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Giurisprudenza

n. 10/2003 - copyright

GIANNA ELISA BERLINGERIO (*)

Le prestazioni amministrative nella disciplina della concorrenza: evoluzione della nozione ed influenza del diritto comunitario

SOMMARIO: INTRODUZIONE - PARTE PRIMA: 1) Le prestazioni amministrative; 2) Funzione pubblica e servizio pubblico; 3) I compiti dell’amministrazione pubblica e la privatizzazione; 4) Servizio pubblico e capacità generale di diritto privato dell’amministrazione. - PARTE SECONDA:  Ambiti di sovrapposizione fra regole a tutela della concorrenza ed attività amministrativa: 1) la disciplina della concorrenza come limite generale alle prestazioni delle pubbliche amministrazioni; 2) profilo generale dell’oggetto del diritto della concorrenza; 3) l’azione amministrativa ed i suoi effetti di natura economica al vaglio delle norme di tutela del mercato: 3.1) l’organismo di diritto pubblico e implicazioni nella nuova disciplina dei servizi pubblici locali; 3.2) la vicenda delle golden shares 3.3) “police administrative” e diritto della concorrenza; 3.4) condotte di impresa riconducibili a misure pubbliche e tutela della concorrenza: la questione delle tariffe; 3.5) disciplina di fiere e mercati; 3.6) la nozione comunitaria delle attività che “partecipano…all’esercizio di pubblici poteri”.

 

INTRODUZIONE

     Sembrerebbe possibile individuare nel diritto amministrativo alcune clausole generali, poste al centro di poli contrapposti fra i quali la politica del diritto periodicamente oscilla a mo’ di pendolo, caratterizzate dalla capacità di aprirsi e chiudersi a seconda della direzione verso la quale sospinga, nel momento contingente, il flusso della “coscienza” giuridica.

Una di queste clausole è stata identificata[1] nel “corso e ricorso”, di vichiana memoria, oscillante fra il polo dell’efficienza e quello della garanzia quali principi ispiratori delle norme che si avvicendano a regolare l’azione della pubblica amministrazione. In un certo momento storico – ad esempio - il legislatore emana leggi di riorganizzazione dell’amministrazione e disciplina la sua azione con il fine non celato di fornire garanzie al cittadino circa la sua imparzialità (v. ad es. la stagione culminata nell’emanazione della legge n. 241 del 1990), in un momento successivo – anche immediatamente successivo – lo scopo da perseguire è quello del raggiungimento del risultato secondo modalità di efficacia, efficienza ed economicità.

Altro esempio significativo è rappresentato dal principio di sussidiarietà che può essere letto alternativamente come clausola che consenta o addirittura favorisca il decentramento dell’azione amministrativa o come principio che consenta al Governo centrale (o alla Comunità europea nel caso della più nota enunciazione del principio stesso) di agire dall’alto, motivando nel caso di specie su di un maggior grado di efficacia – spesso indimostrabile - del livello amministrativo superiore.

In questo novero può forse trovar posto anche la clausola che distingue la nozione di pubblica funzione da quella di servizio pubblico. Come si vedrà più diffusamente nello sviluppo della ricerca, a seconda della temperie politica e culturale, infatti, determinate manifestazioni dell’agire amministrativo sono state considerate via via afferenti alla prima o alla seconda sfera e forse non si incorre in errore nel considerare questi tentativi definitori, nell’uno o nell’altro senso, come sintomi di una mutevole concezione dell’intervento pubblico in economia, di una incostante attenzione ai fini sociali perseguiti. In definitiva si registra assai spesso, nell’analisi degli effetti della distinzione poco sopra menzionata, una tensione oscillante fra il pubblico ed il privato che costituiscono, a loro volta, i poli della sussidiarietà c.d. orizzontale.

A prescindere dal numero e dalla natura dei “fenomeni” che possano attualmente essere ricompresi nella prima o nella seconda nozione, la loro differenziazione assume oggi un rilievo nuovo, in qualità di criterio atto a delimitare l’ambito di applicazione delle regole poste a tutela della concorrenza. Queste ultime, infatti, presiedono al corretto svolgersi degli scambi, incidendo su tutte le attività che possano essere considerate di natura economica: anche sui servizi pubblici, dunque, sia pure in presenza di determinati presupposti e sia pure solo per sottrarli all’applicazione di alcune norme. Tradizionalmente, tuttavia, il loro ambito di applicazione non si estende alle attività che consistono nell’esercizio di pubblici poteri. Anche queste ultime possono avere però, e spesso hanno, degli effetti che si riverberano nel mondo dell’economia. Scopo della ricerca è il tentativo di rintracciare la linea di demarcazione oltre la quale la disciplina del mercato non trova applicazione e si dispiegano perciò pienamente le manifestazioni di sovranità dello Stato.

E’ agevole rilevare che, a seguito dell’introduzione nel nostro ordinamento di modelli e strumenti, in gran parte derivati o influenzati dal diritto comunitario, incentrati sull’ottenimento del risultato in condizioni di economicità, il contenuto dell’azione amministrativa abbia accentuato la tendenza alla sua trasformazione, da una formula tipica avente ad oggetto l’espletamento dell’attività mediante esercizio di poteri, verso un’attività di vera e propria “prestazione” di servizi ai cittadini.

Il concetto di prestazione amministrativa resa ai privati in realtà non è nuovo, come non è nuova la sua differenziazione rispetto alla species del servizio pubblico, in passato (cfr. in particolare De Valles e Alessi) più chiaramente incentrata sul criterio discretivo della destinazione della prestazione in favore del singolo o della collettività ed oggi rilevante ai fini dell’inquadramento del nuovo ruolo dello Stato e del settore pubblico in generale nel perseguimento dell’obiettivo di sviluppo economico in chiave di equa redistribuzione sociale dei suoi benefici.

Dalla individuazione della nozione di prestazione amministrativa “resa ai privati” e da quella di servizio pubblico prende avvio la riflessione che segue e che si propone di tratteggiare i compiti dell’amministrazione pubblica alla luce dei processi di privatizzazione da tempo in corso in vari campi dell’ordinamento ed a vari livelli dell’agire giuridico. Si tratta di una tendenza permanente nell’ordinamento giuridico italiano, indotta dalla spinta delle risoluzioni europee sul ritiro dello Stato dall’economia che ha fruttato sinora un indubbio mutamento di mentalità nella direzione dell’attività amministrativa, ma ancora scarsi frutti esperienziali. In questo quadro evolutivo, il concetto di prestazione amministrativa viene posto a paragone “a monte” rispetto a quello di funzione pubblica ed “a valle” rispetto alla capacità generale di diritto privato della pubblica amministrazione.

Nella seconda parte si cerca di tracciare il profilo dell’oggetto del diritto della concorrenza, della sua genesi, della sua articolazione e dei principi fondamentali che la caratterizzano al fine di individuare gli ambiti nei quali la sovrapposizione delle regole poste a tutela della concorrenza rispetto all’attività amministrativa appare più significativa. A tal uopo la ricerca si avvale non solo delle nozioni teoriche derivanti dallo studio della normativa di riferimento, ma anche dell’analisi di alcuni “casi” giurisprudenziali o di prassi decisionale dell’autorità garante della concorrenza e del mercato, col conforto di alcuni contributi della dottrina che se ne è occupata. In particolare viene affrontato il tema dell’organismo di diritto pubblico, concetto che trae origine dalla giurisprudenza applicativa della disciplina sugli appalti pubblici ma che, secondo autorevole dottrina (cfr. in particolare Greco, V. Caputi Jambrenghi, Chiti, D. Marrama) trova applicazione anche in ambiti differenti e finisce per rappresentare un esempio emblematico della chiave ermeneutica “sostanzialista” cui gli organi comunitari (ben compresi quelli che amministrano la giustizia) fanno di continuo riferimento nella fissazione dei limiti posti all’agire degli Stati e degli enti pubblici quali soggetti operanti in campo economico. Nello stesso filone paiono inscriversi le vicende delle “golden shares”, della “police administrative”, delle condotte di impresa riconducibili a misure pubbliche, della disciplina pubblica delle fiere e dei mercati, poste a confronto con la normativa di tutela della concorrenza

La ricostruzione della materia effettuata nella ricerca qui esposta conduce a non condividere le posizioni dottrinarie più radicali che individuano nella sottoscrizione del patto comunitario da parte dello Stato italiano il momento della sostituzione degli obiettivi di democrazia effettiva segnati in particolare dalla norma di cui al comma secondo dell’art. 3 Cost. – che peraltro caratterizzano il modello di repubblica scelto dal legislatore costituente e quindi dalla nazione – con gli “obiettivi” del libero mercato. La disciplina posta a tutela della concorrenza appare, dunque, come un mero “strumento” atto al raggiungimento di quegli obiettivi, caratterizzato dalla fissazione positiva di una serie di “regole del gioco” cui l’amministrazione stessa deve attenersi in tutte le sue attività che non rappresentino esercizio diretto di pubblici poteri.

La crisi degli strumenti tradizionali di intervento pubblico nell’economia ed il contemporaneo (e conseguente) affermarsi della disciplina della concorrenza non portano, né nelle intenzioni né tampoco nell’atteggiarsi concreto dei cambiamenti, ad un completo rovesciamento di modelli. Per quanto, infatti, sia frutto di una idea dei rapporti fra Stato ed economia senza dubbio differente rispetto a quella sottesa allo Stato imprenditore, programmatore e finanziatore, la disciplina di tutela della concorrenza non si sostituisce integralmente alle forme tradizionali di intervento pubblico nell’economia.

Piuttosto essa, che prende forma non solo nella legislazione antitrust, introdotta in Italia con legge n.287 del 1990 (ma già vigeva nel nostro Paese quella comunitaria per le fattispecie di rilevanza europea), intesa a reprimere ogni abuso di potere di mercato da parte degli operatori economici, ma anche nella regolamentazione degli aiuti di Stato nonché, in senso ancor più lato, nella disciplina degli appalti pubblici e nella difesa delle quattro libertà di circolazione contro le discriminazioni, tende anche a combattere le disfunzioni che i tradizionali modelli di intervento pubblico nell’economia presentano. Si può quindi rilevare, anche alla luce della dichiarata neutralità del diritto comunitario circa i regimi di proprietà delle imprese (art. 295 del Trattato), una compresenza allo stadio attuale di sviluppo del nostro ordinamento, fra regole a tutela della concorrenza e strumenti tradizionali di governo pubblico del sistema economico.

La regolazione, a detta di autorevole dottrina [2], avrebbe però solo il compito di garantire che tutti gli operatori economici partecipino al “litisconsorzio” concorrenziale senza turbative di sorta. Si tratterebbe di norme di natura “processuale”, dunque, (nella metafora della partecipazione al mercato concorrenziale come ad un litisconsorzio necessario) e, come tali, neutre, non tese a favorire obiettivi di sviluppo o in altro modo orientate se non a permettere il raggiungimento di quelle utilità che solo un funzionamento fisiologico del mercato consente.

Come si vedrà, questa posizione non è universalmente condivisa. Pare, anzi, che la regolazione sia vista sempre più come uno strumento per raggiungere determinati fini economici e sociali.

Una riprova della non-neutralità della regolazione è offerta altresì dall’esempio della politica della Commissione nel suo ruolo di autorità antitrust nonché giudice degli aiuti di Stato. La dottrina più autorevole [3] ha sottolineato che la disciplina degli aiuti di Stato, nel prefigurare determinate deroghe al divieto generale ed una procedura di controllo della compatibilità con il mercato comune, consente alla Commissione di “contribuire alla definizione di vere e proprie linee di politica industriale”; tale disciplina si pone, d’altro canto, al pari delle norme sulle esenzioni in tema di concorrenza, al confine fra l’integrazione negativa, fondata su semplici divieti, e l’integrazione positiva.

L’attività di controllo della Commissione, infatti, si traduce nella sostanza in una canalizzazione dell’intervento pubblico verso obiettivi di politica industriale che siano in sintonia con gli interessi comunitari. Certo, il modello di azione della Commissione differisce da quello delle autorità di garanzia italiane, in primis dell’antitrust nazionale, poiché la sua Direzione generale “Concorrenza” agisce dichiaratamente all’interno della politica stabilita dall’intero organo collegiale – pure se organo che rispetto al tradizionale modello di “governo” presenta caratteristiche di maggiore indipendenza discendenti dalle modalità di nomina, dai suoi rapporti con il parlamento e dai poteri del parlamento stesso - a differenza delle nostre autorità, per l’appunto, “indipendenti”.

Tuttavia, dal momento che v’è un diffuso consenso nel far derivare le trasformazioni riguardanti l’intervento pubblico in economia dall’influenza dell’ordinamento comunitario, difficilmente si potrà negare che, pur avendo scelto a livello nazionale un modello di amministrazione, quello delle autorità indipendenti, che non consentisse agli interessi di parte (quali sono per definizione quelli politici) di incidere sull’attività “arbitrale” di regolazione del mercato, l’impronta comunitaria implichi anche la possibilità di sviluppare una vera e propria politica industriale od economica le cui linee guida siano tracciate attraverso la fissazione, con legge del parlamento o provvedimento governativo e secondo una periodicità prevista per alcuni settori del pubblico servizio in termini alquanto ristretti (nel caso del Gas, ogni due anni), dei criteri dei quali il regolatore deve avvalersi. Si potrebbe dunque affermare che il mercato e la sua disciplina si presentino tuttora come strumenti e non come fini.

 

PARTE PRIMA: 1) Le prestazioni amministrative; 2) Funzione pubblica e servizio pubblico; 3) I compiti dell’amministrazione pubblica e la privatizzazione; 4) Servizio pubblico e capacità generale di diritto privato dell’amministrazione.

1) Le prestazioni amministrative.

La nozione di prestazione amministrativa resa ai privati ha conosciuto nella prima metà del secolo scorso una stagione intensa di approfondimento da parte della dottrina, culminata nello studio di Alessi del 1956 [4]. Ma successivamente essa pare subire un subitaneo declino, almeno in quanto tema scientificamente autonomo nel novero delle materie che afferiscono al concetto giuridico generale di servizio pubblico. In realtà, sembra potersi affermare che lo studio delle prestazioni amministrative rese ai privati, proprio nella sistemazione tracciata dalla dottrina in riferimento, cui va il merito di averne ricostruito gli aspetti fondamentali anche sulla scorta dell’elaborazione dottrinaria precedente ed, in particolare, di De Valles, sia confluito successivamente nello studio dei rapporti di utenza dei servizi pubblici, anzitutto per quanto attiene al regime giuridico cui sono sottoposti i momenti della nascita dei rapporti di prestazione nascenti dal pubblico servizio, dell’ammissione al godimento dello stesso, del contenuto del rapporto di prestazione e delle sue modificazioni ed estinzioni. La disciplina dei rapporti di utenza negli ultimi anni ha riscosso grande attenzione nella letteratura scientifica [5], attingendo sia gli aspetti privatistici inerenti la tutela dei consumatori sia gli strumenti pubblicistici inseriti nelle c.d. “carte” degli utenti [6].

            Ma l’attenzione che potrebbe essere attualmente dedicata a questa nozione forse non si esaurisce qui. La disciplina delle prestazioni amministrative rese ai privati che, nella tesi di Alessi, sta al servizio pubblico come la teoria delle obbligazioni sta all’espletamento dei servizi ed al rapporto giuridico che vi si accompagna nel diritto privato[7], potrebbe infatti rivestire un nuovo interesse in relazione alla constatazione che non solo la materia dei servizi pubblici in generale ma anche la serie di “manifestazioni” dell’azione amministrativa indicati da questa dottrina come prestazioni amministrative rese ai privati sono ormai sottoposte al vaglio delle regole poste a tutela della concorrenza. Il concetto di servizio pubblico ha alternativamente subito nell’evoluzione della dottrina del novecento rilevanti estensioni, che avevano per effetto l’inclusione nella materia di un numero ingente di attività provenienti in modo diretto od indiretto dalla pubblica amministrazione; di contro restrizioni che ne fissavano i confini intorno ad alcuni ben determinati fenomeni economici; per giungere a posizioni recenti [8] che propugnano una totale obsolescenza della materia dei servizi pubblici di natura imprenditoriale (con l’eccezione dei servizi locali) conseguente alla liberalizzazione dello svolgimento di gran parte delle attività di servizio ed alla disciplina della concorrenza che necessariamente la accompagna.

Più avanti sarà tratteggiata l’evoluzione della nozione di servizio pubblico [9]. Qui si vuol solo sottolineare che l’applicazione delle regole di concorrenza a tutte le manifestazioni dell’azione amministrativa (così come a tutte le attività private) che possano sortire, in modo anche indiretto, effetti sull’economia, potrebbe forse portare piuttosto che al prospettato abbandono della nozione di servizio pubblico alla rivalutazione dell’oggetto di studio della teoria delle prestazioni amministrative rese ai privati, quale nozione “integrativa” di quest’ultima e forse più adatta a coprire l’intero spettro delle attività amministrative sulle quali finisce per incidere la regolazione del mercato.

Al fine di tentare un’organizzazione sistematica di queste materie, di investigarne la natura ricercandone gli elementi comuni e di valutarne, infine, i termini della loro attuale sottoposizione al regime di diritto pubblico, risulta quindi di grande rilevanza il riferimento alla richiamata dottrina.

Secondo l’impostazione tradizionale, dunque, la non sovrapponibilità del concetto di servizio pubblico e di prestazione amministrativa può spiegarsi attraverso il riferimento alla nozione generale di prestazione e ai due elementi fondamentali cui essa è legata. Se la prestazione è un’attività rivolta ad una persona, che un soggetto è tenuto a porre in essere a vantaggio di un altro soggetto, in virtù di un rapporto giuridico di natura obbligatoria tra essi intercorrente, in ambito amministrativo la “personalità” distingue la prestazione, quale vantaggio offerto e goduto dai cittadini uti singuli, dal servizio, inteso come attività amministrativa destinata al vantaggio dei cittadini uti universi; mentre un concreto rapporto giuridico obbligatorio sarà ipotizzabile come intercorrente solo tra l’amministrazione erogatrice ed il singolo cittadino che fruisce del servizio e non certo fra questa e la generalità dei cittadini, cui pure la predisposizione del servizio è rivolta [10]. La prestazione in sé non è che l’oggetto del pubblico servizio, così come le prestazioni di diritto privato sono oggetto delle obbligazioni di diritto privato [11].

Ancora: perché un’attività venga qualificata come prestazione amministrativa essa deve configurarsi, come si osservava poco sopra, in guisa di attività di un soggetto sottoposto alle regole del diritto amministrativo rivolta ad una persona. Sulla base di questa constatazione dovrebbero essere esclusi dal novero delle prestazioni amministrative i rapporti che si riferiscono all’uso pubblico dei beni demaniali; secondo la dottrina in riferimento, infatti, esso potrebbe essere suddiviso in due momenti, il primo riguardante la predisposizione da parte dello Stato del bene in oggetto, il secondo consistente nella fruizione dello stesso da parte del singolo cittadino.

