA, Il “nuovo” pubblico impiego tra giudice ordinario e giudici amministrativi, in G. CECORA, C. D’ORTA (a cura di), La riforma del pubblico impiego, Il Mulino, Bologna, 1994, 119 ss.

[3] Legge 23 ottobre 1992, n. 421, recante “Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale”.

[4] Corte cost., 25 marzo 1996, n. 88. In ordine ai limiti derivanti dalla riserva di legge prevista dall’art. 97 Cost., si v. anche Corte cost., 25 luglio 1996, n. 313, in Cons. St., 1996, II, 1298.

[5] Lo stesso d.lgs. n. 165/2001 reca “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”. Sull’utilizzo di questa terminologia, si v. F. CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, I, Giuffrè, Milano, 2005, 1039.

[6] L’espressione è utilizzata da G. D’AURIA, L’organizzazione, il lavoro pubblico e i controlli, in Giorn. dir. amm., 2006, 3, 258.

[7] Secondo S. BATTINI, Il personale, relazione al convegno su Dieci anni di riforme amministrative, tenutosi a Roma il 27 maggio 2004, in Giorn. dir. amm., Dieci anni, 2004, 11, nell’ordinamento italiano “non si è optato per una semplice rivisitazione e adattamento del regime tradizionale di diritto pubblico, ma per il suo abbandono, in favore del regime privatistico. Sarebbe tuttavia sbagliato inferirne che l’esigenza di salvaguardia dei valori fondativi del pubblico impiego sia rimasta estranea al progetto di modernizzazione realizzato in Italia”.

[8] Si ricorda che, ai sensi dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 165/2001 “le linee fondamentali di organizzazione degli uffici” sono definite dalle amministrazioni “secondo principi generali fissati da disposizioni di legge”.

[9] Il d.lgs. n. 165/2001, oltre a stabilire che “le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte (...) con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro” (art. 5, comma 1), prevede che “tutte le materie relative al rapporto di lavoro” siano riservate alla contrattazione collettiva (art. 40, comma 1). A tale riguardo, G. NAPOLITANO, Pubblico e privato nel diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 2003, 78 ss., ricomprende la contrattualizzazione del rapporto di impiego pubblico tra le tecniche di privatizzazione legale del diritto amministrativo.

[10] Per un’analisi della natura degli atti di gestione del rapporto di lavoro, anche in ordine alla tutela giurisdizionale del dipendente, si rinvia alle argomentazioni di P. SORDI, Atti negoziali, procedimenti amministrativi e contratti collettivi nelle controversie di lavoro pubblico, in Lav. pubbl. amm., 2005, 1, 29 ss.

[11] A. BELLAVISTA, Fonti del rapporto, cit., 79.

[12] S. BATTINI, Il rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, Cedam, Padova, 2000, 441, il quale precisa che la disciplina di fonte legislativa “si presume sempre avere natura dispositiva, applicandosi solo ove le parti non dispongano diversamente”.

[13] Ad avviso di S. BATTINI, Il personale, in S. CASSESE (a cura di), Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo generale, I, Giuffrè, Milano, 2003, 420, l’autonomia negoziale nella regolamentazione del rapporto di lavoro “indica che la capacità delle parti di autodisciplinare la relazione che fra esse intercorre si estende fino al punto in cui non venga espressamente esclusa dalla legge, che opera, quindi, come limite esterno”.

[14] A. RICCIARDI, Il rapporto tra fonti unilaterali e contratto collettivo, in F. CARINCI, L. ZOPPOLI (a cura di), Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, cit., 157, secondo cui il meccanismo illustrato non stravolgerebbe né la natura del contratto collettivo, che rimane quella di un atto di autonomia privata, né metterebbe in discussione i principi sulla gerarchia delle fonti.

[15] Con formule del tipo “salvo diverse disposizioni dei contratti collettivi” (art. 8) o “fatte salve le condizioni di migliore favore stabilite nei contratti collettivi” (art. 16).

[16] Un’interpretazione contraria avrebbe il difetto di svilire le stesse finalità della privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, che conducono ad una devoluzione quasi totale della materia alle fonti di natura negoziale. A conferma di tale assunto depone il dato testuale di cui all’art. 69, comma 1, del d.lgs. n. 165/2001, il quale cita “le norme generali e speciali del pubblico impiego”, al fine di disporne la cessazione degli effetti a decorrere dalla seconda tornata contrattuale.