Nel primo momento potrebbero essere individuate attività in effetti descrivibili come prestazioni (l’apertura al pubblico, il suo mantenimento in tale destinazione) se non fosse per l’assenza del presupposto della personalità: l’attività di siffatta natura non implica alcun rapporto di natura giuridica se non tra l’amministrazione e la collettività come tale, mentre i singoli cittadini non possono che vantare verso l’apertura al pubblico del bene un interesse di natura “corporativa”. Il secondo momento, viceversa, ha sì carattere individuale anziché corporativo, ma si risolve nell’esercizio del diritto di libertà del singolo (ad es. libertà di locomozione e spostamento da un luogo all’altro [12]) o addirittura in una situazione di fatto che non presenta alcun carattere giuridico (ad es. l’uso del bene demaniale strada per compiere l’azione dello spostamento). La posizione esposta si poneva, tuttavia, in contrasto con autorevole dottrina che, muovendo dall’inclusione della “messa a disposizione dei beni pubblici” fra le “prestazioni di cose” [13] aveva espresso la certezza che “nella dogmatica del diritto amministrativo non v’è posto per due teorie distinte, l’una dei pubblici servizi, l’altra della proprietà pubblica: ma questa è compresa in quella, come una parte speciale nella generale” [14]. In questa impostazione, l’azione dello Stato comprende tutti i provvedimenti per rendere “facile, giovevole, regolare”, l’uso pubblico, che sono perciò sottratti all’economia privata e sono compiuti dalla collettività, organicamente considerata, cioè dallo Stato che opera positivamente per integrare l’attività naturale dei cittadini, “cooperando con la propria azione economica pubblica a fornire i mezzi di sviluppo dell’attività dell’individuo”. Questa attività, sempre ai fini della teorica in esame, costituisce servizio pubblico nei termini in cui la demanialità in sé “non è funzione di cose, ma è un’attività pubblica, che ha per iscopo di destinare all’uso pubblico delle cose”. Nell’impostazione, dalla quale pare prendere le mosse l’elaborazione che culminerà nella teoria dei beni pubblici non come regime proprietario inerente alle cose ma (persino) come “dovere” dell’amministrazione nei confronti degli amministrati [15], possono scorgersi i prodromi della riflessione che porterà a costruire il servizio pubblico come un modulo organizzativo non contrapposto alla pubblica funzione ma partecipe di sue manifestazioni come anche di attività di diritto privato ed operazioni materiali [16]. Nello stesso solco si potrebbe esser portati ad considerare come inserite nella fattispecie anche attività, o meglio, manifestazioni dell’agire amministrativo (volendo in tale nozione ben comprendere anche gli atti amministrativi) sulle quali i giudici e le autorità chiamate ad applicare le regole di concorrenza oggi rivendicano una competenza. Come si vedrà nel secondo capitolo, infatti, non solo l’espletamento dei servizi pubblici tradizionali è stato forzosamente liberalizzato (l’ossimoro non è per nulla casuale) e le attività ad esso legate sono sottoposte alla disciplina della concorrenza, sia pure soltanto ai fini dell’applicazione, condizionata al rispetto del principio di proporzionalità (puntualmente verificato dalla Corte), della relativa deroga; ma lo sono altresì una serie di, per l’appunto, manifestazioni dell’agire amministrativo, che eventualmente presentino con il servizio pubblico caratteri di mera affinità, ma che vengono in ogni caso ritenute produttrici di effetti economici potenzialmente distorsivi del libero gioco del mercato.

Può essere dunque di qualche utilità verificare con quali esiti elaborazioni dottrinarie, pur risalenti al periodo precedente l’istituzione della Comunità economica europea (la cui influenza viene generalmente considerata decisiva per il potenziamento progressivo nel nostro ordinamento delle forme di tutela della concorrenza), abbiano analizzato le “prestazioni” - in senso lato, alla luce di quanto testé affermato - della pubblica amministrazione con la finalità, all’epoca, di comprenderle nella nozione di pubblico servizio e di svelarne l’assoggettamento al diritto pubblico; lo scopo di siffatto studio potrebbe tradursi, oggi, nel rilevare l’applicabilità ad esse del diritto della concorrenza.

Così, possono essere escluse dalla nozione di prestazione amministrativa tutte quelle attività che pur rientrando nel concetto di prestazioni non possono essere considerate come esplicazione di un pubblico servizio poiché: “a) difettano del requisito della sistematicità e continuità nel tempo”; “b) mirano solamente al soddisfacimento dei bisogni che sono propri dell’ente pubblico quale soggetto giuridico a sé stante”; “c) rappresentano controprestazione (pecuniaria od in natura) di prestazioni poste in essere da privati nei confronti dell’ente pubblico”; “d) non hanno per fine immediato il soddisfacimento di bisogni individuali di importanza collettiva ma il conseguimento di un utile finanziario”; “e) le prestazioni pecuniarie dell’ente pubblico ai cittadini ancorché periodiche e disposte dal diritto obbiettivo” [17]. Mentre sono comprese nel novero delle prestazioni, sia quelle di beni, a loro volta suddivise fra quelle che hanno ad oggetto il dare e quelle che hanno ad oggetto il diritto d’uso (con il cennato contrasto dottrinario in merito all’uso dei beni demaniali); e quelle di attività suddivise a loro volta in prestazioni di attività materiale, coincidenti con i c.d. servizi pubblici di ordine economico-sociale [18], e prestazioni di attività giuridica.

In quest’ultima categoria si inseriscono le sole “manifestazioni di attività giuridica di enti pubblici le quali abbiano per finalità immediata il soddisfacimento di interessi individuali di importanza collettiva”: essenzialmente l’attività certificatrice degli enti pubblici, sempreché non abbia la finalità di servire un ufficio dello Stato e sempreché sia fine a se stessa e non costituisca accessorio di un’altra attività che rientri in una diversa categoria [19].

            Come si vede può cogliersi grande attualità in questa inclusione dell’attività certificativa fra i pubblici servizi: inclusione che sarebbe verosimilmente contrastata dalla moderna dottrina in materia di servizi pubblici per la difficoltà di coglierne l’immediato significato economico, ma che può avere senso, se non altro in termini di indicazioni, nell’ambito degli studi concernenti l’efficienza della c.d. amministrazione di servizio o di risultato, apparentemente anch’essi in qualche modo influenzati dal diritto comunitario [20]. Ed ha senz’altro un senso dal momento che l’effetto economico, anche indiretto, di questo genere di attività è colto dai criteri applicativi diritto della concorrenza.

L’esclusione [21] delle attività “di servizio” svolte da privati non concessionari delle pubbliche amministrazioni dall’oggetto di studio della teoria delle prestazioni amministrative rese ai privati, come del resto anche altri aspetti sembrano mostrare la lontananza nel tempo delle elaborazioni dottrinali cui si sta facendo riferimento. A seguito dei menzionati fenomeni di privatizzazione degli enti che erogano i servizi e di liberalizzazione dei regimi giuridici degli stessi, infatti, si tende verso un sistema nel quale lo svolgimento di un servizio pubblico da parte di un privato dovrebbe rappresentare se non una regola imposta in termini giuridici, per lo meno il modello che risulta il più efficace dal punto di vista economico. E non si tratta certo di privati destinatari di “concessioni” [22], poiché il regime cui appartengono i provvedimenti concessori, per lo meno nella loro accezione tradizionale, è ritenuto incompatibile con il fenomeno della liberalizzazione. Il connotato di pubblicità del servizio sarà, dunque, fornito o dall’assoggettamento dei rapporti fra ente erogatore del servizio ed ente pubblico preposto alla tutela degli interessi cui il servizio stesso è indirizzato al regime derivante da un “contratto di pubblico servizio” che ne stabilisca gli obblighi; o, per i servizi caratterizzati da una situazione di reale liberalizzazione, dagli oneri “di servizio pubblico” connessi al rilascio dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività od introdotti dall’attività regolativa o di garanzia della concorrenza espletata dalle relative autorità amministrative indipendenti.

            Si può giungere ad affermare che, anche oggi, la pubblicità non derivi dalle caratteristiche intrinseche dell’attività stessa, in senso oggettivo, ma da un “conio” [23] pubblicistico che, se non si sostanzia più nello svolgimento diretto dell’attività da parte degli enti pubblici e neanche nell’avocazione ad essi della titolarità dello stesso per poi “concederne” l’esercizio ai privati, pure agisce tramite la sottoposizione dell’attività in oggetto ad un regime giuridico che consenta, anche se con strumenti nuovi (quali quelli di regolazione), la tutela dell’interesse pubblico che il servizio tende a realizzare [24].

            D’altro canto, a ben guardare, queste conclusioni paiono discendere in parte da un principio presente in nuce anche nelle teoriche che si stanno esaminando laddove si afferma che il carattere pubblico del servizio “deve riflettersi su tutta quanta l’esplicazione dell’attività del concessionario, conferendo carattere pubblicistico anche ai rapporti che vi si riferiscono ed ai quali essa dà luogo, così come si riflette sull’ordinamento interno dell’azienda…sull’organizzazione [e]…sullo svolgimento del servizio” [25].

Il dibattito dottrinario ha prodotto, in seguito, posizioni alquanto critiche sull’utilità del contributo apportato dalla teoria delle prestazioni amministrative allo studio dei servizi pubblici. V’è chi ha ritenuto che essa abbia rivestito un mero valore descrittivo, sostanzialmente rifluendo in altre nozioni ed in particolare nella teoria delle obbligazioni pubbliche [26]: ne conseguirebbe un rinvio alla disciplina civilistica [27], che impedirebbe di cogliere i connotati dell’esercizio di un potere amministrativo all’interno di un rapporto più ampio. Nella ricostruzione dottrinaria, critiche di tale tenore conseguono ad una vera e propria negazione dell’utilità dello studio del rapporto di utenza ai fini dell’analisi del servizio pubblico[28]: si afferma, infatti, che “prima del godimento ricavato in concreto dallo svolgimento del servizio, i cosiddetti interessi individuali non ricevono dall’ordinamento alcuna qualificazione”; anzi, “la stessa loro soddisfazione si attua soltanto nella misura in cui coincide con il realizzarsi di quel diverso interesse, perseguito dal servizio nel suo complesso”, infatti “l’attività amministrativa è diretta al soddisfacimento di interessi propri dell’autore dell’attività stessa e non invece dei suoi destinatari”. Allora, la realizzazione dell’interesse individuale dell’utente “è meramente accidentale e conseguente al fine di interesse pubblico” [29].

Si è ritenuto, altresì, che la molteplicità dei soggetti direttamente o indirettamente interessati osti all’ammissibilità di un “rapporto” fra un’autorità amministrativa ed un privato [30] e che, infine, di fronte al potere dell’amministrazione la situazione soggettiva del privato non possa che assumere la veste dell’interesse legittimo [31].

La riflessione su dette obiezioni, tuttavia, ha portato dottrina più recente ha rivalutare il ruolo assunto dalla teoria delle prestazioni amministrative. In una impostazione [32] che individua i soggetti – il gestore del servizio e l’utente – come uniche costanti nel modello del pubblico servizio di cui costituiscono le parti del “rapporto” e nel suo svolgimento attribuisce ai provvedimenti autoritativi carattere episodico, il “rapporto giuridico” stesso può essere inteso come “una struttura in grado di orientare le varie attività del titolare del servizio, anche quelle di natura pubblicistica e a contenuto discrezionale, subordinandole al fine primario della soddisfazione dell’utente” [33]. Se, tuttavia, il gestore del servizio è titolare di un potere discrezionale, anche se episodicamente esercitato, di fronte all’esercizio unilaterale del potere si potranno configurare di regola solo situazioni di interesse legittimo [34]. Si è osservato che l’una e l’altra situazione soggettiva rivestono, nella specie, significato differente: l’interesse legittimo “ si riferisce al potere nella sua totalità; ne dipende, però, e si presenta come soggezione, oltre che come partecipazione al suo esercizio[35]”; il diritto soggettivo “denota invece l’individuazione di un fine dell’ordinamento” in capo a un soggetto[36]. Si è sostenuto, dunque, che essendo la teoria delle prestazioni amministrative ai privati rivolta a definire la natura del rapporto fra il gestore e l’utente di un servizio e quindi, anche il significato che in tale ambito assume l’eventuale esercizio di poteri amministrativi, riconducendola alla teoria delle obbligazioni pubbliche e assumendo che le prestazioni stesse si svolgano secondo le regole del diritto privato, non si coglie pienamente la loro funzione che è quella di una “limitazione della nozione di servizio pubblico” [37], per considerarne esclusivamente l’incidenza sugli interessi di un determinato soggetto [38].                                                      

2) Funzione pubblica e servizio pubblico.

Può apparire in qualche modo fuorviante il tentativo di individuare i caratteri della differenza fra funzione pubblica[39] e servizio pubblico. Invero la dottrina più autorevole occupandosi del tema del servizio pubblico ha generalmente affrontato come propedeutica la distinzione fra servizio pubblico e funzione pubblica e tradizionalmente tale distinzione prende le mosse dalle definizioni delineate dalla dottrina francese, cui si devono i primi sforzi ricostruttivi della materia, di puissance publique e activité de gestion [40]. Tuttavia si potrebbe affermare che, sotto alcuni punti di vista, nel caso specifico i due termini paiono collocarsi su piani logico-giuridici differenti e quindi non comparabili tra loro.

In questo senso si esprime in particolare chi attribuisce al concetto di servizio pubblico una valenza “orizzontale”, quale “modello più o meno composito di attività amministrativa, distinguibile soprattutto per i connotati organizzativi”, ed alla nozione di funzione pubblica una “valenza verticale” che attiene soprattutto alla tipologia degli strumenti tipici utilizzati nell’ambito del suo svolgimento e cioè gli atti amministrativi che rappresentano esercizio di poteri[41].

Il fenomeno del progressivo mutamento dei contenuti dell’azione amministrativa nel passaggio dallo Stato liberale allo Stato sociale, ha comportato l’affiancamento, in termini sempre più rilevanti, di attività di prestazione di servizi ai cittadini rispetto all’attività amministrativa tipica mediante esercizio di poteri [42], con la finalità di soddisfare esigenze sempre più numerose e differenziate.

Le stesse disposizioni della Costituzione repubblicana possono spesso essere interpretate come incentrate sul concetto di amministrazione “di servizio” [43], peraltro già presente in epoca precedente. In primo luogo è la norma di cui al secondo comma dell’art. 3, canone fondamentale di democrazia sostanziale, che implica una poderosa azione amministrativa per la prestazione e l’organizzazione di tutte quelle attività cui “il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del Paese” sono subordinati: nella pratica sembra trattarsi dei servizi pubblici nella definizione più vasta che comprende anche i servizi sociali. La norma non solo consente, giustifica e legittima l’azione amministrativa volta al raggiungimento dell’eguaglianza di tutti i cittadini, ma la prevede, la rende obbligatoria, anzi precipuo compito della Repubblica. L’obbligo poi si articola, già in sede costituzionale, in azioni specifiche, altrettanto doverose, cui le disposizioni degli articoli 32, 33 comma 2, 34 comma 2, 35, 38, 41, comma 3 e 43, fanno esplicito riferimento.

E’ opinione condivisa infatti, che queste ultime norme fissino fini istituzionali nel perseguimento dei quali la funzione pubblica in senso stretto ed il servizio pubblico si intreccino e si integrino [44]. Le stesse norme di cui agli artt. 97 e 98 Cost., indubbiamente modellate sull’attività ed organizzazione amministrativa di carattere tradizionale (autoritativa, unilaterale e burocratica) [45], sarebbero suscettibili di un’interpretazione che ammetta l’applicabilità della disposizione di apertura dell’art. 97 anche alla prestazione o organizzazione dei servizi pubblici; i criteri del “buon andamento” e dell’“imparzialità” potrebbero considerarsi connaturali anche ad attività che non si estrinsechino nell’esercizio tipico di poteri amministrativi[46].

Sembra possa escludersi un inquadramento del concetto di “attività amministrativa” che faccia riferimento solo all’attività “tipica” dell’amministrazione pubblica, ossia a quella unilaterale o certificativa che si esplica in atti amministrativi [47], e non anche a quella di servizio pubblico, in considerazione della varietà dei fini che, oggi, caratterizza l’amministrazione. La nozione generale di attività amministrativa può dunque essere riferita ad una combinazione di attività sia che esse si sostanzino nell’emanazione di atti amministrativi, sia che si traducano in operazioni o attività materiali e quindi essere definita come “attività pratica” per la cura “in modo immediato” degli interessi pubblici [48].

L’equilibrio fra le attività tradizionalmente iscritte nell’alveo della prima e della seconda nozione può dirsi condizionato in massima parte dal funzionamento di una delle clausole[49] più classiche del diritto amministrativo, che regola il flusso delle sintesi definitorie fra il polo del servizio pubblico e quello della funzione pubblica. all’interno di entrambi possono essere colte ed isolate varie manifestazioni di attività (atti amministrativi, atti di diritto comune, operazioni e prestazioni materiali) ma il primo, in una prospettiva oltremodo influenzata da concetti provenienti dalle scienze economiche e finanziarie, è stato identificato con tutte le attività “erogate” dall’amministrazione anche se non di natura economica ed il secondo è legato ad una concezione lata dei compiti dell’amministrazione nel moderno Stato sociale (il cui scopo non si identifica più con la mera conservazione, bensì anche con il benessere e la promozione dello sviluppo). Entrambe le posizioni, segnatamente quando enunciate in termini radicali, appaiono esprimere il mero dato teleologico dell’azione amministrativa.

Siffatta amplissima nozione di servizio pubblico assume connotati di tipo descrittivo, in special modo quando vi è ricompreso “quel complesso di prestazioni personali rivolte ad uno scopo (che spesso hanno per substrato dei beni materiali, che servono loro di mezzo o di oggetto)…ammenocché non trattasi di prestazioni che siano completamente sottoposte alle norme di diritto privato, e considerate come prestazioni di diritto privato. Così ad esempio, la difesa dei nemici interni, l’amministrazione della giustizia, l’esercizio delle ferrovie, le pubbliche affissioni monopolizzate e municipalizzate in base alla legge del 29 marzo 1903, sono tutti pubblici servizi”[50].

D’altro canto si sono verificati frangenti storici in cui tutti i compiti dell’amministrazione pubblica (e dunque anche la prestazione di servizi) sono stati ricondotti al concetto di funzione amministrativa. Se, tuttavia, il presupposto su cui questa impostazione si fonda - la funzione è l’attività giuridica finalizzata ad uno scopo e quindi nel caso dell’amministrazione pubblica, svolta nell’interesse altrui cioè della collettività - è condivisibile, le conclusioni estremizzanti che se ne traggono appaiono più che altro indirizzate a fugare il timore di un quadro eccessivamente riduttivo dei compiti dell’amministrazione nel moderno Stato sociale. Una nozione così ampia di funzione amministrativa può essere considerata, dunque, un “antidoto”[51] rispetto ad una visione restrittiva delle attività statuali.

V’è da dire che sia la prima che la seconda impostazione possono trovare un riscontro, sebbene indiretto, nel dato testuale normativo. Da un lato, infatti, nella legge 12 giugno 1990, n.146 recante la disciplina dello sciopero nei servizi pubblici essenziali sono annoverate fra questi, accanto ad attività di carattere economico-produttivo, l’amministrazione della giustizia, le dogane e l’istruzione; dall’altro il “trasferimento delle funzioni amministrative” statali inerenti alle materie indicate nell’art. 117 Cost. ai sensi della VIII disp. trans fin., intervenuto con il d.p.r. 24 luglio 1977, n. 616, riguarda contestualmente funzioni autoritative e compiti non autoritativi, sulla scorta di una nozione di “funzione amministrativa” che si identifichi con “il complesso dei compiti necessari per la cura, anche attraverso manifestazioni diverse dall’esercizio di poteri, degli interessi riconducibili ad una determinata materia”[52].

Considerata l’attività amministrativa nel suo complesso, dunque, il polo della funzione pubblica e quello del servizio pubblico appaiono non come nozioni contrapposte ma, come si diceva poc’anzi, come momenti diversi della stessa e tuttavia combinabili tra loro; pertanto è agevole ritrovare posizioni che attirino alternativamente tutte le attività verso il primo od il secondo polo, in accordo con la temperie politico-sociale.

Il servizio pubblico può piuttosto essere definito come modulo “dinamico-organizzativo” di tutti i tipi di manifestazioni delle quali le attività della pubblica amministrazione si compone: atti amministrativi, sottoposti al regime di diritto pubblico, atti di diritto comune o paritetici, che fanno riferimento al regime di diritto privato, nonché operazioni o attività materiali che possono essere ricondotte all’uno o all’altro, a seconda delle caratteristiche che presentano. I vari tipi di attività, tuttavia, possono combinarsi nel modello del servizio secondo gradi e proporzioni diverse a seconda della disciplina legislativa che caratterizza i singoli servizi e che tendenzialmente va dismettendo le attività di diritto pubblico a favore di una regolamentazione sempre più improntata a modelli privatistici e di mercato. Appare opportuno, pertanto, stabilire un criterio minimo in base al quale distinguere l’attività di servizio pubblico da quelle di natura diversa.

La pubblicità del momento organizzativo è stata ritenuta in dottrina[53] identificabile con tale criterio minimo: la funzione amministrativa, dunque, può inerire al servizio pubblico anche solo nel momento della relativa predisposizione, dell’istituzione (quando non avviene con legge) e della inerente organizzazione, anche rimanendo estraneo al momento della prestazione. Quando manchi anche questa minima connotazione pubblicistica si sarà di fronte non ad un servizio pubblico ma ad un’attività privatistica dell’amministrazione pubblica (segnatamente ad una attività economica).

La pubblicità del servizio era stata identificata da autorevole dottrina nella “strumentalità od accessorietà istituzionale nei confronti di una funzione pubblica”: la strumentalità, tuttavia, viene qui considerata in riferimento ad un’attività globalmente considerata e non a singole fattispecie soggettive, che, in virtù del fenomeno dell’attrazione conseguente alla connessione che fattispecie pubbliche, acquisterebbero a loro volta il carattere di pubblica funzione[54]. Altra aveva individuato il concetto di pubblico servizio nell’idea di una pubblica amministrazione, o meglio di uno Stato, che “cura in modo concreto (amministra)” gli interessi della collettività senza far uso dei poteri che gli permettono di comprimere o limitare la sfera di libertà dei cittadini[55]. In alcune elaborazioni dottrinarie sul tema ancor più risalenti si ritrovano posizioni alla stregua delle quali il criterio che permette di distinguere il servizio pubblico dalla pubblica funzione è rappresentato dalla natura dell’attività prestata, conformandosi come attività sociale dello Stato quella del servizio pubblico che ha lo scopo di “giovare ai singoli nella loro vita fisica, economica, intellettuale” e come attività che risponde ai fini giuridici (giustizia e sicurezza) dello Stato quella delle funzioni pubbliche in senso stretto[56]; ed ancora: per la menzionata dottrina la differenza risiederebbe nel fatto che l’attività dello Stato che si riferisce alla pubblica funzione consisterebbe nell’esercizio di un potere mentre quella di servizio pubblico si esplicherebbe nel dare soddisfacimento ad interessi privati, “vale a dire nel rendere prestazioni e servizi”[57].

Tuttavia, queste definizioni di natura descrittiva non sembrano confliggere con la ipotesi che vi sia compresenza, nel servizio pubblico, di attività appartenenti a modelli differenti di azione amministrativa, fra cui quello legato alla funzione pubblica. Esse sembrano solamente focalizzarsi su aspetti diversi delle nozioni in esame, e cioè sulla loro finalità, sul tipo di strumentalità che le caratterizza e rispetto a quali scopi dello Stato. Ma questo non esclude che, da un altro punto di vista, si possa riflettere sulla circostanza che “l’imperio, che è proprio della funzione, non può stemperarsi in un’attività, ma è meglio rappresentato da un atto solitario pieno di efficacia”, e che dunque “non abbiamo mai avuto un servizio pubblico che non fosse allo stesso tempo almeno in parte funzione”[58]

 

Allo scopo di differenziare i concetti di funzione pubblica e servizio pubblico concorrono anche le nozioni penalistiche cui essi si riferiscono. Ed anche se il nuovo art. 358 c.p., successivo alla riforma del 1990, enuncia una definizione specifica espressamente prevista “agli effetti della legge penale”, è opinione diffusa che il settore penalistico e quello amministrativo della disciplina non possano ritenersi “reciprocamente impermeabili”[59].

E’ stato rilevato, dunque, che il nuovo art. 357 c.p. individua la funzione amministrativa sulla base del criterio costituito dal tipo di disciplina a cui la medesima risulta assoggettata. La funzione sarebbe “rappresentata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi”: termini di un’endiadi la cui ricorrenza porta ad escludere tutte le ipotesi in cui la funzione venga esercitata in regime di diritto privato, chiarendo in particolare la formula legislativa come sia insufficiente che l’attività di privati risulti subordinata ad atti permissivi o a controlli, per essere sussunta sotto la menzionata nozione. La nozione di funzione pubblica che quindi emerge dalla norma sembra assumere connotati oggettivistici nel senso che “quello che conta è l’effettivo esercizio della mansione pubblicistica”; laddove, tuttavia, la riferibilità della mansione all’amministrazione costituisce un presupposto essenziale della funzione pubblica: è da eslcudersi che la connotazione oggettiva dell’attività “possa prescindere dalla riconducibilità ad una figura soggettiva pubblica”.

In una norma contenuta nello stesso art. 357, poi, sono fissati i confini tra la funzione pubblica in senso stretto ed il servizio pubblico, con riferimento ai criteri della formazione della manifestazione della volontà della pubblica amministrazione, l’esercizio di poteri amministrativi ovvero certificativi. Riguardo alla manifestazione della volontà della p.a. può cogliersi nello stesso dato testuale il riferimento soggettivo, ed anzi esso evidenzierebbe “la rilevanza qualificatoria della figura soggettiva in quanto tale”; lo stesso vale, implicitamente, anche per i poteri autoritativi e certificativi che sono tipici dell’amministrazione pubblica e vengono attribuiti ai privati solo quando esercenti un’attività o mansione di cui l’amministrazione resti titolare. Sembra potersi affermare, dunque, che le definizioni si susseguano secondo uno schema paragonabile ad una serie di cerchi concentrici: all’interno del primo insieme che rappresenta tutte le funzioni svolte dalla p. a., ve n’è uno inferiore che individua quelle “pubbliche” sulla base del loro manifestarsi tramite attività autoritative; l’area di quest’ultimo cerchio si divide, a sua volta, in attività svolte dal “pubblico ufficiale” e caratterizzate dalla circostanza che il soggetto contribuisca alla formazione e manifestazione della volontà dell’amministrazione ovvero eserciti poteri certificativi o autoritativi, e…tutte le altre che, di conseguenza, dovrebbero essere considerate di servizio pubblico. Questo tipo di suddivisione sembrerebbe cozzare con la posizione illustrata supra, secondo la quale il servizio pubblico è da considerarsi un modello organizzativo che partecipa anche di manifestazioni della funzione pubblica, ma che non si pone sullo stesso piano essendo piuttosto definibile in senso “trasversale” rispetto alle sue manifestazioni, così come agli atti di diritto privato ed alle operazioni materiali di cui si compone. Tuttavia rileva, in questa sede, la circostanza che la stessa condizione prescritta dalla legge penale per l’individuazione della pubblica funzione, e cioè l’inserimento dei compiti propri del singolo nell’ambito di un’attività amministrativa sottoposta ad una disciplina pubblicistica, senza però i poteri tipici del pubblico ufficiale, valga per l’attribuzione della qualità di incaricato di pubblico servizio. E se non ha più rilevanza l’elemento teleologico (l’obiettivo del conseguimento di finalità pubbliche) – al quale la definizione di pubblico servizio preferita dal legislatore del 1990 non fa alcun riferimento – non basta però che l’attività economica in esame sia indirizzata da programmi e controlli a fini sociali, essendo invece necessario il diretto riferimento all’organizzazione amministrativa e la “connotazione globalmente pubblicistica dell’attività costituente servizio pubblico”. Per quanto riguarda, invece, gli aspetti per i quali la differenziazione fra funzione pubblica e servizio pubblico in ambito penalistico sembra discostarsi da quella tratteggiata prima, “deve ribadirsi che la nuova definizione contenuta nell’art. 358 c. p. rafforza l’autonomia del concetto penalistico di servizio pubblico in senso oggettivo rispetto a quello analogo elaborato da un settore della dottrina amministrativistica” [60].

3) I compiti dell’amministrazione pubblica e la privatizzazione.

Tratteggiare il quadro di fondo nel quale si svolgono i cambiamenti che si tenta di analizzare in questa sede, non è semplice. Un esame esaustivo delle tendenze e dei percorsi che hanno portato l’azione dell’amministrazione, nelle diverse forme nelle quali essa si manifesta, e la regolazione del mercato a muoversi su di un piano comune tanto da permettere in alcuni casi la sovrapposizione della seconda ai primi, richiederebbe approfondimenti di natura storica, economica, sociale e politica, oltre che in campo giuridico, cui non si può dar spazio in una trattazione come la presente.

            Ci si limiterà, allora, ad alcune riflessioni generali che hanno trovato e troveranno approfondimenti più specifici nell’analisi delle singole tematiche affrontate ed in relazione ad esse.

            Al centro dello studio della mutazione dei compiti statali a seguito dei processi detti, in senso lato, di privatizzazione sembra esserci “la flessione del peso della sovranità statale”[61]. Il fenomeno appare come un punto di snodo fondamentale nei processi di mutamento in corso poiché ha rappresentato un punto di partenza, nell’accezione in cui si identifica con l’adesione dell’Italia alla Comunità prima e poi all’Unione europea, ma rappresenta anche un punto di arrivo delle spinte comunitarie che conducono a situazioni di prevalenza delle ragioni dell’economia rispetto a quelle della politica. Dai fenomeni di cessione di sovranità si fanno discendere tutti gli altri effetti che a loro volta, con un moto spiraliforme, girano intorno alla causa tornando e ritornando sui sentieri già percorsi. Ci si imbatte, in questo modo, nella riduzione di efficacia dei meccanismi di legalità cui oggi viene attribuito un nuovo significato di legalità “costituzionale” – poiché consistente nell’osservanza dei principi costituzionali ai quali la legge che è alla base della legalità deve essere armonizzata – sulla quale non può più basarsi il “mondo dell’assolutismo legislativo”: si tratta infatti di una legalità sostanziale, come tale adattabile al mutamento dei bisogni sociali e non più in grado di giustificare “il predominio delle legge e delle istituzioni sulla società e sui singoli”[62].

            Ad un forte arretramento della sovranità corrisponde il fenomeno delle privatizzazioni. L’espressione ha assunto una serie di significati ad è stata utilizzata in campi anche affatto differenti: dalla privatizzazione del pubblico impiego a quella delle imprese pubbliche, attraverso la “formale” trasformazione in società per azioni e la “sostanziale” – ma spesso solo programmata – dismissione delle partecipazioni da parte del Ministero del Tesoro; dalla privatizzazione delle banche pubbliche, e la contestuale riemersione – ma con caratteri di grande ambiguità – dell’istituto della fondazione, alla privatizzazione dell’organizzazione dei compiti di interesse sociale con la fioritura degli enti no profit del c.d. terzo settore, alla privatizzazione della gestione dei servizi pubblici locali con la creazione delle società miste[63].

            Ebbene è opinione diffusa che tali fenomeni di privatizzazione siano, più o meno direttamente, conseguenti alla diffusione dei criteri normativi contenuti nei Trattati, nei regolamenti e nelle direttive dell’Unione europea. Tuttavia, almeno in linea teorica, nel Trattato istitutivo è annunciata espressamente la “neutralità” della Comunità nei confronti dei regimi di proprietà vigenti negli Stati membri (art. 295). Non vi è dunque imposta la trasformazione delle imprese pubbliche in società per azioni e la loro dismissione; né tantomeno è reso obbligatorio il passaggio dal regime del pubblico impiego alla legislazione privatistica del lavoro e neppure la riforma delle pubbliche amministrazioni nel senso dell’adozione di modelli consensuali con i privati o, forse più significativamente, della riorganizzazione e della semplificazione finalizzate al raggiungimento di parametri di efficienza, economicità ed efficacia che trovano riscontro anche nei nuovi moduli di controllo esterno ed interno[64].

Le descritte trasformazioni sono state, dunque, effetti indiretti di un altro fenomeno di derivazione, invece, diretta dalla normativa europea: la liberalizzazione cioè l’apertura del mercato per tutti gli operatori economici, da un lato, e l’apertura dei mercati europei fra di loro. Il fenomeno ha portato in primo luogo alla “concorrenza fra sistemi”, che è conseguenza della libertà di movimento assicurata a tutti i fattori produttivi.

            E’ stato rilevato, infatti, che se si prende in considerazione un insieme di strumenti tipici di intervento pubblico nell’economia, al fine di verificare il grado di effettività che conservano nel sistema odierno[65], la gran parte di essi risulterà direttamente superata laddove sia disciplinata da normative comunitarie con efficacia diretta all’interno degli Stati membri. Si tratta, ad esempio degli aiuti ed incentivi alle imprese, di regola vietati dal Trattato[66]; del potere di determinare in maniera autonoma ed autoritaria il tasso di cambio ed il tasso di sconto che è definitivamente ceduto dalle banche nazionali alla Banca centrale europea. Per quanto riguarda le imprese pubbliche e le partecipazioni statali, pur non essendovi l’obbligo di dismissione, è eliminata, per via degli obblighi di trasparenza contabile, ogni possibilità di avvalersene per finalità che siano diverse da quelle connesse alla loro mera capacità di operare in un regime di concorrenza; la disciplina amministrativa dei prezzi, formalmente intatta, non può esser tale da pregiudicare il libero movimento delle merci da e verso gli altri Paesi membri.

Per i compiti che restano - in primo luogo la fiscalità non ancora armonizzata e poi le discipline previdenziali ed assicurative, i trattamenti sanitari ecc. - le decisioni sono fortemente condizionate: se fossero stabilite in via autoritativa condizioni meno favorevoli di quelle vigenti in altri Paesi membri, le singole componenti dei processi economici che non è più dato trattenere nel territorio, si trasferirebbero altrove. E se questa massiccia emigrazione è meno probabile per fattori produttivi più statici come la forza lavoro, è estremamente rapida per le merci che hanno “carattere volatile” come le monete, i capitali ed i titoli che li rappresentano.

            La conseguenza ritenuta più “spettacolare”[67] è rappresentata dalla inversione del rapporto tra la dimensione della organizzazione pubblica e l’economia. In un sistema chiuso, infatti, l’organizzazione pubblica costituisce il frutto di decisioni volte al perseguimento di finalità pubbliche ed aventi carattere politico: la politica è destinata a condizionare l’economia. Viceversa in un sistema aperto, come quello derivante dalla partecipazione dell’Italia all’Unione europea, sono le esigenze imposte dalla concorrenza fra sistemi, e quindi la necessità dello Stato di procurarsi “crediti”, a riflettersi sul piano istituzionale, condizionando la dimensione e la qualità dell’organizzazione pubblica. Ridurre la spesa pubblica per aumentare la competitività del “sistema-paese” può sembrare un controsenso, visto il ruolo di catalizzatore dello sviluppo che l’amministrazione potrebbe svolgere, ma è un imperativo; cui consegue il ridimensionamento dell’organizzazione ed ineluttabilmente il ridimensionamento dei compiti.

             Sullo sfondo del confronto fra lo Stato liberale e lo Stato sociale, fra l’economia e la politica, fra la libertà (di mercato) e la direzione politica della vita collettiva, sembra farsi strada il superamento della dicotomia pubblico-privato. Sembrano “affiorare figure giuridiche generali o universali, dotate di tale capienza da ridurre o sottomettere i fondamenti dell’antica divisione basata su una sorta di duplice legalità: l’una diretta al mondo dei privati e l’altra diretta a creare poteri per sottomettere le libertà dei privati ai poteri delle autorità pubbliche” [68].

Nel contesto così delineato, il servizio pubblico, sorto come “prolungarsi della mano pubblica” nella creazione e distribuzione di beni e servizi da parte di soggetti ed organi tradizionalmente partecipi della funzione pubblica e quindi come strumento per la realizzazione di un “bene comune” imposto dalla politica, si stacca da questo tipo di organizzazione per via dell’attrazione dell’economia. Non dipende più da una decisione del governo politico ma è frutto “del coagularsi di bisogni ed interessi sociali”. Di conseguenza alla privatizzazione viene attribuito un significato che va oltre la mera adozione di forme privatistiche e che si traduce nell’effetto sostanziale del collegamento del servizio con la società; le zone di influenza diretta dei soggetti dell’organizzazione pubblica si riducono e si ripropongono con una nuova funzionalità: quella di garantire che ogni servizio sfrutti il potenziale sociale di cui è capace, che lo spontaneo organizzarsi della società assuma una apparenza giuridicamente apprezzabile e che obbedisca ad un principio di razionalità dei comportamenti sociali. Ne deriva una esigenza di normazione che ancora prende corpo prevalentemente attraverso l’attività degli organi politici e delle autorità di regolazione ma che è improntata a favorire l’emersione delle esigenze collettive piuttosto che a realizzare fini dirigistici e programmatori imposti dalla politica [69].

4) Servizio pubblico e capacità generale di diritto privato dell’amministrazione.

Difficilmente potrebbero risultare funzionali al quadro che si sta cercando di tracciare, quelle ricostruzioni dottrinali che delineano il concetto di servizio pubblico come residuale rispetto a quello di funzione pubblica[70]. La non condivisibilità di queste tesi è originata da molteplici cause, alcune delle quali si è cercato di esporre nel corso dell’analisi della distinzione fra servizio pubblico e funzione pubblica. Altre derivano, forse in maniera più agevolmente percepibile, dalla compresenza nell’area segnata de residuo, di modelli di attività che presentano numerosi elementi di differenza: i servizi pubblici e le attività di diritto comune dell’amministrazione (di natura economico-imprenditoriale).

Sia per i fautori della teoria “oggettiva” del servizio pubblico che per chi propugna una rilettura della nozione soggettiva, la prestazione oggetto di servizio pubblico si differenzia dall’attività dell’amministrazione di rilievo economico. Nelle teoriche del primo gruppo, il servizio pubblico può essere reso sia dalle imprese private che, nei casi di market failure [71], da quelle pubbliche e l’elemento che lo distingue rispetto all’attività di mero rilievo economico della p.a. è rappresentato dal fatto che esso persegue fini sociali [72]. Non diversamente nelle concezioni soggettiviste la distinzione è colta nella rilevanza del diverso fine (pubblico nel caso dell’attività economica, sociale in quello del servizio) e nell’immediatezza del suo perseguimento [73].

Appare di grande interesse a questo proposito l’esempio recente delle società di facility management (gestione e manutenzione degli edifici pubblici e dei loro impianti) costituite da alcune amministrazioni per la gestione delle proprie strutture, con l’intenzione, certo, di perseguire l’interesse pubblico in una forma nella specie più vantaggiosa ed efficiente, cioè quella imprenditoriale, ma che nell’opinione della dottrina[74], non presenta alcun addentellato con le attività di servizio pubblico. La questione si è posta in termini problematici poiché la quinta Sezione del Consiglio di Stato[75], nell’esprimersi sulla legittimità dell’attribuzione con affidamento diretto, ad una società costituita dall’amministrazione, dell’attività di gestione delle proprie strutture, ha invece ritenuto che il facility management costituisca un servizio pubblico poiché “servente al soddisfacimento di altri fini pubblici inerenti allo sviluppo ed alla promozione sociale della comunità”. Detta classificazione è avvenuta sulla base di una definizione di servizio pubblico locale (nella quale sorprendentemente è superata la consueta riottosità del Consiglio di Stato a prendere posizione su questioni definitorie) che lo individua in “qualsiasi attività che si concretizzi nella produzione di beni o servizi in funzione di un’utilità per la comunità locale, non solo in termini economici ma anche in termini di promozione sociale”. Nell’interpretazione della dottrina ricordata, una nozione cosi vasta di servizio pubblico[76] può essere stata conseguenza di un atteggiamento che abbia reso il Collegio in qualche modo restìo ad ammettere largamente la capacità di diritto privato dell’amministrazione. In detta giurisprudenza, il Consiglio sembra cercare una base giuridica sulla quale fondare la legittimità della fattispecie, anche a costo di estendere, oltre il limite segnato dalla lettera stessa delle norme, l’ambito di applicazione della disciplina contenuta negli artt. 113 e seguenti del Testo unico sugli enti locali, e riguardante la partecipazione al capitale sociale di imprese di servizio pubblico da parte di un ente locale[77].