[17] In mancanza di indicazioni normative contrarie, si deve ritenere che, oltre ai contratti collettivi nazionali di lavoro, anche i contratti collettivi integrativi, relativi alle singole amministrazioni, possano operare in senso derogatorio, posto che il contratto integrativo deve, comunque, rispettare, pena nullità, le clausole predisposte in sede di contrattazione nazionale. Sul punto, si v. anche L. FIORILLO, Le fonti, in G. SANTORO PASSARELLI (a cura di), Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale. Il lavoro privato e pubblico, Ipsoa, Milano, 2000, 1413.

[18] Si pensi ai benefici economici previsti dalla legge 24 maggio 1970, n. 336, espressamente richiamata dall’art. 91 del C.C.N.L. relativo al personale del comparto della Presidenza del Consiglio dei ministri, quadriennio normativo 2002-2005.

[19] Secondo S. BATTINI, Il rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, cit., 444, si profila, in materia, un “tentativo di istituire una vera e propria riserva di contrattazione”. In materia, si v. anche S. BATTINI, Il personale, cit., 426-427.

[20] Nonostante l’effetto abrogativo venga autorizzato da una fonte primaria, una parte della dottrina ha ritenuto il meccanismo de quo palesemente contrario ai principi in materia di gerarchia delle fonti.

[21] A. RICCIARDI, Il rapporto tra fonti unilaterali e contratto collettivo, cit., 157.

[22] L’espressione è utilizzata da F. CARINCI, Una riforma “conclusa”. Fra norma scritta e prassi applicativa, in F. CARINCI, L. ZOPPOLI (a cura di), Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, cit., LXIII.

[23] A. RICCIARDI, Il rapporto tra fonti unilaterali e contratto collettivo, cit., 173.

[24] Al riguardo, si vedano anche le osservazioni di B.G. MATTARELLA, Sindacati e pubblici poteri, Giuffrè, Milano, 2003, 308, secondo cui, in tale caso, “la contrattazione collettiva costituisce svolgimento di funzioni normative” nonché quelle di S. BATTINI, Il rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, cit., 453, ad avviso del quale la “contrattazione collettiva [sarebbe] figlia della legge, espressione, cioè, di un potere di regolare i rapporti di lavoro che ha fondamento legale”. Nello stesso senso, A. CATELANI, Il pubblico impiego, in G. SANTANIELLO (diretto da), Trattato di diritto amministrativo, Cedam, Padova, 2003, 38-39, che riconduce i contratti collettivi tra la categoria dei “contratti di diritto pubblico”, avendo contenuto tipicamente pubblicistico.

[25] Soltanto per fare un esempio, si consideri che il C.C.N.L. relativo al personale delle istituzioni e degli enti di ricerca e sperimentazione per il quadriennio normativo 1998-2001 è stato sottoscritto soltanto il 21 febbraio 2002, dunque, ben oltre il periodo di riferimento.

[26] L’espressione è tratta da V. SPEZIALE, Il rapporto tra fonti unilaterali e contratto collettivo, in F. CARINCI, L. ZOPPOLI (a cura di), Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, cit., 179.

[27] E’ il caso, ad esempio, dell’art. 10 del C.C.N.L. relativo al personale delle istituzioni e degli enti di ricerca e sperimentazione per il secondo biennio economico 2000-2001 (la cui previsione è stata inopinatamente confermata dall’art. 42 del contratto collettivo, relativo al medesimo comparto, per il quadriennio normativo 2002-2005, sottoscritto il 7 aprile 2006), ovvero dell’art. 39 del C.C.N.L. del comparto Ministeri, quadriennio normativo 1998-2001, i quali dilazionano ad apposita sequenza contrattuale la disciplina delle previsioni degli artt. 69 e 71 del d.lgs. n. 165/2001. Ad avviso di G. CANNATI, Il “riordino” del regime transitorio e finale nel d.lgs. n. 165/2001, in F. CARINCI, L. ZOPPOLI (a cura di), Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, cit., 191, “l’art. 71 non può essere interpretato come una norma che autorizza a procrastinare “più o meno all’infinito” il termine finale di cessazione di efficacia delle norme pubblicistiche”.

[28] Una ulteriore (inspiegabile) differenza è data dal fatto che l’art. 69 fa conseguire l’effetto demolitorio delle norme pubblicistiche dalla data della stipulazione dei contratti collettivi per il quadriennio 1998-2001, mentre l’art. 71 collega la cessazione dell’efficacia delle stesse con le decorrenze previste negli allegati A) e B) del d.lgs. n. 165/2001.

[29] V. SPEZIALE, Il rapporto tra fonti unilaterali e contratto collettivo, cit., 183; secondo S. BATTINI, Il personale, cit., 424, gli elenchi delle disposizioni richiamati dall’art. 71 del d.lgs. n. 165/2001 sono predisposti “a fini di certezza”.