Nelle ricordate sentenze del 2001, il Consiglio sembra cercare una base giuridica sulla quale fondare la legittimità della fattispecie, anche al costo di estendere, oltre il limite segnato dalla lettera stessa delle norme, l’ambito di applicazione della disciplina contenuta negli artt. 113 e seguenti del testo unico sugli enti locali e riguardante la partecipazione al capitale sociale di imprese di servizio pubblico da parte di un ente locale. Sul profilo della protezione della concorrenza, tuttavia, l’argomentazione del Consiglio di Stato (sez. V, 9 maggio 2001, n.2605) appare più lineare: l’affidamento diretto è considerato legittimo alla luce della giurisprudenza dalla Corte di Giustizia[78] in base alla quale va escluso l’obbligo di gara per l’affidamento del servizio ad una società sulla quale l’ente locale eserciti “un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi”. Un passo indietro, a tal proposito, può forse essere letto nella decisione più recente su tema analogo (C.d.S., sez. V, 10 marzo 2003, n.1289). Sebbene la fattispecie venga considerata in parte differente rispetto a quella oggetto delle sentenze ricordate, la decisione si segnala per aver fissato un limite alla estensibilità della nozione di pubblico servizio che appariva potenzialmente vastissima nella definizione tratteggiata nei casi precedenti[79]. Per applicare la norma di cui all’art. 22 della legge n. 142 del 1990 (riproposta nel successivo art. 112 del D.P.R. n. 267/2000) - secondo cui gli Enti locali possono provvedere direttamente alla gestione dei "servizi pubblici" (anche tramite proprie aziende speciali), servizi pubblici che abbiano per oggetto produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali - non è stata considerata sufficiente “la semplice riconducibilità del servizio ad un ente pubblico, occorrendo invece che il servizio abbia una sua (soggettiva ed) oggettiva qualificazione che deve garantire (anche alla prestazione economica) una realizzazione di prevalenti fini sociali e di promozione dello sviluppo economico e civile delle relative comunità, realizzazione che certo non può essere riferita ad una mera prestazione economica svolta a favore di un Comune”[80]. L’indirizzo appare peraltro confermato di recente dalla sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, 18/9/2003 n. 5316, nella quale si afferma che il servizio calore non è un servizio pubblico locale, bensì un appalto misto di servizi e forniture che può essere affidato direttamente ad un soggetto "strumentale" dell'ente locale [81].

Tuttavia la capacità di diritto privato dell’amministrazione è unanimemente[82] considerata “generale” e, di conseguenza, le menzionate disposizioni in tema di partecipazione degli enti locali al capitale di imprese incaricate della gestione di servizi pubblici sono state lette come limitative della “generale” possibilità delle amministrazioni di sottoscrivere azioni di società di capitali [83].

Dall’ordinamento si deduce, però, una relazione inversa: in via generale un’amministrazione può svolgere un’attività di rilievo economico anche tramite la sottoscrizione del capitale di una società, purché sussista un pubblico interesse anche se indirettamente perseguito; ma nel caso specifico che la società svolga servizi pubblici, la partecipazione dell’amministrazione sarà sottoposta a particolari vincoli che rappresentano il contrappeso dei fini sociali tipici dell’attività di pubblico servizio [84].

La distinzione fra servizio pubblico e attività di diritto privato della p.a. è stata prospettata, infatti, in relazione alla circostanza che i servizi pubblici devono normalmente svolgersi in forme organizzative tipizzate, ferma la possibilità che (a seconda della disciplina legislativa) la relativa prestazione amministrativa sia resa ai privati con modalità non autoritative e cioè di diritto comune. Diversamente, le attività economiche dell’amministrazione risultano caratterizzate dal fatto che possono essere gestite in forme libere di diritto comune, fra quelle consentite dall’ordinamento e compatibili con il carattere di persona giuridica pubblica e con il regime cui è sottoposta l’amministrazione che intende porle in essere [85].


PARTE SECONDA: Ambiti di sovrapposizione fra regole a tutela della concorrenza ed attività amministrativa: 1) la disciplina della concorrenza come limite generale alle prestazioni delle pubbliche amministrazioni; 2) profilo generale dell’oggetto del diritto della concorrenza; 3) l’azione amministrativa ed i suoi effetti di natura economica al vaglio delle norme di tutela del mercato: 3.1) l’organismo di diritto pubblico e le implicazioni nella nuova disciplina dei servizi pubblici locali; 3.2) la vicenda delle golden shares 3.3) “police administrative” e diritto della concorrenza; 3.4) condotte di impresa riconducibili a misure pubbliche e tutela della concorrenza: la questione delle tariffe; 3.5) disciplina di fiere e mercati; 3.6) la nozione comunitaria delle attività che “partecipano…all’esercizio di pubblici poteri”.

1) La disciplina della concorrenza come limite generale alle prestazioni delle pubbliche amministrazioni.

E’ alla regola del caso concreto che, per parte della dottrina di diritto comunitario, bisogna fare riferimento per verificare se la concorrenza sia più uno strumento del mercato e vada utilizzata principalmente in funzione del mantenimento e consolidamento del suo assetto unitario, come sembrerebbe indurre a ritenere il tenore letterale delle norme di cui agli artt. 2 e 3 del Trattato, o piuttosto un obiettivo autonomo, meglio ancora assoluto[86]. Quel che si dà per certo sono, invece, i presupposti di quel “regime inteso a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato interno” di cui tratta la norma contenuta nella lett. g dell’art. 3. Esso, infatti, da un lato “implica l’esistenza sul mercato di una concorrenza efficace (workable competition [87]), dall’altro appare finalizzato alla “creazione di un mercato unico che offra condizioni analoghe a quelle di un mercato interno” [88], visto come locus nel quale gli imprenditori possano competere tra loro ad armi pari e sulla base delle rispettive capacità e possibilità ed i consumatori possano scegliere i prodotti ed i servizi che ritengano migliori e dove siano più convenienti [89].

La stessa giurisprudenza comunitaria ha tuttavia teso a chiarire che, pur essendo il sistema comunitario sostanzialmente improntato ai valori c.d. liberali dell’economia di mercato [90], la tutela della concorrenza (in particolare artt. 3, 81-82 e 86-89 del Trattato) non rimane isolata rispetto ad altri valori espressi dal Trattato e rispetto alle politiche comunitarie complessivamente considerate, fra le quali ad es. la politica di coesione sociale, di ricerca e sviluppo e quella ambientale trovano collocazione di non poco rilievo [91].

A livello di tecnica legislativa di base, la dottrina solitamente individua due modelli attraverso i quali possono essere perseguite le restrizioni alla concorrenza: secondo il modello dell’“abuso” o del “controllo” ogni restrizione concorrenziale è considerata lecita finchè un intervento dell’autorità competente non ne dichiari l’illiceità; appartengono invece al secondo tipo quelle legislazioni che vietano in via di principio ogni restrizione, salva una pronuncia di ammissibilità emessa da un organo amministrativo o giudiziario (modello del “divieto”) [92]. Mentre nel sistema statunitense, introdotto dallo Sherman act alla fine del diciannovesimo secolo, è considerato senz’altro illecito “ogni contratto, collusione nella forma del trust, o cospirazione, restrittivi del commercio fra Stati o con nazioni estere”[93], il sistema comunitario è stato definito un “ibrido” [94]. Mentre la norma contenuta nella parte iniziale dell’art. 81 sembra suggerire una propensione per il divieto assoluto di tutte le intese o pratiche concordate, il meccanismo “ammortizzatore” contenuto nel par. 3 elargisce esenzioni individuali o per categoria [95].

Se, tuttavia, la formulazione infelice della norma fondamentale della disciplina antitrust comunitaria può avere come conseguenza la difficoltà di riscontrare le effettive contiguità fra l’esperienza americana e quella comunitaria, il rapporto di derivazione da quest’ultima della disciplina italiana è patente e messo in luce da convergenze anche di natura testuale. Nella legge 10 ottobre 1990, n. 287, è espressamente previsto, all’art. 1, comma 4, l’obbligo di includere fra i principi interpretativi propri della legge italiana quelli formulati in sede comunitaria in materia di disciplina della concorrenza; la legge nazionale, dunque, si incardina “automaticamente nel sistema di norme preordinate alla realizzazione dell’integrazione europea di cui l’unificazione dei mercati costituisce un ineludibile passaggio”[96].

La delimitazione in “negativo” dell’ambito di applicazione della disciplina nazionale rispetto a quella comunitaria, secondo cui ricadono nel primo esclusivamente gli accordi i cui effetti anticoncorrenziali si esauriscono “all’interno del mercato nazionale o di una sua parte rilevante” (art. 2, comma 2, legge n. 287/1990), non deve trarre in inganno circa la natura del criterio di ripartizione. Le corrispondenti norme comunitarie contenute negli articoli 81 ed 82 del Trattato, infatti, prevedono il “pregiudizio al commercio fra gli Stati membri” come uno degli elementi costituenti la fattispecie di distorsione della concorrenza cui la disciplina comunitaria può trovare applicazione. Una specificazione settoriale del generale principio di sussidiarietà, si può forse affermare, la cui clausola [97] pare ultimamente “aprirsi” nel senso di un’accentuata tendenza ad allegerire il carico di lavoro della Commissione mediante il decentramento dei processi decisionali, attuato affidando in misura crescente l’applicazione degli articoli 81 ed 82 alle autorità nazionali (cfr. in particolare il tenore del regolamento n. 1214 del 1999, che ha modificato il precedente reg. n. 17/1962) [98].

L’azione della Comunità a tutela della concorrenza (e quindi anche quella dei competenti organi italiani), si è sviluppata in più direzioni e con strumenti sia diretti che indiretti.

In primo luogo essa ha riguardato i comportamenti delle imprese che, attraverso intese, vanifichino l’effetto della libera contrattazione di mercato ed influiscano sui risultati determinati esclusivamente dalla capacità imprenditoriale di ciascun operatore economico sul mercato rilevante. Inoltre il controllo è stato esercitato al fine di evitare la concentrazione di potere economico e commerciale che potenzialmente produca analoghe conseguenze così come le posizioni di privilegio derivanti ad alcune imprese da politiche di intervento pubblico che, favorendo determinate imprese e produzioni, finiscano per avere conseguenze anticoncorrenziali.

Anche se le disposizioni di cui agli artt. 81 ed 82 del Trattato riguardano le imprese, e dunque non comprendono, in via di principio, le legislazioni nazionali che investono l’esercizio di attività economiche, la giurisprudenza comunitaria si è occupata di normative nazionali che, nel regolare l’esercizio di attività economiche o la prestazione di servizi, producano effetti tali da modificare le condizioni di concorrenza tra le imprese[99]. Gli esiti di tale analisi si presentano come contrastanti[100] in qualche modo, fino al momento in cui il giudice comunitario ha fondato l’obbligo per gli Stati membri di non adottare o mantenere in vigore misure, anche di natura legislativa o regolamentare, che possano rendere inefficaci nella pratica le regole di concorrenza applicabili alle imprese, sulle norme derivanti dalla lettura congiunta degli artt. 3, lett. g), 10 ed 81. Nel dovere generale di collaborazione tra Stati membri e Comunità, sancito dalla norma di cui all’art. 10[101] del Trattato, la Corte ha individuato il divieto posto agli Stati membri di adottare misure che possano ridurre o pregiudicare l’efficacia delle norme comunitarie sulle concorrenza applicabili alle imprese; all’obbligo di astensione, tuttavia, fa da pendent la dichiarazione di principio contenuta nell’art. 3, lett. g), secondo cui l’azione della Comunità, alle condizioni e secondo quello che, con felice espressione di stampo comunitaristico, viene definito il “ritmo” previsti dal Trattato, comporta un regime improntato alla libera concorrenza[102]. I presupposti perché una legislazione nazionale possa dunque essere considerata fonte di violazione delle norme di cui agli artt. 3, lett g), 10 e 81, sono identificati dalla giurisprudenza comunitaria, nell’esistenza di un accordo, quindi di una condotta delle imprese, oltre che di una misura statale che ne “imponga” o agevoli la conclusione ovvero ne imponga l’osservanza o ne estenda o rafforzi gli effetti. Ma la Corte si spinge anche oltre e censura tutti i provvedimenti pubblici che abbiano come effetto di consentire alle imprese di mettere in atto comportamenti distorsivi della concorrenza: non solo quindi quelli che riguardino gli accordi, ma anche quelli che prevedano l’attribuzione da parte dei poteri pubblici di diritti esclusivi che portino l’impresa a violare la norma di cui all’art 82 del Trattato, letto congiuntamente all’art. 86, che censura l’abuso di posizione dominante [103] nonché le misure che abbiano come effetto di privare del carattere pubblico una normativa, attribuendo a privati la responsabilità di adottare decisioni di intervento in materia economica [104].

A questo punto si potrebbe sottolineare che il Trattato, da un lato ai sensi dell’art. 295, “lascia del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri” (quindi è teoricamente neutrale rispetto alla titolarità pubblica o privata delle imprese), dall’altro vieta la concessione di aiuti di Stato (artt. da 86 a 89) sia alle imprese private che a quelle pubbliche. L’intervento pubblico nell’economia quindi non è precluso per se , ma solo in quanto e nella misura in cui si traduca in o determini una violazione delle norme del Trattato. L’ipotesi in cui lo Stato condizioni indirettamente l’assetto del mercato attribuendo espressamente ad una impresa (pubblica o privata) dei diritti speciali od esclusivi è disciplinata dalle norme di cui all’art. 86. Dalle norme, cioè, contenute nei tre commi dello stesso articolo che se è vero che censurano comportamenti degli Stati che sortiscano effetti discriminanti sul mercato a favore di imprese pubbliche o beneficiarie di diritti esclusivi, ammettono tuttavia una deroga nei confronti delle imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale, attribuendo le competenze per il controllo su dette fattispecie alla Commissione. In questa sede si vuole rimarcare che lo scopo della sottrazione, operata dalle norme di cui all’art.86 del Trattato, delle attività di servizio pubblico dall’ambito applicativo delle regole di concorrenza - ivi comprese quelle riguardanti gli aiuti di Stato – nei limiti in cui essa impedisca di realizzare tali fini sempreché lo sviluppo degli scambi non ne risulti compromesso in misura contraria agli interessi della Comunità – risiede nel tentativo di conciliare la tutela della concorrenza con le scelte di politica economica e sociale degli Stati membri, perseguite, appunto, attraverso l’attribuzione a talune imprese del compito di assicurare dei servizi di interesse economico generale.

Da ultimo è doveroso fare un cenno alle disposizioni riguardanti gli aiuti di Stato, preordinate anch’esse alla realizzazione di un regime di concorrenza non falsata, nella misura in cui sono dirette ad evitare che il sostegno finanziario pubblico conduca ad alterare “il litisconsorzio necessario” con cui il mercato concorrenziale è paragonabile, tra le imprese all’interno del mercato comune.

La disciplina degli aiuti di Stato [105], fondata sul principio che gli aiuti pubblici alle imprese sono incompatibili con il mercato comune a meno che non vengano dichiarati compatibili a seguito della procedura di autorizzazione da parte della Commissione cui debbono essere obbligatoriamente e preventivamente sottoposti, per decenni si è fondata sulle scarne regole contenute negli artt. 87, 88 ed 89 del Trattato. Il divieto generale previsto nel primo comma dell’art. 87, nonché le ipotesi di deroghe, applicabili ipso iure o in forza di una valutazione discrezionale della Commissione; la disciplina della procedura di controllo degli aiuti nuovi nonché quella di controllo permanente sugli aiuti esistenti contenute nell’art. 88; la prefigurazione, nell’art. 89, del potere del Consiglio di fissare con regolamento le condizioni per l’applicazione dell’art. 88, nonché le categorie di aiuti che possono essere dichiarati compatibili; queste norme, la giurisprudenza applicativa e gli atti di c.d. soft law emanati dalla Commissione di incerta valenza giuridica ma pure destinati a dettare una puntuale e pervasiva disciplina della materia, hanno rappresentato, fino alla fine degli anni novanta, gli unici limiti al potere discrezionale della Commissione nella sua attività di controllo sugli aiuti. La “correzione di rotta”, auspicata dalla dottrina[106] e, si può forse affermare, resa improcrastinabile dalle modifiche indirizzate ad innalzare il grado di “democraticità” dell’ordinamento comunitario introdotte dai Trattati di Maastricht e di Amsterdam, è intervenuta a seguito dell’esercizio della competenza attribuita nell’art. 89 al Consiglio, che riconduce la produzione della normativa di dettaglio all’interno di un più appropriato quadro istituzionale, e dunque all’emanazione del regolamento n. 994 del 7 maggio 1998 (sull’applicazione delle norme contenute negli artt. 87 ed 88 a determinate categorie di aiuti di Stato orizzontali) e del regolamento n. 659 del 22 marzo 1999, recante modalità di applicazione dell’art. 88 del Trattato, ovvero di disciplina della procedura di controllo.

Il dibattito intorno alla natura o meno di aiuto di Stato del finanziamento di tali servizi si è fatto particolarmente acceso in seguito alla sentenza Ferring [107], in cui la Corte di Giustizia, aprendo una breccia nella precedente giurisprudenza del Tribunale di primo grado [108], ha stabilito che un tale finanziamento configura un aiuto di Stato solo qualora l’intervento statale ecceda i costi aggiuntivi sostenuti dal beneficiario per l'assolvimento degli obblighi di servizio pubblico. Viceversa, quando le misure abbiano carattere di mera compensazione di tali obblighi, esse non possono essere considerate aiuti ai sensi dell’art. 87 del trattato CE, essendo indirizzate a porre l’impresa beneficiaria in condizione di concorrere ad armi pari con gli operatori cui non sono imposti obblighi di servizio pubblico. Mancherebbe, quindi, in tali finanziamenti, uno degli elementi costitutivi della fattispecie di aiuto di Stato descritta dall’articolo 87, vale a dire l’attribuzione di un vantaggio economico all’impresa beneficiaria. La conseguenza pratica più immediata, al di là della conquista in termini di certezza del diritto, consiste nella circostanza che siffatte misure non avrebbero dovuto più essere notificate, potendo essere accordate ai soggetti interessati direttamente senza il rischio di essere dichiarate illegali. Proprio tale conseguenza è stata oggetto di diverse critiche in dottrina. Nella pratica, infatti, la mancanza di criteri oggettivi per stabilire quando una misura dovesse essere considerata meramente compensativa lasciava il campo ad una situazione di incertezza giuridica, nella quale tanto gli esecutivi degli Stati membri, quanto le imprese si muovevano con estrema diffidenza[109].

Per tali motivi, in più occasioni il Consiglio Europeo ha invitato la Commissione europea ad adottare un regolamento di esenzione di categoria o comunque delle linee direttrici per l’applicazione delle regole sugli aiuti di Stato ai finanziamenti di servizi pubblici, al fine di agevolarne lo sviluppo in un quadro giuridico più definito. La Commissione ha però soprasseduto dall’adottare qualsiasi provvedimento in tal senso, nell’attesa che la Corte si pronunciasse in alcuni procedimenti pendenti sullo stesso argomento.

La Corte, con la recente sentenza 24 luglio 2003, Altmark Trans GmbH e a. (causa C- 280/00), oltre a confermare il principio esposto in Ferring – in contrasto con le indicazione dell’avvocato generale Léger -, ha compiuto un passo ulteriore precisando che soltanto a determinate condizioni si può escludere la natura di aiuto delle misure di questo tipo. In particolare, il chiarimento più importante riguarda le condizioni necessarie per l’erogazione del finanziamento, che devono essere stabilite ex ante ed ancorate a parametri oggettivi, rapportate cioè alle spese sostenibili da un'impresa media gestita in modo efficiente, piuttosto che alle spese effettivamente sostenute o sostenibili dall’impresa beneficiaria (che potrebbe anche operare in modo inefficiente). La Corte ha, quindi, dato un contributo decisivo per chiarire il quadro giuridico di riferimento. Spetterà ora alla Commissione, nelle linee direttrici che dovrebbe adottare a breve, specificare ulteriormente le condizioni ed i termini cui sottoporre le varie ipotesi di finanziamento di servizi pubblici per escluderne la natura di aiuti di Stato [110].