[30] G. CANNATI, Il “riordino” del regime transitorio e finale nel d.lgs. n. 165/2001, cit., 196, definisce l’art. 71 del d.lgs. n. 165/2001 un vero e proprio “rompicapo”.

[31] G. CANNATI, Il “riordino” del regime transitorio e finale nel d.lgs. n. 165/2001, cit., 191.

[32] Per un’analisi della materia, anche in prospettiva del referendum popolare sulla legge costituzionale 18 novembre 2005, tenutosi nel mese di giugno 2006, si v. R. SALOMONE, Nuova riforma costituzionale e lavoro pubblico. Osservazioni a margine della cd. devolution (legge cost. 18 novembre 2005), in Lav. pubbl. amm., 2006, 1, 53 ss.

[33] L. ZOPPOLI, Applicabilità della riforma del lavoro pubblico alle Regioni e riforma costituzionale, in F. CARINCI, L. ZOPPOLI (a cura di), Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, cit., 60; G. D’AURIA, Variazioni su lavoro pubblico, organizzazione amministrativa e titolo V (parte seconda) della Costituzione, in Lav. pubbl. amm., 2005, 1, 5. Sul punto, si v. anche L. ZOPPOLI, La riforma del titolo V della Costituzione e la regolazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni: come ricomporre i “pezzi” di un difficile puzzle?, in Lav. pubbl. amm., 2002, suppl. al fasc. 1, 157.

[34] Al riguardo, secondo L. ZOPPOLI, Applicabilità della riforma del lavoro pubblico alle Regioni e riforma costituzionale, cit., 63, “è possibile leggere nella nuova disciplina del Titolo V il rafforzamento di una trama regolativa (...) in cui la regolazione dei rapporti di lavoro assoggettati a regime privatistico è affidata essenzialmente a circuiti di carattere contrattuale”.

[35] F. CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, cit., 1046.

[36] Ci si riferisce al d.lgs. n. 66/2003 e successive modifiche, già citato in precedenza.

[37] Decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 e successive modifiche, recante “Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità, a norma dell’art. 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53”.

[38] In ordine alla materia dell’ordinamento civile, si rinvia, anche per una completa ed aggiornata ricognizione delle pronunce della Corte costituzionale sull’argomento, a S. CALZOLAIO, La materia “ordinamento civile”: una ulteriore competenza trasversale dello Stato?, in www.forumcostituzionale.it, visitato il 30 agosto 2006.

[39] Secondo L. ZOPPOLI, La riforma del titolo V della Costituzione, cit., 160, si profilerebbe, in tal modo, “un assetto da “federalismo cooperativo”, in cui le Regioni cooperano con lo Stato nel regolare i rapporti di lavoro”.

[40] G. D’AURIA, Il lavoro pubblico dopo il nuovo titolo V (parte seconda) della Costituzione, in Lav. pubbl. amm., 2001, 5, 756, ad avviso del quale “l’organizzazione regionale non è menzionata nell’art. 117, sicché essa rientra fra le materie di potestà legislativa esclusiva delle regioni (art. 117, comma 4), che la esercitano nel rispetto dei “principi fondamentali” stabiliti dagli statuti (art. 123, comma 1)”.

[41] Sul punto, si v. le argomentazioni di G. D’AURIA, Variazioni su lavoro pubblico, cit., 16 ss. e di A. TROJSI, Lavoro pubblico e riparto di potestà normativa, in Lav. pubbl. amm., 2005, 3-4, 524, la quale, dopo aver messo in evidenza la questione relativa alla compatibilità tra l’esistenza del comparto di contrattazione delle regioni e autonomie locali ed il nuovo titolo V della Carta fondamentale, afferma che “il parallelismo tra “privatizzazione” e “contrattualizzazione” impedisce, quindi, ogni sovrapposizione e invasione di campo della contrattazione collettiva rispetto alle competenze normative regionali: queste ultime investono, infatti, gli aspetti del rapporto di lavoro rimasti in regime pubblicistico, per i quali il legislatore statale espressamente esclude la competenza della contrattazione collettiva (art. 2, co. 1, lett. c), l. n. 421/1992); mentre, appunto, la contrattazione collettiva opera nei limiti della porzione di lavoro pubblico in ogni caso sottratto alla potestà legislativa regionale, perché fatto rientrare nel diritto privato (e quindi nella competenza statale). Si tratta, insomma, di due ambiti di intervento assolutamente separati, essendo in tal modo eliminato in radice il rischio di un’usurpazione di competenza del contratto collettivo nazionale rispetto al legislatore regionale”.

[42] A. TROJSI, Lavoro pubblico e riparto di potestà normativa, cit., 497.