2) Profilo generale dell’oggetto del diritto della concorrenza.

Considerate nel paragrafo precedente le regole che all’interno della disciplina della concorrenza, sono applicabili agli Stati che dunque governano le interazioni fra atti ed attività dei pubblici poteri e norme a tutela del mercato, si vuol tentare di tratteggiare in questo paragrafo le regole di concorrenza applicabili viceversa ai comportamenti delle imprese nonché agli istituti più rilevanti in ambito antitrust: di un breve cenno si tratterà invero, non essendo questa la sede opportuna per una trattazione più diffusa della materia.

            Un nucleo di disciplina della concorrenza era già contenuto nel codice civile, in quelle scarne norme che si ponevano come unico baluardo alla potenziale “slealtà” nei comportamenti degli imprenditori nei confronti dei loro concorrenti. Ma proprio in quest’ultima specificazione risiederebbe la rilevante differenza fra quella disciplina e le norme antitrust comunitarie, di fatto replicate per il residuale ambito di applicazione nazionale dalla legge 10 ottobre 1990, n. 287, di istituzione dell’Autorità garante per la concorrenza ed il mercato, e non certo nella mera precisazione nel dettaglio delle fattispecie vietate. Tutt’al più che non di dettaglio si può parlare ma di fissazione di principi guida, successivamente integrati dalla giurisprudenza e dalla prassi decisionale rispettivamente della Commissione e dell’Autorità garante per la concorrenza ed il mercato.

L’oggetto della tutela si sposterebbe [111], dunque, dal singolo competitore alla workable competition in generale, alla concorrenza ed al mercato come valori di ampio spettro, a loro volta strumentali al raggiungimento di obiettivi che vanno ben oltre la certezza dei traffici e che si identificano con lo sviluppo economico e quindi sociale del Paese. I profili pubblicistici appaiono dunque prevalenti, in considerazione del carattere diffuso del pregiudizio che le condotte anticoncorrenziali sono suscettibili di produrre [112].

Anche se la disciplina in parola non attribuisce ai consumatori poteri che vadano oltre la partecipazione al procedimento, i vantaggi e gli svantaggi che possono ad essi derivare rappresentano il criterio di valutazione della liceità delle condotte d’impresa: in definitiva il mercato concorrenziale, con il quale si identifica l’area incisa dagli effetti della normativa, si presenta come bene unitario oggetto di tutela [113]. Una simile conclusione dovrebbe essere verificata altresì, alla luce della norma di cui all’art. 1, comma 1, della legge c.d. antitrust, secondo la quale la normativa in oggetto costituirebbe “attuazione dell’art. 41 della Costituzione”, garantendo il “diritto di iniziativa economica” [114].

Sta di fatto che v’è qualcosa più che un parallelismo fra la normativa comunitaria antitrust e la legge italiana. Le fattispecie censurate nella l. 287/90, infatti ricalcano quelle fissate nel Trattato e nei regolamenti comunitari in materia. Così l’intesa rilevante ai fini della disciplina italiana partecipa degli stessi presupposti di quella regolata nell’art. 81 del Trattato, che vieta non solo gli accordi fra imprese, le decisioni di associazione ma anche le pratiche concordate che possono pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato comune, a meno che non ricadano in una delle categorie esentate per regolamento della Commissione (avente come base giuridica a sua volta un regolamento emanato dal Consiglio ai sensi della norma di cui al secondo comma dell’art. 83) o non vengano individualmente esentate dalla stessa Commissione in base alla competenza attribuitale dal Consiglio con regolamento n. 17/62, ai sensi della disposizione contenuta nel terzo comma dell’art. 81.

            Il prevalere della sostanza sulla forma [115] nella individuazione delle fattispecie vietate, costante leit motiv della ermeneutica d’ispirazione comunitaria, che caratterizza anche la prassi e la giurisprudenza applicativa della disciplina sulle intese, si ripropone anche nel caso dell’abuso di posizione dominante, regolato dalle norme di cui all’art. 82 del Trattato. Il divieto di sfruttare in maniera abusiva la posizione dominante nel mercato comune o in una parte sostanziale di esso è, si può forse affermare, sintomatico dei principi cui la tutela della concorrenza ad opera del diritto comunitario si ispira. Se letto congiuntamente alle disposizioni che vietano le concentrazioni, infatti, svela l’intento tutt’altro che punitivo assunto dalle norme antitrust comunitarie che non impediscono la crescita di un’impresa neppure quando essa raggiunga dimensioni tali da assumere i connotati di un soggetto oligopolista o addirittura monopolista; esse sono tese, invece, da un lato ad evitare che tale crescita avvenga sulla scorta di manovre speculative consistenti nella concentrazione di società operanti sul mercato e non attraverso sane politiche industriali di sviluppo delle potenzialità imprenditoriali attraverso l’innovazione tecnologica, l’innalzamento dei livelli di qualità o l’abbassamento dei prezzi, cioè operazioni che portino beneficio ai consumatori; dall’altro a scongiurare che la raggiunta posizione di “dominio” del mercato, di per sé priva di accezione negativa, venga “abusivamente” sfruttata.

Non sono quindi lo sviluppo economico o la floridità delle aziende ad essere aborriti ma quel particolare tipo di sviluppo che non porta vantaggi alla collettività e dispiega i propri effetti positivi solamente in favore degli stessi imprenditori che ne sono protagonisti.

            L’imposizione di prezzi o di condizioni di vendita inique, la discriminazione nei rapporti commerciali, la limitazione della produzione, della commercializzazione o dello sviluppo tecnico a danno dei consumatori, l’imposizione di clausole contrattuali anomale sono solo alcuni dei possibili sintomi di uno sfruttamento “abusivo” della posizione dominante[116]. Nell’individuazione delle fattispecie di intese ed abuso di posizione dominante, così come nella verifica dei presupposti che inducono a considerare una operazione di concentrazione [117] come vietata ai sensi del regolamento del Consiglio n. 4064 del 21 dicembre 1989, la sfera di applicazione materiale è delimitata dal “pregiudizio agli scambi fra Paesi membri”, che consegue a qualsiasi pratica che possa “influire, direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, sulle correnti di scambio fra gli Stati membri ed ostacolare in tal modo la compenetrazione economica voluta dal Trattato”[118].

La suddivisione delle competenze fra la Commissione in veste di autorità antitrust e le autorità nazionali è legata a criteri quantitativi che indicano l’incisività dell’operazione analizzata sul solo territorio nazionale o sugli scambi comunitari. Ferma l’applicabilità diretta delle norme comunitarie da parte dei giudici nazionali, con l’eccezione della concessione delle esenzioni ex. art. 81, comma 3, la tendenza è quella al decentramento, per quanto le esigenze di nomofilachia consentano, delle funzioni antitrust da Bruxelles verso le autorità garanti dei singoli stati membri [119].

3) L’azione amministrativa ed i suoi effetti di natura economica al vaglio delle norme di tutela del mercato

In questo paragrafo verranno presentati alcuni temi che, più o meno direttamente, possono essere ricondotti allo studio delle manifestazioni dell’azione amministrativa, specialmente attraverso la figura della prestazione - nell’accezione lata di cui si è detto nella prima parte - e le regole poste a tutela della libertà del mercato. In particolare nella prima parte sono stati presi in considerazione gli ambiti di sovrapposizione delle attività che afferiscono al veicolo più frequente delle prestazioni amministrative - cioè il servizio pubblico - e le norme tradizionalmente indicate come facenti parte del “diritto della concorrenza” – cioè la legislazione antitrust e quella riguardante gli aiuti di stato -. Nelle pagine che seguono si farà un cenno, invece, ad alcuni casi di applicazione di norme che attengono alla disciplina del mercato ma in un’accezione più vasta – che comprende anche le regole sugli appalti pubblici, sulle libertà di circolazione e di stabilimento – e di manifestazioni dell’agire amministrativo che esulano dalla nozione di pubblico servizio, per lo meno nella sua versione meno estensiva. Le trattazioni dei singoli argomenti, quindi, ben lungi dall’essere esaustive, avranno l’unico scopo di individuarne gli elementi salienti alla luce del tema di fondo della ricerca qui esposta.

3.1) L’organismo di diritto pubblico e le implicazioni nella nuova disciplina dei servizi pubblici locali.

Sembrerebbe ultimamente invertita la tendenza all’interpretazione estensiva della nozione di organismo di diritto pubblico che aveva portato la dottrina a prospettare una inevitabile dilatazione “dell’area lato sensu pubblicistica” [120].

La vicenda dell’organismo di diritto pubblico, concetto che nel diritto comunitario trova solo una nuova sistemazione ma che è composto di “materiali sintetici” [121] provenienti dalle elaborazioni delle secolari dottrine degli Stati membri riguardanti gli indici rivelatori della pubblicità degli enti, sembra infatti incarnare emblematicamente l’affermazione di Alessi (riferita al servizio pubblico ma verosimilmente applicabile in linea generale) secondo la quale una nozione può acquistare contenuto diverso “a seconda della diversa funzione alla quale la nozione in questione deve servire…del diverso scopo avuto di mira dallo scrittore nel costruirla” [122]. Per di più lo scopo non è solo enunciato, legittimamente, anzi, doverosamente, nei considerando delle direttive recanti la disciplina degli appalti pubblici nei quali il concetto trova le prime codificazioni, ma anche, ed in modo che poco ha a che fare con ragioni giuridiche di applicazione imparziale delle norme, dall’avvocato generale Léger. Egli argomenta che il legislatore comunitario si occupa meno della forma legale che rivestono i prestatori di servizi che della loro capacità ad adempiere i compiti affidati, dichiarando sapidamente che “l’eliminazione degli intralci legati allo status giuridico degli operatori costituisce un mezzo per moltiplicare le offerte” [123].

“Intralci” superati, dunque, per mezzo di un’interpretazione che, nel considerare organismo di diritto pubblico una società di capitali istituita da due comuni per la gestione dei rifiuti, più che sortire un effetto estensivo sull’interpretazione requisito della personalità giuridica giunge quasi a negarne qualsiasi utilità [124]; nonché grazie alla circostanza che, per un tempo considerevole, si sia del tutto trascurata la locuzione “non aventi carattere commerciale o industriale” che connota gli interessi pubblici per il perseguimento dei quali l’entità, definibile come organismo, dovrebbe essere stata istituita. Almeno fino alla decisione Bfi Holding Bv/Gemeente Arnhem e altri (cit.) - nella quale la Corte ha chiarito che se il legislatore comunitario ha utilizzato l’espressione in esame lo ha fatto con l’intenzione di individuare due gruppi di interessi generali, quelli di carattere industriale e commerciale e quelli privi di tale carattere - nella giurisprudenza così come nella elaborazione dottrinale era stato preso in considerazione il mero dato teleologico della soddisfazione dei bisogni della collettività con il risultato della sovrapposizione della nozione di organismo di diritto pubblico e di impresa pubblica [125].

La definizione sembrava dunque idonea allo scopo per il quale era stata coniata: favorire un’apertura effettiva del mercato europeo degli appalti pubblici tramite l’identificazione del più alto numero possibile di stazioni appaltanti tenute al rispetto delle procedure di evidenza pubblica.

Tuttavia ciò è risultato esser vero solo per gli appalti di lavori e forniture, non per gli appalti di servizi. Per questi ultimi l’ampliamento della sfera dei soggetti inquadrabili tra gli organismi di diritto pubblico comporta ( ai sensi della norma di deroga di cui all’art. 6 della direttiva 92/50) una correlativa riduzione dell’ambito di applicabilità della direttiva servizi per tutti gli appalti affidati a soggetti che possano rientrare, anche per l’uscio secondario dell’organismo di diritto pubblico, nella definizione di stazioni appaltanti. Con la conseguenza che una vasta percentuale degli appalti affidati a s.p.a. a partecipazione pubblica (prevalentemente società di servizi) è risultata esclusa dall’applicabilità della normativa sulle gare e sulla pubblicità comunitaria.

La tendenza, come si diceva in apertura del paragrafo, si inverte e se l’obiettivo finale rimane quello dell’apertura del mercato, quello strumentale ora si identifica con il ridimensionamento dei confini dell’organismo di diritto pubblico. In questo senso sembrano indirizzarsi le riflessioni della dottrina che suggerendo un approccio il più possibile fedele alla “sostanzialità”[126] di ogni singolo caso, individuano il discrimine fra organismo ed impresa pubblica riferendo il requisito della “non industrialità o commercialità degli interessi perseguiti” alla relazione dell’ente esaminato con il mercato: sono soggetti di natura imprenditoriale quelli per i quali il ricorrere degli altri due requisiti (personalità giuridica e “dipendenza” da un altro ente pubblico) non comporti alcun privilegio rispetto agli operatori economici privati nel mercato rilevante; sono classificabili come organismi di diritto pubblico quelli per i quali il collegamento con il settore pubblico si traduce in un diritto di esclusiva od in altra posizione particolare rispetto agli altri soggetti sul mercato [127].

Lungo questa linea di tendenza paiono collocarsi non solo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, che ha recentemente escluso l’Ente Fiera dalla categoria degli organismi di diritto pubblico sul presupposto della natura commerciale dell’attività posta in essere, nonché della sussistenza in capo al detto Ente del rischio di gestione[128]; ma anche le intenzioni dell’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici [129] che ha riconosciuto alle società miste ex art. 22 della legge n. 142/90 “sempre e comunque” la natura di organismo di diritto pubblico mentre per le società per azioni di diritto privato dotate di autonomia funzionale, oltre che organizzativa, rispetto all’ente ha distinto il caso in cui l’attività della società attenga alla produzione di beni e servizi non aventi carattere industriale o commerciale e prodotti quindi in regime di monopolio, dal caso in cui la società si presenti sul mercato in regime di libera concorrenza, per escludere quest’ultima situazione dall’applicazione della nozione comunitaria.

Sembra tuttavia che un altro spiraglio si apra fra le ipotesi di elusione della normativa sull’evidenza pubblica. E’ quello fornito dalla Corte nella decisione Teckal [130] che stabilisce la sua non applicabilità a contratti stipulati tra un ente locale ed una persona giuridica anche distinta dall’ente appaltante ma sulla quale esso eserciti un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e questa persona giuridica realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti locali che la controllano. Mentre quest’ultima parte dell’affermazione sembra volere espressamente escludere dal novero dei soggetti che possono essere affidatari diretti di appalti di servizi quelle società che, pure se costituite ai sensi dell’art. 22 della l. n. 142/90, svolgono molteplici servizi aventi carattere industriale e commerciale in ambito territoriale allargato, finalizzati a garantire alla società medesima un consolidamento economico tale da permetterle l’ingresso in borsa ed una progressiva presenza sul mercato [131], la prima potrebbe senza dubbio dare adito ad abusi per via della difficoltà di definire con assoluta certezza il requisito del rapporto interorganico.

In questo quadro si è inserita la riforma dei servizi pubblici locali introdotta dall’art. 35 della legge finanziaria del 2002, che, sebbene secondo una gradazione inferiore rispetto alle aspettative, introduce elementi di liberalizzazione del settore che tendono a riportare a monte l’inserimento del gioco concorrenziale, e quindi dell’apertura del mercato. Per una trattazione più diffusa del tema si rinvia ad altra sede [132], ma si sottolinea che le nuove disposizioni sono state oggetto di una procedura di infrazione da parte della Commissione europea proprio perché, per alcuni versi, parevano non garantire la concorrenzialità che avrebbero dovuto perseguire.

Nelle more, una circolare del Ministero delle politiche comunitarie [133] ha fornito elementi interpretativi volti ad assicurare un’applicazione del modificato art. 113 del T.U.E.L. rispettosa dei principi comunitari, sottolineando in particolare come nelle ipotesi di affidamento di servizi anche tra amministrazioni aggiudicatrici, l’inapplicabilità della direttiva n. 92/50 non giustifichi la mancata adozione di procedure dell’evidenza pubblica, obbligo che discende dalle norme e dai principi del Trattato.

Non sembra, peraltro, che la censura della Commissione abbia lasciato del tutto inerte il legislatore nazionale che, invece, ha preferito una fuga in avanti risolutiva delle impasses riguardanti il regolamento attuativo sorte, come si è osservato, dal contrasto fra il vincolo derivante dalla disciplina quadro della riforma e le contestazioni della Commissione. Con il decreto legge 29 settembre 2003, “In materia di sviluppo dell'economia e di correzione dei conti pubblici” vengono, infatti, riprese ed ampliate alcune disposizioni che erano già state approvate da parte del Senato e si trovavano all’esame della Camera con il numero C. 1798-B (art.1, commi 41-43). Con questa novella si imprime una svolta radicale ad alcune fra le problematiche emerse poco dopo l’entrata in vigore della legge finanziaria per il 2002. In particolare, appaiono risolte in modo netto le questioni riguardanti lo scarso grado di concorrenzialità previsto per l’affidamento dei servizi “privi di rilevanza industriale”, la eccessiva lunghezza del periodo transitorio e la rigidità della speciale disciplina del servizio idrico integrato. Al criterio della “rilevanza industriale” per distinguere fra i servizi per l’assegnazione dei quali fosse obbligatorio adottare procedure di evidenza pubblica e quelli tuttora passibili di affidamento diretto, si sostituisce il criterio della “rilevanza economica”: è di immediata percezione la circostanza che la categoria dei servizi non suscettibili di produrre un utile o un avanzo di gestione, con i quali vanno probabilmente identificati quelli “privi di rilevanza economica”, si presenti come molto più ristretta di quella dei servizi “privi di rilevanza industriale” – ed, anzi, appaia persino più ristretta di quella dei servizi “privi di rilevanza imprenditoriale”, adottata dalla disciplina previgente alla riforma introdotta con finanziaria 2002 – . Essa, infatti, si presta a comprendere esclusivamente attività a contenuto socio-culturale la cui natura induce a giustificare la deroga alle norme poste a tutela della parità concorrenziale.

Poco rileva, dunque, che tale deroga divenga ancora più incisiva dal momento che fra le tipologie organizzative previste per i servizi appartenenti a questa seconda categoria non trova più posto, neppure come opzione, l’affidamento a terzi e che le società incaricate della gestione debbano essere a capitale interamente pubblico e sottoposte da parte degli enti pubblici titolari del capitale ad un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi. Per quanto attiene al periodo transitorio, la cessazione anticipata degli affidamenti e delle concessioni assegnati con procedure diverse dall’evidenza pubblica viene sottratta alla discrezionalità degli enti locali e fissata al 31 dicembre 2006, salvo che la cessazione naturale dei rapporti sia precedente e che le discipline di settore prevedano un congruo periodo transitorio. Sono previste due eccezioni, per gli affidamenti a società miste il cui socio privato sia stato scelto con procedure ad evidenza pubblica – fra le quali è forse da considerare anche il collocamento delle partecipazioni sul mercato con il rispetto delle regole di trasparenza e pubblicità – e a società interamente pubbliche sulle quali gli enti titolari esercitino un controllo analogo a quello esercitato sui proprio servizi e che realizzino la parte più importante della propria attività con gli enti che le controllano; entrambe le eccezioni, tuttavia, presuppongono la ricorrenza di requisiti che ne escludono gli effetti distorsivi sulla concorrenza. La norma sul servizio idrico integrato, infine, verrebbe abrogata, con la conseguenza dell’applicabilità delle regole generali sull’espletamento delle gare per l’individuazione del gestore anche a questo settore.

Per altro verso, tuttavia, il disegno non appare coerentemente ispirato ad una prospettiva di più ampia apertura del settore dei servizi pubblici alla concorrenzialità. Piuttosto, alle norme che appaiono chiaramente espressione di siffatto orientamento, come quelle testè analizzate e come quelle che subordinano la cessione delle partecipazioni degli enti locali nelle società di gestione dei servizi a procedure di evidenza pubblica o quelle che abrogano la previsione di differimento del regime inibitorio per la partecipazioni alle gare delle società assegnatarie di affidamenti diretti, si alternano modifiche che sembrano indirizzate in senso inverso. Ci si riferisce in particolare: alla previsione della partecipazione totalitaria di capitale pubblico per le società cui venga conferita la proprietà di reti e impianti o la loro gestione - sebbene le norme si riferiscano alla partecipazione di “enti pubblici” e non più di “enti locali”, così allargando sensibilmente il novero dei possibili soggetti proprietari anche se in via interpretativa si può ipotizzare che la maggioranza debba rimanere in capo ad enti preposti alla tutela degli interessi emergenti dal territorio di riferimento -; all’abrogazione del divieto di partecipazione ad attività imprenditoriali al di fuori del territorio di appartenenza da parte di società a maggioranza pubblica assegnatarie di servizi pubblici tramite affidamenti diretti.

Il testo di questa “controriforma” presenta delle differenze rispetto al disegno di legge dal quale prende spunto. La differenza più rilevante è senza dubbio rappresentata dalla mancata riproposizione della disposizione che introduceva la possibilità di affidamento del servizio con “concessione a terzi, secondo linee di indirizzo emanate dai Ministri e dagli altri soggetti competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche”, che si poteva ipotizzare si riferisse a fattispecie (ad es. monopoli naturali) che richiedano un rapporto giuridico di più chiara impronta pubblicistica (come la concessione) rispetto al non meglio definito “conferimento della titolarità del servizio” ma che, non essendo prevista contestualmente ad un obbligo di espletamento di gara selettiva, era suscettibile di rivelarsi uno strumento di “riedizione” del vecchio affidamento diretto – era prevedibile, altresì, che l’aleatorietà insita nel riferimento alle “linee di indirizzo”, da emanarsi ad opera dei ministri competenti, suscitasse la perplessità del controllore comunitario che generalmente censura la previsione di strumenti di intervento pubblico nell’economia affatto discrezionali- . Questa possibilità viene sostituita (con l’introduzione di un n. 2 e di un n. 3 al comma 5 dell’art. 113 del t.u. sugli enti locali) dal conferimento della titolarità del servizio a società miste nelle quali il socio privato venga scelto con procedure ad evidenza pubblica o società a capitale interamente pubblico “a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano”. Anche l’introduzione di queste due formule (che ripropongono quelle utilizzate per individuare le fattispecie cui non si applica la cessazione anticipata degli affidamenti diretti ai sensi del nuovo comma 15 bis) appare piuttosto il portato di un atteggiamento ancora più prudente verso l’apertura delle procedure di assegnazione dei servizi alla concorrenzialità fra tutti gli operatori anche interamente privati, rispetto a quella dimostrata dal legislatore della finanziaria per il 2002 nonché di quello che aveva elaborato il d.d.l. c.1798 B.

Vi sono anche le differenze contenute nel nuovo comma 1, che da un lato appaiono volte a fugare i dubbi di legittimità costituzionale sollevati in merito alla violazione delle competenze legislative regionali da parte del legislatore nazionale che nella riforma introdotta con l’articolo 35 aveva omesso di inquadrare espressamente la materia trattata nell’ambito della “tutela della concorrenza”, materia di competenza nazionale ai sensi delle norme di cui al novellato art. 117 della Costituzione; dall’altro sembrano indirizzate a chiarire e meglio definire i rapporti fra le legislazioni di settore e le norme contenute nel testo unico degli enti locali che devono essere considerate “inderogabili ed integrative” delle prime, le quali conservano validità piena per “altre” disposizioni e per quelle di attuazione di specifiche normative comunitarie.

Nonostante queste differenze, tuttavia, sembra si possa affermare, anche riguardo al testo di riforma introdotto con il decreto legge in esame, che la sua contraddittorietà si presenti come sintomo significativo di una temperie in cui la nozione di pubblico servizio e di conseguenza la sua disciplina, al centro di mutamenti in senso pro-concorrenziale ma al contempo, anche sotto la spinta comunitaria, della ricerca di nuovi strumenti di attuazione dello stato sociale, sfuggono più che mai. Ed è dunque per questa ragione che l’attenzione degli interpreti si concentra sulle sfaccettature che esse vanno assumendo parallelamente nel microcosmo delle realtà locali e nel macrocosmo del diritto comunitario.

L’inserimento dei dettami della giurisprudenza Teckal nell’ultimo testo delle norme di cui all’art. 113 del testo unico degli enti locali sembra indicare con chiarezza la necessità, cui poc’anzi si cennava, di limitare il numero dei soggetti riconducibili tra le amministrazioni aggiudicatrici/organismo di diritto pubblico onde ridimensionare l’applicabilità della deroga prevista per ipotesi di affidamenti fra amministrazioni aggiudicatrici[134]. L’avvenuta dilatazione della nozione in oggetto, tuttavia, sarebbe stata imputabile al legislatore nazionale e non a quello comunitario: nel recepire l’astratta definizione comunitaria, si sarebbe provveduto ad elencare i modo dettagliato i moduli organizzativi utilizzati dall’amministrazione pubblica italiana qualificandoli come organismi di diritto pubblico attraverso una presunzione che prescindeva dalla sussistenza dei tre requisiti richiesti dalle direttive sugli appalti pubblici[135].

In conclusione, e per venire al motivo per cui le brevi riflessioni che precedono sono inserite nella presente ricerca, sembra potersi affermare che la definizione di confini un po’ più precisi che arginassero la nozione, ormai dilagante, di organismo di diritto pubblico fosse auspicabile non solo sotto i profili tratteggiati ma anche perché l’introduzione del valore del libero mercato, del mercato degli appalti aperto alle imprese di tutti gli Stati membri, dei principi di concorrenzialità perseguita, attraverso la irrazionale dilatazione dell’area pubblicistica sarebbe potuta apparire come un controsenso. La disciplina degli appalti, o meglio, quella dell’evidenza pubblica è, come cennato, strettamente legata a quella dei servizi pubblici, soprattutto in ambito locale e l’analisi delle modalità attraverso le quali si sta svolgendo la privatizzazione dei pubblici servizi (anche se con velocità diverse nei paesi europei) induce a ritenere che, abbandonato senz’altro il criterio formale nella identificazione degli enti pubblici, anche quello sostanziale potrebbe rivelarsi di non indispensabile applicazione. La garanzia di un controllo pubblico sullo svolgimento delle attività di servizio, sulla trasparenza nelle relazioni fra gli operatori sia pubblici che privati che si occupano della loro erogazione e gli enti (pubblici) preposti alla tutela degli interessi che l’istituzione dei servizi intende perseguire, e sulla efficacia della loro azione in relazione al soddisfacimento dei bisogni sociali emergenti in termini di universalità dell’accesso ai servizi stessi, prescindono dalla titolarità pubblica della gestione. Come si è osservato[136], il mutato ruolo dello Stato nell’economia, ed i mutati strumenti attraverso i quali esso viene svolto, non producono, almeno nelle intenzioni, un abbassamento del livello di tutela dell’interesse pubblico; piuttosto afferiscono ad un tipo di protezione dello stesso che è più incline alla rilevazione delle esigenze provenienti dalla collettività, anche attraverso la lettura dei meccanismi del mercato, piuttosto che alla etero-induzione politica delle stesse.

Allo stesso modo si potrebbe forse affermare che l’appartenenza di un ente aggiudicatore alla categoria degli organismi di diritto pubblico non dovrebbe essere considerata come indispensabile alla trasparenza dei metodi di affidamento degli appalti poiché, nel sistema comunitario a regime, il rispetto di questi principi dovrebbe discendere direttamente dall’applicazione delle norme del Trattato[137]. Altro è stabilire se si possa parlare attualmente di sistema comunitario a regime.

3.2) La vicenda delle golden shares.

In occasione dell’emanazione della sentenza della Corte di Giustizia del 4 giugno 2002[138] è tornato di particolare interesse il tema delle azioni con speciali diritti di voto, dette appunto golden shares, attribuite agli Stati o ad enti pubblici in società di capitali solitamente derivanti dalla privatizzazione di imprese pubbliche[139].

La Commissione ha indirizzato nel 1997 una comunicazione agli Stati membri per richiamarli al rispetto dei principi comunitari in materia di libertà di stabilimento e di libertà di circolazione nelle procedure di previa autorizzazione o di diritto di veto da parte delle autorità statali. La notevole estensione degli investimenti intracomunitari, segnatamente in occasione di privatizzazioni, aveva indotto, infatti, alcuni Stati membri ad adottare provvedimenti specifici nell'intento di mantenere un controllo su imprese operanti in settori strategici dell’economia.

Nel corso del 1998 e del 1999 la Commissione ha proposto vari ricorsi per inadempimento rispettivamente nei confronti del Portogallo, della Francia e del Belgio, paesi le cui normative volte a limitare l'assunzione di partecipazioni nell'ambito delle privatizzazioni sembravano ledere l'esercizio delle libertà fondamentali previste dal diritto comunitario.

La Corte di giustizia nel decidere su queste fattispecie ha applicato in particolare il principio, contenuto nel Trattato, che vieta tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi, e poi la direttiva del 1988 per l'attuazione della libera circolazione dei capitali che contribuisce a definire gli investimenti sotto forma di partecipazioni che costituiscono movimenti di capitali compatibili con le disposizioni del Trattato [140].

La libera circolazione dei capitali, infatti, può essere limitata da una normativa nazionale solo se quest'ultima rispetti taluni criteri, sia giustificata da ragioni imperative di interesse generale e sia proporzionata al fine perseguito, in altri termini, a condizione che tale fine non possa essere conseguito mediante misure meno restrittive e che la normativa si fondi su criteri oggettivi e noti in anticipo alle imprese interessate, che devono potere, se necessario, disporre di un rimedio giurisdizionale contro le decisioni degli Stati.

Nella vicenda analoga che aveva interessato il governo italiano [141] i poteri speciali censurati dalla Corte consistevano nella possibilità per il Ministro del Tesoro di vietare l’assunzione di partecipazioni rilevanti o l’adozione di delibere di modifica della struttura della società e di nomina di un certo numero di amministrazioni [142]. Sono strumenti che il legislatore italiano, come del resto gli altri censurati nella più recente sentenza della Corte, ha ripreso dalla disciplina delle golden shares britanniche e dell’action spécifique dell’ordinamento francese. Tuttavia è stato rilevato che mentre nelle versioni originarie (sulle quali si basava il disegno di legge governativo [143]) i poteri specifici connessi alle azioni speciali hanno lo scopo delimitato di tutelare l’interesse nazionale ed evitare disfunzioni di governance nel primo impatto societario privato, nella versione italiana le finalità sono “vaghe ed indefinite” [144]. Il tentativo[145] di intravedere un limite al potere discrezionale dell’autorità politica riguardo alla nella decisione di utilizzare i poteri e nelle modalità del loro utilizzo, in quel riferimento agli “obiettivi nazionali di politica economica e industriale” di cui, ai sensi della norma ex. art. 2 della legge n. 474, il Ministro deve “tener conto”, si scontra contro l’opinione di chi ritiene che in tale finalità “ci sta tutto o niente” e che essa “come ha osservato la Commissione europea, si può tradurre nell’arbitrio più completo” [146].

Ed è proprio l’arbitrio o, per lo meno, la vasta discrezionalità ad essere stata censurata dalla Corte anche in quella occasione e non l’attribuzione per se dei poteri che, se improntati ad un criterio di proporzionalità, avrebbero potuto essere giustificati.

Ancora una volta, e come ha messo bene in evidenza l’avvocato generale M. Dàmaso Ruiz-Jarabo Colomer nelle sue conclusioni del 3 luglio 2001 [147], l’applicazione corretta della norma di cui all’art. 295 del Trattato, che ne sancisce la neutralità nei confronti degli assetti proprietari vigenti negli Stati membri, impedisce alla Comunità, attraverso le sue istituzioni legislative, amministrative e giudiziarie, di prendere posizione a favore di un determinato grado di “pubblicità” nei sistemi istituzionali ed economici facenti capo agli Stati. E’ la decisione iniziale di apertura del sistema-paese al mercato intracomunitario a scatenare una reazione a catena “fattuale”[148] che ha condotto, infine, alla scelta della dismissione da parte delle autorità pubbliche della proprietà delle, o delle partecipazioni nelle imprese ed in particolare in quelle che producono ed erogano i servizi pubblici.

3.3) “Police administrative” e diritto della concorrenza.

L’inserimento delle attività di polizia amministrativa nel novero dei servizi pubblici o, meglio, delle attività che hanno ad oggetto prestazioni amministrative rese ai privati, è molto controverso. V’è chi lo nega poiché sebbene la prestazione di queste attività potrebbe considerarsi genericamente come un servizio reso alla collettività, tuttavia è priva di un valore economicamente valutabile [149]. V’è chi, invece, a proposito dell’inquadramento della messa a disposizione dei beni di uso pubblico fra i servizi pubblici, ricomprende fra le prestazioni che esso implica proprio quelle di polizia amministrativa sui beni stessi [150].

La questione riveste un nuovo interesse alla luce della possibilità di valutare le azioni di polizia amministrativa alla stregua delle norme di tutela della concorrenza. E’ quanto prospetta il Conseil d’Etat francese con la sentenza del 22 novembre 2000, che decide sul ricorso di una società di pubblicità contro l’ordinanza del sindaco di Bayonne che le aveva imposto la rimozione di due cartelli pubblicitari poiché erano posti in una zona dove, ai sensi del nuovo piano territoriale, la cartellonistica non era consentita. Il giudice amministrativo ha affermato l’assoggettamento delle misure di polizia amministrativa al rispetto del diritto della concorrenza. A priori antinomiche, queste due nozioni presentano tuttavia nella realtà di fatto una forte interazione.

In conseguenza di questa decisione le autorità competenti all’emanazione delle misure di polizia, nonché il giudice amministrativo, saranno tenute a rispettare le regole della concorrenza; tuttavia pare potersi affermare però che queste regole dovranno a loro volta adattarsi alla particolare natura delle misure di polizia. Pertanto il confronto fra queste regole appartenenti a settori del diritto così differenti ed apparentemente contrapposti, paiono inscriversi nella costruzione di un diritto pubblico della concorrenza, che si differenzia dal diritto della concorrenza applicabile alle imprese, per la peculiarità consistente nella necessità di tutela dell’interesse pubblico attraverso l’azione amministrativa.

Appare in effetti difficile conciliare il diritto della concorrenza, che risponde ad una logica prevalentemente economica, e la polizia amministrativa, attività “régalienne” per eccellenza, che rappresenta una delle modalità tipiche dell’azione dell’amministrazione, si manifesta in atti autoritativi unilaterali e che tende a preservare o ristabilire l’ordine pubblico. Per individuare delle modalità secondo le quali l’azione dell’amministrazione a tutela dell’ordine pubblico possa essere sottoposta alle norme che rappresentano l’ordine economico, si può forse partire dalla constatazione che il diritto della concorrenza che si applica alle autorità pubbliche differisce da quello che si applica alle imprese perché più che essere il diritto indirizzato al funzionamento del mercato è il diritto che cura la conciliazione fra la concorrenza e gli altri interessi generali dell’azione amministrativa [151].

Prima della decisione in esame, le regole di concorrenza trovavano già un’applicazione indiretta nella valutazione di legittimità delle misure di polizia, in relazione alle figure dell’eccesso di potere legate al principio di uguaglianza o ancora di libertà del commercio e dell’industria; ma l’applicazione diretta delle suddette regole richiede un controllo più attento e specifico; tanto che alcuni commentatori hanno preconizzato, per il giudice, la necessità di una expertise économique [152].

Ma se la Corte di Giustizia comunitaria, che in materia di tutela della concorrenza è solitamente autrice di fughe in avanti, si è invece pronunciata chiaramente per la non applicabilità delle relative regole alle attività che per la loro natura, per il loro oggetto e per le regole alle quali sono sottoposte si ricollegano all’esercizio di prerogative relative al controllo ed alla polizia dello spazio aereo, poiché esse sono tipicamente prerogative dei poteri pubblici e non presentano un carattere economico [153], vien fatto di chiedersi come possa conciliarsi la giurisprudenza francese con principi comunitari suscettibili di applicazione diretta negli Stati membri.

Tuttavia, come si è osservato dei paragrafi generali sulla concorrenza in apertura di questa seconda parte, la giurisprudenza comunitaria ha anche sancito che in virtù dei doveri di collaborazione enunciati nelle norme di cui agli artt. 3 e 10 del Trattato, gli Stati membri non possono adottare delle misure che obblighino le imprese a violare la disciplina comunitaria della concorrenza [154]. Le autorità pubbliche, dunque, possono subire l’imposizione delle regole di concorrenza nell’esercizio delle loro prerogative di potestà pubblica nella misura in cui i loro atti siano suscettibili di avere degli effetti sul mercato.

Lo strumento di conciliazione fra gli interessi contrastanti tutelati dai due ordini di norme (diritto pubblico e diritto della concorrenza), va forse ricercato nel principio di proporzionalità [155], in base al quale la stessa Corte di Giustizia compara, per esempio, la tutela dell’interesse pubblico sotteso alla “missione” di servizio pubblico affidata ad imprese attributarie di diritti esclusivi da parte degli Stati e la protezione del mercato dalle distorsioni che ne derivano[156]. Alla stregua del principio di proporzionalità, dunque, il giudice francese potrà esaminare gli atti di polizia amministrativa applicando null’altro che la sua tradizionale giurisprudenza in materia di polizia amministrativa, che prevede l’annullamento delle misure ogni volta che il mantenimento dell’ordine pubblico avrebbe potuto essere ottenuto attraverso provvedimenti meno restrittivi delle libertà dei cittadini [157].

I settori potenzialmente interessati sono numerosi dal momento che le misure di polizia amministrativa possono avere effetti economici in casi che vanno dalle affissioni alla circolazione stradale o fluviale, dai parcheggi ai mercati. Ma, senza neppure entrare nel vivo della questione che richiederebbe un approfondimento che non consono a questa sede, pare potersi affermare che l’applicazione dei parametri descritti da parte del giudice amministrativo ponga notevoli problemi in ordine alla abnorme estensione che potrebbe conseguentemente assumere l’ambito del giudizio di mera legittimità ad esso affidato.

Nonostante quest’ultima osservazione la pronuncia si segnala per l’innovatività dei contenuti che mettono in luce l’urgenza della integrazione delle “ragioni” del diritto amministrativo e del diritto pubblico dell’economia con quelle del diritto pubblico della concorrenza.

3.4) Condotte di impresa riconducibili a misure pubbliche e tutela della concorrenza: la questione delle tariffe.

Si è fatto cenno nei paragrafi precedenti dedicati alla disciplina della concorrenza, alla giurisprudenza della Corte di Giustizia ed alla prassi decisionale della Commissione riguardante le condotte di imprese vietate dal diritto della concorrenza ma consentite o favorite da misure di carattere pubblico. A prescindere dalla perseguibilità degli Stati per violazione del dovere di collaborazione con le istituzioni comunitarie per il raggiungimento dei fini della Comunità, si pone in termini problematici la censurabilità delle imprese che assumano comportamenti consentiti o imposti da siffatte misure.