[43] Emblematica, in proposito, l’affermazione di G. D’ALESSIO, Ordinamento autonomistico dell’istruzione e riforme istituzionali, in Riv. istr., 2005, 2, 68, il quale, in relazione alla materia dell’organizzazione scolastica e della gestione degli istituti scolastici, contenuta nel progetto di revisione costituzionale, poi approvato con legge costituzionale del 18 novembre 2005, ha evidenziato che “se, in effetti, si vuol dare un significato compiuto e coerente alla potestà esclusiva regionale in materia di organizzazione e gestione degli istituti, questa non può non comprendere anche gli aspetti relativi all’organizzazione ed alla gestione del personale”. Secondo G. D’AURIA, Il lavoro pubblico, cit., 756, “regioni ed enti locali potranno adottare, nell’ambito non disciplinato dall’”ordinamento civile”, regole proprie (…). Di conseguenza, una parte rilevante del d.lgs. n. 165 sarebbe, fin da oggi, “derogabile” da parte di regioni ed enti locali”.

[44] Si vedano, per tutte, Corte cost. 17 dicembre 2004, n. 390 e Corte cost., 24 luglio 2003, n. 274.

[45] S. BATTINI, Il personale, cit., 424-425, fa notare la facoltà di intervento, in materie riservate alla competenza dei contratti collettivi, cui il legislatore “si è sempre mostrato sollecito a ricorrere, mediante interventi settoriali di “microlegislazione” sovente adottati (…) per introdurre trattamenti speciali e di favore”.

[46] L. ZOPPOLI, Applicabilità della riforma del lavoro pubblico alle Regioni e riforma costituzionale, cit., 64.

[47] B.G. MATTARELLA, Sindacati e pubblici poteri, cit., 304-305.

[48] F. CARINCI, Una riforma “conclusa”, cit., LXIX, che parla di “esproprio della legge a danno della contrattazione”

[49] Direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri 1° marzo 2002, recante “Indirizzi per l’applicazione dell’art. 2 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. Ripartizione di ambiti fra fonti pubblicistiche e privatistiche di regolamentazione in materia di rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni”.

[50] Secondo B.G. MATTARELLA, Sindacati e pubblici poteri, cit., 225, sub nota 46, la direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri del 1° marzo 2002 “considera soltanto il pericolo inverso, che fonti unilaterali intervengano in materie riservate ai contratti”.

[51] Per un’analisi delle disposizioni della legge finanziaria 2006, relative alla contrattazione, si rinvia a D. D’IORIO, La contrattazione integrativa nel pubblico impiego per l’anno 2006, in Lav. pubbl. amm., 2006, 1, 45 ss.

[52] Ad avviso di G. D’AURIA, L’organizzazione, cit., 258, “il governo, quando non riesce ad imporre il suo punto di vista nella contrattazione collettiva, fissa con legge alcune regole, rendendole inattaccabili dai successivi contratti”.

[53] A. MARI, Consigli di amministrazione e rappresentanze sindacali, in Giorn. dir. amm., 1996, 9, 821.

[54] G. D’AURIA, L’organizzazione, cit., 257.

[55] G. CANNATI, Il “riordino” del regime transitorio e finale nel d.lgs. n. 165/2001, cit., 196. Secondo F. CARINCI, Una riforma “conclusa”, cit., LXIX, sarebbe “suonata l’ora della sistemazione e della razionalizzazione”.

[56] G. NAPOLITANO, Pubblico e privato nel diritto amministrativo, cit., 241.

[57] E’ il caso del comparto delle istituzioni e degli enti di ricerca e sperimentazione ovvero quello delle università, i quali prevedono un sistema di classificazione del personale che non trova corrispondenza alcuna negli altri comparti di contrattazione.

[58] I contratti collettivi della terza tornata contrattuale non si sono fatti carico di stabilire le tabelle di equiparazione del personale appartenente ai vari comparti di contrattazione; gli unici sforzi in tale direzione sono offerti dal C.C.N.L. degli enti pubblici di ricerca per il quadriennio normativo 2002-2005 il quale, all’art. 6, detta alcuni criteri generali che, però, rinviano alla contrattazione integrativa di ogni singolo ente. Ancora una volta, pertanto, la tecnica utilizzata rischia di creare pesanti disparità di trattamento dei dipendenti pubblici a seconda dell’amministrazione di riferimento.

[59] Si v., per tutti, di recente, G. D’AURIA, Variazioni su lavoro pubblico, cit., 4. Sulla differenza tra privatizzazione formale e sostanziale del rapporto di pubblico impiego, si v. A. CATELANI, Il pubblico impiego, cit., 96-97.


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