            L’approccio seguito, per le fattispecie di sua competenza, dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato si pone in linea con quello comunitario e tende, fondamentalmente, ad indagare il grado di autonomia e discrezionalità che residua alle imprese dall’applicazione dei singoli provvedimenti presi in considerazione. In chiave esemplificativa si potrebbe affermare che il ventaglio di situazioni che emergere da questo tipo di analisi va dalla imposizione di una determinata e specifica condotta tramite un provvedimento di natura legislativa o amministrativa (con conseguente esclusiva responsabilità dello Stato per violazione delle norme comunitarie ricordate) a fattispecie in cui, secondo lo schema normativo di volta in volta previsto sia attribuito, a soggetti svolgenti attività economica il compito di adottare autonomamente degli atti che si perfezionano con un provvedimento amministrativo di approvazione. Nel caso estremo detto atto può comportare l’applicazione mera di criteri di massima e prevedere, in caso di inerzia, un meccanismo di silenzio assenso [158]. In queste ultime fattispecie è stato ritenuto imputabile all’impresa, e censurabile sotto il profilo dell’abuso di posizione dominante, il comportamento che aveva condotto alla fissazione di tariffe, poiché il successivo provvedimento amministrativo di approvazione era da considerarsi atto separato che non presupponeva un intervento dell’autorità amministrativa nel procedimento di determinazione del tariffario.

            I commentatori[159] ritengono che l’Autorità abbia agito in forza di un’interpretazione di natura “funzionale” della legge n. 287/1990 che conduce a censurare la condotte rilevanti ai fini della disciplina della concorrenza, poste in essere da imprese “in assenza di specifici criteri di interesse pubblico vincolanti per i privati” o in mancanza di un intervento incisivo dei poteri pubblici nella formazione dell’atto stesso.

            In questo quadro è intervenuta la sentenza del Tar del Lazio, sez. I, n. 446 del 2000[160] la quale, con riferimento ad una fattispecie differente in cui le condotte di impresa si inserivano in un procedimento amministrativo molto complesso di fissazione delle tariffe, ha negato un’autonoma rilevanza di tali condotte ai fini dell’applicazione della normativa antitrust. La sentenza ha annullato una decisione dell’Autorità che aveva configurato delle violazioni del divieto di intese restrittive della concorrenza a carico del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e del Consiglio nazionale dei ragionieri e dei periti commerciali, sostanzialmente consistenti nella fissazione di tariffe per gli iscritti ai rispettivi albi e nel coordinamento fra i due ai fini dell’uniformazione delle stesse.

Sebbene la sentenza si segnali per la definizione dei liberi professionisti come imprese e dei loro ordini professionali come associazioni di imprese - anche se limitata ai fini della risoluzione del caso di specie [161]- in essa il g. a. risolve negativamente la questione dell’imputabilità delle condotte in oggetto ai Consigli nazionali in considerazione del complesso iter formativo del provvedimento finale, nel quale i Consigli devono formalmente limitarsi a svolgere delle funzioni consultive, e della natura del provvedimento stesso. Trattasi, infatti, di regolamento governativo emanato nelle forme di un decreto del Capo dello Stato, e come tale, nell’opinione del Tar, “imputabile esclusivamente all’autorità di Governo”. In particolare il Tar richiama il regime di obbligatorietà, presunzione di legittimità ed esecutività dei provvedimenti amministrativi – da cui discende la loro efficacia “fino a quando non ne intervenga la caducazione (o disapplicazione) da parte dell’autorità a ciò abilitata dall’ordinamento” – per negare autonoma rilevanza ai singoli atti endoprocedimentali dei soggetti intervenuti.

La circostanza che di fatto i Consigli, singolarmente e di concerto fra loro, avessero avuto un ruolo nella fissazione delle tariffe difforme ed esorbitante da quello previsto dalla legge, può esser fatta valere dall’Autorità – ha ritenuto il Tar - solo “nelle forme consentite dall’ordinamento, ossia sollecitando l’esercizio di poteri che possono legittimamente incidere sul provvedimento amministrativo finale, ossia la stessa pubblica amministrazione e le giurisdizioni competenti” ovvero esercitando i poteri di segnalazione previsti dalla disposizione dell’art. 21, legge n. 287/90.

Non stupisce la circostanza che dottrina “vicina” agli ambienti dell’autorità consideri la pronuncia come un “esplicito riconoscimento della rilevanza della violazione delle norme a tutela della concorrenza durante il processo di formazione dell’atto finale quale vizio di legittimità dello stesso”, secondo i parametri già analizzati nel paragrafo precedente in merito alla valutazione di un atto di polizia amministrativa [162].

Stupisce, invece, che la stessa dottrina prospetti come reale il rischio di una lettura estensiva di questa linea interpretativa che conduca ad escludere aprioristicamente l’applicabilità diretta delle norme di concorrenza anche in ipotesi più semplici in cui sia meramente previsto l’intervento di una pubblica autorità in un momento successivo e di controllo rispetto ad una determinazione da parte di imprese non vincolate al rispetto di forme di tutela dell’interesse pubblico.

La preoccupazione appare, invero, eccessiva non solo per l’immediato giudizio di irrazionalità che qualunque osservatore tributerebbe ad una siffatta “estensione”, ma in particolare alla luce della stessa giurisprudenza amministrativa di poco precedente e seguente la pronuncia in oggetto. Nel 1998, infatti, il Tar Lombardia[163] da un lato ha accertato l’illegittimità dell’atto amministrativo di controllo perché meramente ratificativo di tariffe che integravano gli estremi dell’abuso di posizione dominante, valutando la suddetta violazione del diritto della concorrenza come violazione di regole generali di imparzialità e trasparenza; dall’altro ha osservato, incidentalmente, che la fissazione delle tariffe poteva ritenersi come stabilita direttamente dai soggetti titolari della gestione con atto imputabile all’autonomia privata, poiché “l’intervento dell’autorità amministrativa non si inseriva nel procedimento di determinazione delle tariffe medesime”. Con sentenza del 2000, il Tar del Lazio [164], ha ritenuto che “l’imposizione da parte dell’operatore aeroportuale del pagamento di servizi di handling non resi, non poteva ritenersi giustificata dai provvedimenti ministeriali di approvazione di tariffe forfettarie” poiché essi potevano essere considerati di mera approvazione formale, non essendo preceduti da alcun tipo di istruttoria.

La giurisprudenza sembra piuttosto orientarsi verso un’interpretazione restrittiva dei criteri esplicitati nella sentenza n. 46/2000 ed anzi appare improntata ad un’applicazione, non frequente in sede di giurisdizione amministrativa, di criteri di natura sostanziale.

L’ingresso del diritto della concorrenza anche nei criteri di valutazione della legittimità degli atti amministrativi, non lascia dunque adito a dubbi sulla consistenza non lieve dei cambiamenti in corso, che si sta tentando di tratteggiare nell’esposizione della ricerca condotta.

I provvedimenti di fissazione dei prezzi che in passato la Corte costituzionale arrivò a definire come “prestazioni imposte” ai sensi dell’art. 23 della Costituzione [165], lasciano il posto, a seguito della liberalizzazione dei mercati ed in particolare a quello dei servizi pubblici, a provvedimenti sui quali le autorità pubbliche esercitano un controllo, che può essere più o meno ficcante (lo è nel caso dei servizi oggetto di regolazione di tipo “forte” [166]). La circostanza che la fase amministrativa dell’approvazione possa essere, in alcune circostanze, di rilevanza attenuata (anche in considerazione della mancanza di istruttoria) all’interno del procedimento e che, di conseguenza, le condotte di impresa derivanti siano imputabili alle imprese stesse, non esime tuttavia l’autorità da prendere in considerazione le norme di tutela della concorrenza sub specie di principi di imparzialità e trasparenza.

3.5) Disciplina di fiere e mercati.

La legge quadro sul settore fieristico, a partire dalla norma di cui all’art. 1, è presentata come rispettosa dei “principi della normativa comunitaria”. E’ sufficiente, tuttavia, soffermarsi sulle norme di cui all’art. 4 per iniziare a nutrire qualche dubbio sull’effettiva conformita’ alle regole comunitarie come interpretate nell’applicazione della Corte di Giustizia, in particolare nella sentenza 15 gennaio 2002 [167]. Mentre la norma di cui al comma uno pone espressamente sullo stesso piano gli operatori provenienti da tutti i paesi comunitari (differenziando invece la posizione di quelli aventi sede in Stati terzi), la disposizione del secondo comma fa riferimento alla necessita’ di un’autorizzazione amministrativa per lo “svolgimento delle manifestazioni fieristiche di rilevanza internazionale” e “di rilevanza locale”.

Nella sentenza cui si faceva poc’anzi riferimento (pt. 26) la Corte ha ribadito la giurisprudenza secondo la quale “subordinare l’esercizio di talune prestazioni di servizi nel territorio nazionale da parte di un’impresa avente sede in un altro stato membro al rilascio di un’autorizzazione amministrativa costituisce una restrizione alla libera prestazione dei servizi ai sensi dell’art. 59 del Trattato”, precisando tuttavia piu’ avanti (pt. 29) che la “censura e’ fondata nella misura in cui riguarda le norme nazionali, regionali e provinciali che prescrivono un’approvazione o un riconoscimento ufficiale per l’esercizio dell’attivita’ di organizzatore di fiere” [168].

Pare potersi opinare, tuttavia, che si possa operare una distinzione fra autorizzazione all’ “esercizio dell’attività di organizzatore di fiere” ed autorizzazione “ allo svolgimento delle manifestazioni fieristiche”, cosi’ come definita nella legge n.7/2001[169] e nel d.lgs n. 112/98, cui essa rinvia. Nel primo caso e’ l’attivita’ in generale del prestatore di servizi ad essere sottoposta a previo vaglio delle autorità: la censura della Corte investe dunque l’aggravio di oneri che un prestatore di servizi, avente sede in altro Stato membro, sarebbe costretto a subire nel caso che decida di intraprendere la medesima attività in Italia, ma gia’ goda di equivalente autorizzazione rilasciata dalle autorita’ dello stato membro di appartenenza. In quest’ultimo caso, infatti, “l’interesse generale”, consistente nella garanzia di qualita’ del servizio offerto, sarebbe gia’ salvaguardato.

Per autorizzazione “allo svolgimento di manifestazioni fieristiche” pare, invece, si debba intendere un provvedimento teso principalmente alla tutela dell’ordine pubblico e della pubblica sicurezza: per lo meno le lettere b), c) e d) del comma tre dell’articolo 4 della legge appaiono dettate a tali fini. E’ forse discutibile, al contrario, la legittimità della prescrizione sub lettera a): l’interesse generale che il legislatore intende tutelare richiedendo che per le manifestazioni internazionali e nazionali il soggetto eserciti da almeno un anno in analogo settore merceologico, infatti, non è di immediata percezione.

Tuttavia, in questo caso, come in quello analogo dell’obbligatorio inserimento delle manifestazioni fieristiche nei rispettivi calendari stilati dalle autorità pubbliche, censurato nella sentenza ma riproposto dalla legge di riforma all’art. 6, la Corte, sulla base della sua consolidata giurisprudenza, non esclude che possano esserci delle giustificazioni, purché le norme rispondano a motivi imperativi di interesse pubblico (quali l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza e la sanità pubblica o, in materia di servizi e di libertà di stabilimento, la protezione dei consumatori [170]) e rispettino le seguenti condizioni: essere idonee a garantire il conseguimento dello scopo, prevedere un’applicazione che non sortisca effetti discriminatorii, non andare oltre quanto strettamente necessario per il raggiungimento dello scopo[171].

            La difesa del Governo italiano, però, non ha eccepito alcuna di queste cause giustificative nel corso della causa conclusasi con la sentenza del 15 gennaio 2002 [172], e, nell’impossibilità di applicarle d’ufficio, la Corte ha dovuto condannare. Nell’interpretazione della nuova legge, la cui emanazione ha preceduto di qualche mese la sentenza, non si potrà dunque far ricorso neppure ad una giustificazione a posteriori e l’inevitabile nuovo procedimento per infrazione a carico della Repubblica italiana è già stato avviato dai servizi competenti della Commissione.

            L’interesse pubblico afferente allo svolgimento delle manifestazioni fieristiche [173], che potrebbe giustificare (il condizionale è d’obbligo) l’imposizione di un regime di autorizzazione amministrativa, viene a confrontarsi con le ragioni della libera circolazione dei servizi e della libertà di stabilimento: due dei capisaldi fondamentali nella creazione del mercato unico. Parte della dottrina potrebbe interpretare questo fenomeno come la rinuncia ad un’ulteriore fetta di sovranità da parte dello Stato[174] ma l’istituzione e la conservazione dell’unicità del mercato e dell’apertura dei sistemi nazionali, possono essere invero considerate alla base di quel nuovo corso nel quale la regolamentazione della concorrenza e la garanzia della libertà dei traffici rappresentano le forme di espressione del pubblico nella vita sociale ed economica.

3.6) La nozione comunitaria di attività che “partecipano all’esercizio di pubblici poteri”.

Nella definizione di esercizio di pubblico potere, utile ai fini della differenziazione di quest’ultimo rispetto allo svolgimento di un’attività economica di pubblico servizio alla quale sia applicabile la normativa sulla concorrenza e, nei casi previsti, la relativa deroga contenuta nel secondo comma dell’art. 86, viene in aiuto la nozione di “attività che…partecipino, sia pure occasionalmente, all’esercizio di pubblici poteri” contenuta nella norma di deroga alla disciplina sulla libera circolazione delle persone, art. 45 del Trattato, e specificata nel dettaglio dall’elaborazione giurisprudenziale.

L’estensione della deroga alla regola generale di libertà di stabilimento ad una determinata professione, ad esempio, è considerata possibile solo quando la connessione fra l’attività nel suo complesso e l’esercizio dei poteri pubblici sia tale che lo Stato membro sarebbe altrimenti obbligato a consentire al cittadino straniero, l’esercizio di funzioni che rientrano nei pubblici poteri. L’accesso diretto a tali funzioni può essere negato dallo Stato membro in funzione della norma derogatoria contenuta nel n. 4 dell’art. 39. Ciò non si verifica quando, nell’ambito di una professione indipendente, le attività che partecipano all’esercizio dei pubblici poteri costituiscono un elemento scindibile dall’insieme dell’attività professionale [175].

La partecipazione “diretta e specifica” all’esercizio dei pubblici poteri e la “inscindibilità” di tale elemento dall’insieme dell’attività costituiscono dunque i presupposti perché possa trovare applicazione la deroga alla libertà di circolazione delle persone e, per traslato, rappresentano i caratteri che deve presentare un’attività, anche quando implichi delle affinità con quelle di natura economica, perché possa essere esclusa dall’applicazione delle norme di concorrenza, comprese quelle riguardanti i servizi pubblici. Tali elementi, d’altro canto, rivelano uno spiccato parallelismo con quelli che vengono in rilievo nella distinzione fra impresa pubblica e potere pubblico. La giurisprudenza, nella specie, si è orientata per l’applicazione di un criterio di prevalenza delle funzioni pubbliche rispetto alle attività economiche, quando non sia possibile operare una scissione fra i due gruppi [176].

Solo la ricorrenza di questi elementi integra la fattispecie, necessariamente restrittiva poiché derogatoria rispetto alle norme generali, di “pubblica autorità” nel senso chiarito dall’avvocato generale Mayras, in quale, nelle conclusioni relative alla causa Reyners, definiva tale concetto come “l’incarnazione della sovranità dello Stato” che “consente ai soggetti che ne sono investiti di avvalersi di prerogative che esorbitano dal diritto comune, di privilegi e di poteri coercitivi cui i privati devono sottomettersi”. Egli, nell’invocare una nozione uniforme, “comunitaria”, di “attività che partecipa all’esercizio di pubblici poteri”, al fine di evitare effetti distorsivi nell’applicazione delle deroghe, sottolinea che “la facoltà di esercitare autorità non può quindi che emanare dallo Stato, direttamente o in forza di una delega conferita a persone che non debbono necessariamente far parte dei pubblici dipendenti”. Leggendo queste affermazioni in funzione della distinzione fra pubblico servizio ed attività che partecipa dei pubblici poteri, si coglie la necessità che ricorra il presupposto, anche in questo ambito, di un’esplicita delega di autorità da parte dello Stato.

La Corte, tuttavia, non ha elaborato una espressa definizione di “esercizio dei pubblici poteri”. Dalla sua giurisprudenza può nondimeno dedursi che la mera tutela degli interessi generali non sia sufficiente a far presupporre la sussistenza di pubblici poteri. Piuttosto, di regola, deve trattarsi del potere di emanare definitivamente decisioni pubbliche che siano idonee ad incidere sulla libertà dei privati [177] o che siano finalizzate alla realizzazione di quanto è strettamente necessario per tutelare gli interessi che la stessa norma in esame permette agli Stati membri di proteggere [178].

BREVI CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Un, sia pur breve, riepilogo di quanto si è tentato di enucleare nella ricerca esposta potrebbe partire dalla constatazione, non certo nuova, dell’artificialità del mercato. La concorrenza non ne costituisce uno stato spontaneo e dunque la sua disciplina sovrappone ai meccanismi meramente economici che vi trovano posto alcuni “correttivi” di carattere giuridico, tesi a regolarne il funzionamento in vista di un particolare fine. L’aspetto pubblicistico del diritto della concorrenza può essere riscontrato dunque nella qualificazione giuridica di quel fine.

Come si è cercato di evidenziare, parte della dottrina ritiene invece che le funzioni di regolazione sarebbero contraddistinte da una posizione di mera neutralità e che le stesse regole dettate dal legislatore non sarebbero poste a tutela di un interesse pubblico ma a garanzia di situazioni soggettive private. Altra parte della dottrina ha evidenziato che la crisi che sta attraversando la nozione di pubblico nel diritto amministrativo vada interpretata solamente come crisi di una determinata nozione di pubblico: quella intesa come privilegio, come esercizio di autorità. Se si prende in considerazione l’accezione di funzione amministrativa come “attività primaria di soddisfazione di pubblici interessi”, si potrà rilevare che essa è idonea a qualificare anche una singola manifestazione di essa, come quella di garanzia della concorrenza.

Diviene allora necessario individuare quale sia l’interesse pubblico tutelato in materia di concorrenza e quale rapporto sussista tra questo e gli interessi privati. Le riflessioni di cui si è dato atto paiono indurre a considerare la disciplina del mercato come contraddistinta da una certa “trasversalità”, nel senso che essa attraversa alcuni problemi nevralgici del diritto amministrativo. Ed in questo senso il suo studio si rivela utile anche poiché consente di operare delle riflessioni sulle trasformazioni attualmente in corso nel diritto amministrativo, anche alla luce dell’influenza comunitaria.

Questa trasversalità, se non è completamente rappresentata dal fenomeno giuridico dei servizi pubblici, pure estremamente significativo, potrebbe essere più efficacemente colta in quello delle prestazioni amministrative rese ai privati. La nozione di prestazioni amministrative può rivelarsi attuale nella sua accezione più vasta, delineata non solo alla luce delle fattispecie giuridiche in relazione alla quali tradizionalmente è stata studiata, ma anche in applicazione di un criterio di “perimetrazione” legato all’applicabilità delle norme della concorrenza. In altri termini, sono state considerate sottoponibili al vaglio della disciplina della concorrenza, tutte quelle manifestazioni dell’azione amministrativa che possano avere degli effetti immediati nell’economia, potenzialmente in grado di provocare distorsioni nel libero gioco del mercato. Ai fini del diritto della concorrenza, dunque, l’insieme delle “prestazioni amministrative” alle quali esso trova applicazione si presenta molto vasto e sicuramente esorbitante i confini del servizio pubblico in senso stretto.

Lo studio dell’incontro fra le due discipline, tuttavia, induce a prendere in considerazione anche un’accezione di “regole del mercato” particolarmente estesa. Accanto alle materie che, ormai in modo convenzionale, vengono considerate afferenti al diritto della concorrenza vero e proprio, cioè l’antitrust e gli aiuti di stato, assumono rilevanza fondamentale anche altre discipline le cui regole appaiono indirizzate al fine generale della apertura del mercato: quella degli appalti pubblici, ad es., e quelle riguardanti la salvaguardia delle libertà di circolazione sancite dal Trattato.

Una conseguenza delle trasformazioni in atto nel sistema amministrativo, in vista della liberalizzazione dei mercati, è stata individuata nella inversione del rapporto tra la dimensione della organizzazione pubblica e l’economia. Nel passato, infatti, l’organizzazione pubblica costituiva il frutto di decisioni volte al perseguimento di finalità pubbliche ed aventi carattere politico: la politica condizionava l’economia. Viceversa in un sistema aperto, come quello derivante dalla partecipazione dell’Italia all’Unione europea, sono le esigenze imposte dalla concorrenza fra sistemi e quindi la necessità dello Stato di presentarsi come sistema in grado di competere con gli altri Stati, che si riflettono sul piano istituzionale, condizionando la dimensione e la qualità dell’organizzazione pubblica. Ridurre la spesa pubblica per aumentare la competitività del “sistema-paese” può sembrare un controsenso, visto il ruolo di catalizzatore dello sviluppo che l’amministrazione può svolgere, se ne ha i mezzi. Ma appare come una tappa obbligata del risanamento delle finanze dello Stato che si rivela, a sua volta, indispensabile perché esso possa presentarsi come un’organizzazione sana ed efficiente, oltre che imposto per la partecipazione alla Unione monetaria. A questa riduzione consegue, però, il ridimensionamento dell’organizzazione ed ineluttabilmente la riorganizzazione dei compiti ad essa affidati.

Sullo sfondo del confronto fra lo Stato liberale e lo Stato sociale, fra l’economia e la politica, fra la libertà (di mercato) e la direzione politica della vita collettiva, sembra farsi strada il superamento della dicotomia pubblico-privato.

Nel contesto così delineato, le prestazioni amministrative, sorte come “prolungarsi della mano pubblica” nella creazione e distribuzione di beni e servizi da parte di soggetti ed organi tradizionalmente partecipi della funzione pubblica e quindi come strumento per la realizzazione di un “bene comune” imposto dalla politica, si staccano da questo tipo di organizzazione per via dell’attrazione dell’economia. Non dipendono più da una decisione del governo politico ma sono frutto “del coagularsi di bisogni ed interessi sociali”.

Alla privatizzazione si attribuisce un significato che va oltre la mera adozione di forme privatistiche e che si traduce nell’effetto sostanziale del rapporto della pubblica amministrazione con la società; le zone di influenza diretta dei soggetti dell’organizzazione pubblica si riducono e si ripropongono con una nuova funzionalità: quella di garantire che ogni prestazione amministrativa realizzi sfrutti il potenziale sociale di cui è capace, che lo spontaneo organizzarsi della società assuma una apparenza giuridicamente apprezzabile e che obbedisca ad un principio di razionalità dei comportamenti sociali. Ne deriva una esigenza di normazione che ancora prende corpo prevalentemente attraverso l’attività degli organi politici e delle autorità di regolazione ma che è improntata a favorire l’emersione delle esigenze collettive piuttosto che a realizzare fini dirigistici e programmatori imposti dalla politica.

La garanzia di un controllo pubblico sullo svolgimento delle attività di servizio, sulla trasparenza nelle relazioni fra gli operatori pubblici e privati che si occupano della loro erogazione e gli enti (pubblici) preposti alla tutela degli interessi che l’istituzione dei servizi intende perseguire e sulla efficacia della loro azione in relazione al soddisfacimento dei bisogni sociali emergenti in termini di universalità dell’accesso ai servizi stessi, prescindono dalla titolarità pubblica della gestione.

Si è tentato di dimostrare, in conclusione, che il mutato ruolo dello Stato nell’economia, ed i mutati strumenti con i quali esso viene svolto, non producono, almeno nelle intenzioni, un abbassamento del livello di tutela dell’interesse pubblico; piuttosto afferiscono ad un tipo di protezione dello stesso che è più incline alla rilevazione delle esigenze provenienti dalla collettività, anche attraverso la lettura dei meccanismi del mercato, piuttosto che alla etero-induzione politica delle stesse.


 

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(*) Dottoressa di ricerca di diritto diritto pubblico dell’economia nell’Università degli Studi di Bari.

[1] Per un’applicazione di questi principi alla riforma delle garanzie offerte dalla Corte dei conti (legge 1994 n.20), cfr. V. Caputi Jambrenghi, Efficienza e garanzia nel diritto amministrativo tra corsi e ricorsi postfazione a La nuova Corte dei conti: atti del convegno di Bari, 3 marzo 1994, Milano 1994, 145.

[2] Così in particolare F.Merusi, La nuova disciplina dei servizi pubblici, intervento al convegno annuale dell’associazione italiana dei professori di diritto amministrativo, Palermo 4-5 ottobre 2001, i cui atti sono pubblicati nell’Annuario dell’associazione, p.68 ss.

[3] Così G. Tesauro, Diritto comunitario, Padova 2001, p. 647 e s., il quale sostiene che nel settore dell’antitrust così come in quello degli aiuti di Stato la Comunità sia andata definendo e consolidando una sua politica industriale, in via indiretta e “per ciò stesso secondo alcuni anche più insidiosa”, in aggiunta e talvolta non in sintonia con quella di uno o più Stati membri. D’altra parte, secondo l’A., alla luce di un’evoluzione costante e alquanto trasparente della prassi, si rileva un criterio ispiratore alquanto preciso e solido: la responsabilità degli Stati membri in tema di politica economica, nonché nelle scelte in via di principio libere tra pubblico e privato nell’assetto industriale del Paese, “non consente alcuna indulgenza per misure che infrangano i divieti e le incompatibilità presenti nella disciplina del mercato interno e della concorrenza”.

[4] R. Alessi, Le prestazioni amministrative rese ai privati, Milano 1956.

[5] Da ultimo v., solo per citarne alcuni, G. Napolitano, Servizi pubblici e rapporti di utenza, Padova 2001 ma anche la parte dedicata ai rapporti di utenza in L. Ammannati, M.A. Cabiddu, P. De Carli (a cura di), Servizi pubblici, concorrenza, diritti, Milano 2001.

[6] La direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri 27 gennaio 1994, cui si deve la prima regolamentazione organica della materia, si segnala come uno dei rari tentativi di fornire una definizione del concetto di servizio pubblico che, se non esplicita tutti gli elementi che concorrono a formarne la fattispecie, per lo meno ne individua gli scopi, stilando una lista di esempi non esaustiva (ne restano esclusi, per esempio, i servizi “afferenti alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare” enumerati dal successivo art. 33 del d.lgs. 30 marzo 1998, n.80), ma che pure fornisce implicitamente una grande quantità di informazioni. Vengono individuati come servizi pubblici, infatti, quelli diretti a “garantire il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla salute, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione e alla libertà di comunicazione, alla libertà ed alla sicurezza della persona, alla libertà di circolazione, ai sensi dell’art. 1 della legge 12 giugno 1990, n.146, e quelli di erogazione di energia elettrica, acqua e gas”. Per la ricostruzione della disciplina v., fra tutti, G. Vesperini – S. Battini, La carta dei servizi pubblici. Erogazione delle prestazioni e diritti degli utenti, Rimini 1997, i quali individuano come presupposti della introduzione della “carta dei servizi pubblici” da un lato le disfunzioni dei servizi stessi e l’insoddisfazione degli utenti, dall’altro “l’inadeguatezza degli strumenti tradizionali per la tutela degli utenti dei servizi pubblici”, poco accessibili e comunque inefficaci (pp. 11-14). Sul tema cfr. anche A. Di Pietro, Adozione e contenuto della carta dei servizi, strumento dello Stato regolatore a tutela dei consumatori utenti, in L. Ammannati – M.A. Cabiddu – P. De Carli (a cura di), Servizi pubblici, concorrenza, diritti, Milano 2001, p.311 ss. Per gli essenziali riferimenti alla Citizen’s Charter (Regno Unito, 1991), alla Charte des services publics (Francia, 1992), al Plan de Modernizaciòn de la Administraciòn del Estado (Spagna, 1992), nonché, per completezza, al Government Performance and Results Act (Stati Uniti, 1993), cfr. G. Sciullo, Profili della direttiva 27.1.1994 (“Principi sull’erogazione dei servizi pubblici”), in Dir. ec., 1996, pag. 47; S. Cassese, Aggiornamenti sulla riforma amministrativa negli Stati Uniti d’America, nel Regno Unito e in Francia, in Corr. giur., 1994, pag. 1036; G. Sbisà, Natura e funzione delle “carte dei servizi” e la carta del servizio elettrico, in Rass. giur. en. elettr., 1997, pag. 333.

I servizi pubblici per i quali l’adozione della Carta dei servizi è stata resa obbligatoria sono definiti nell’elenco n. 2 allegato al d.l. n. 163 del 1995, conv. in l. n. 273 del 1995 (in G. U. 11.7.1995 n. 160) e sono i seguenti: “sanità; assistenza e previdenza sociale; istruzione; comunicazione e trasporti; energia elettrica; acqua; gas; altri settori individuati con d. P.C.M., ai sensi dell’art. 2”; nonché dal D.P.C.M. 19.5.1995 (in G. U. 29. 5.1995 n. 123) che ricalca i settori già individuati: “sanità; assistenza e previdenza sociale; istruzione; comunicazioni; trasporti; energia elettrica; acqua; gas”. L’art. 2 del d.l. n. 163 del 1995, conv. in l. n. 273 del 1995, è espressamente abrogato dall’art. 11, comma 5, d.lgs. n. 286 del 1999 ove si precisa che sino a diversa determinazione delle nuove direttive del presidente del consiglio dei ministri restano in vigore i precedenti decreti del presidente aventi ad oggetto gli schemi generali di riferimento emanati ai sensi delle norme di cui all’articolo abrogato.

Per una trattazione organica dell’argomento dei rapporti di utenza v., da ultimo, G. Napolitano, Servizi pubblici e rapporti di utenza, Milano, 2002 e A. Corpaci (a cura di), La tutela degli utenti dei servizi pubblici, Bologna, 2003.

[7] R. Alessi, op.cit., p. 9, il quale precisa che la teoria delle prestazioni amministrative rese ai privati vale come integrazione della teoria dei servizi pubblici, tendendo ad analizzare e ricostruire giuridicamente “il fenomeno intrinseco della concreta esplicazione del servizio ed il rapporto giuridico che a cagione di esso si instaura tra l’amministrazione che lo esplica ed il singolo che ne usufruisce”.

[8] Cfr. F. Merusi, La nuova disciplina dei servizi pubblici, intervento al convegno annuale dell’associazione italiana dei professori di diritto amministrativo, Palermo 4-5 ottobre 2001, i cui atti sono pubblicati nell’Annuario dell’associazione, p. 64 e passim. Questa teorica verrà analizzata più diffusamente infra.

[9] Rileva R. Alessi, op.cit., p. 5 che la nozione di servizio pubblico acquista un contenuto diverso, “venendo a ricomprendere un numero maggiore o minore di attività amministrative, a seconda della diversa funzione alla quale la nozione in questione deve servire, vale a dire, in sostanza del diverso scopo avuto di mire dallo scrittore nel costruirla”.

[10] L’integrazione delle due teorie porta, tuttavia, ad una reciproca limitazione, se considerate l’una in rapporto all’altra: così R. Alessi, op.cit., p.10; potranno dunque prendersi in considerazione non tutti gli “atteggiamenti” dell’amministrazione atti a soddisfare un interesse dei singoli cittadini ma solo quelle prestazioni che possano essere considerate come l’espletamento di un vero e proprio servizio pubblico (l’esempio a contrario è quello del sussidio una tantum imposto da una norma); per converso, dai servizi pubblici presi in esame ai fini di questa indagine andranno espunte quelle attività che, ancorché rivolte ad un generico vantaggio del cittadino, pure non abbiano per contenuto una prestazione vera e propria in senso tecnico poiché il loro svolgimento non dà luogo all’instaurazione di un rapporto giuridico concreto tra l’ente ed i cittadini avvantaggiati (l’illuminazione delle strade, ad es., pur se qualificabile, sotto alcuni profili, come servizio pubblico non può essere analizzato sulla base della teoria delle prestazioni amministrative perché il vantaggio che arreca ai cittadini, anche se presi singolarmente, non integra un rapporto giuridico di sorta).

[11] Così De Valles, I servizi pubblici in Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, diretto da V.E. Orlando, VI, 1, Milano, 1930, p. 437, il quale ricusa il “sistema” di Romano “di concretare nelle prestazioni degli enti amministrativi un istituto autonomo, una speciale figura dell’attività amministrativa”.

[12] Su questo tema v. già O. Ranelletti, Istituzioni di diritto pubblico, 8° ed. 1941, p.132.

[13] In questo senso v. anche S. Romano, Principii di diritto amministrativo italiano, 3° ed, Milano 1912, p.316, il quale però rinvia alla teorica del regime amministrativo della proprietà pubblica lo studio delle “prestazioni con cui si permette l’uso dei beni pubblici”.

[14] Si tratta di De Valles, op. cit., p. 441 e s., il quale rende esplicito che a partire dalla destinazione all’uso pubblico si è in presenza di un atto amministrativo e non di un permesso – e perciò atto positivo e non negativo – e così di “azione” dello Stato si deve parlare quando “con norme regola l’uso comune, e a tal scopo pubblica regolamenti, fa porre iscrizioni, segnali, avvisi; quando sorveglia perché tale uso avvenga pacificamente e regolarmente, cura cioè la cosiddetta polizia amministrativa, incaricando agenti di impedire che il fatto di uno nuoccia all’uso di tutti”, quando stabilisce per tutte le cose atte a soddisfare tale godimento “uno speciale regime giuridico…quando rimuove jure imperii le turbative provenienti da terzi”.

[15] Così V. Caputi Jambrenghi, Beni pubblici e di interesse pubblico, in AA. VV., Diritto amministrativo, Bologna, 2001, p. 1115 e ss., il quale, sottolineando come nella proprietà pubblica prevalgano nettamente esigenze, finalità e discipline normative specifiche che vedono il soggetto pubblico “proprietario” quale centro di imputazioni giuridiche tutte qualificate per “doverosità”, sottolinea come anche nel momento della difesa della proprietà, ove pure v’è coincidenza fra proprietà privata e pubblica nella possibilità di adire il giudice ordinario, si intraveda la volontà del legislatore di offrire all’amministratore pubblico uno strumento ulteriore per esercitare adeguatamente la propria responsabilità di gestione nell’attribuzione ad esso della scelta discrezionale - sia pure nei casi previsti dalla legge - fra detto strumento di tutela e l’autotutela attraverso la polizia demaniale – circostanza che depone a favore della situazione soggettiva del potere e non già del diritto.

[16] G. Caia, Funzione pubblica e servizio pubblico in AA.VV. Diritto amministrativo, Bologna 2000, p.940 e ss. Ma sulla distinzione fra funzione pubblica e servizio pubblico, v. più diffusamente il paragrafo successivo.

[17] R. Alessi, op.cit, p. 20 e s., riporta  come esempi delle fattispecie descritte rispettivamente: a) l’intervento di reparti dell’esercito nei lavori agricoli; b) la consegna all’acquirente del frumento prodotto in un fondo agricolo di proprietà dell’ente pubblico; c) il pagamento periodico di forniture; d) la fornitura del sale e dei tabacchi in regime di monopolio fiscale; e) i sussidi di disoccupazione.

[18] La definizione è di De Valles, op. cit., p. 437 e ss., e riportata da R. Alessi, op.cit., p.38, che la utilizza per riferirsi a servizi di trasporto, di comunicazione, di cure mediche. Circa le prestazioni di dare l’ultimo A. cita la fornitura di acqua potabile, gas, luce; per quelle che consistono nella concessione di un diritto d’uso su beni porta ad esempio l’uso dei libri di una biblioteca o dei letti di un ospedale.

[19] Così R. Alessi, op. cit., p. 38, sulla scorta di De Valles, op. cit., p. 437 e ss.

[20] Per un pur breve approfondimento di questi concetti si veda il paragrafo che segue ma può essere utile qui ricordare la sentenza della Cassazione, sez. VI, 12 marzo 1990, n.374, nella quale si esplicita che il significato dell’attività della p.a. come esecuzione non è più legato a quello della mera attuazione del comando (politico-legislativo) quanto piuttosto a quello del provvedere a dei bisogni o dell’operare per fornire dei servizi e delle utilità ritenute necessarie all’esistenza ed al benessere della comunità.

[21] Operata da R. Alessi, op.cit, p. 22, ma già presente in S. Romano, op.cit., p.358 e s. il quale afferma che ove le prestazioni di enti privati non concessionari nei confronti di altri privati siano, invece, rese obbligatorie per via di norme generali e sia pure con sanzioni amministrative, “si avranno istituti che rientreranno nella teoria delle limitazioni amministrative dell’attività privata”. Si trattava in questo caso, tuttavia, di prestazioni come l’assicurazione obbligatoria per gli operai imposta ai datori di lavoro.

[22] Da ultimo su questo tema v. B. Mameli, Concessioni e pubblici servizi, intervento al convegno annuale dell’associazione italiana dei professori di diritto amministrativo, Palermo 4-5 ottobre 2001, i cui atti sono pubblicati nell’Annuario dell’associazione, p. 119 e ss., nonché Id, Servizi pubblici e concessione, Milano 1998.

[23] Di “impronta” di diritto pubblico parla S. Romano, op.cit. p.360, a proposito della prevalenza degli elementi di diritto pubblico su quelli di diritto privato quando a svolgere l’attività di servizio pubblico sia un soggetto pubblico; mutatis mutandis, il concetto può forse rendere oggi efficacemente l’idea della rilevanza dell’elemento pubblicistico pure in un sistema che ha, almeno formalmente, abiurato l’intervento pubblico diretto in economia.

[24] In questo senso pare atteggiarsi la rivisitazione della teoria c.d. soggettiva del servizio pubblico per la quale v. sin d’ora R. Villata, Pubblici servizi: discussioni e problemi, Milano 2000, pag.24 e ss., passim, in particolare p.24 e ss.

[25] V. R. Alessi, op. cit., p.34, ma nello stesso senso già De Valles, op. cit., p. 587.

[26] Cfr. A. Barettoni Arleri, Obbligazioni pubbliche, in Enc. del dir., (voce), Milano, 1979, XXIX, p.385 e ss. nonché Id, Prestazione amministrativa, in Enc. del dir., (voce), Milano, 1986, XXXV, p.255.

[27] M.S. Giannini, Istituzioni di diritto amministrativo, Milano, 1981, p. 501. Lo stesso A., Le obbligazioni pubbliche, Roma, 1964, p. 48, sostiene che “la cosiddetta prestazione amministrativa non forma nozione a sé; o è oggetto di esercizio di un potere, o è oggetto di un’obbligazione della amministrazione”. Anche F. Benvenuti, Appunti di diritto amministrativo, IV ed., Padova, 1959, p.207, critica la teoria delle prestazioni amministrative rese ai privati in quanto queste presentano “diversi valori funzionali nei riguardi dell’azione amministrativa”.

[28] G. Napoletano, Servizi pubblici e rapporti di utenza, Padova 2001, p.207, il quale, prendendo in esame le riflessioni dottrinarie sulla teoria delle prestazioni amministrative in via propedeutica rispetto a quelle riguardanti i rapporti di utenza, in qualche modo conferma quanto sopra esposto sulla “confluenza” della prima nello studio dei secondi.

[29] Le affermazioni riportare tra virgolette sono di U.Pototschnig, I pubblici servizi Padova, 1964, p.160 e ss.

[30] F. Cammeo, Corso di diritto amministrativo, Padova, ristampa 1960, p. 304.

[31] G. Falcon, Obbligazioni pubbliche, in Enciclopedia giuridica, (voce), Roma, 1990, XXI, p.5 e s.

[32] Impostazione che ricorre anche nell’esame della distinzione fra funzione pubblica e servizio pubblico, in particolare nella costruzione di G.Caia, come si vedrà nel paragrafo successivo.

[33] Cfr. G. Sanviti, La responsabilità per danni derivanti dall’esercizio di servizi pubblici, Bologna (pubblicazioni SPISA), 1998, p.7 e ss., anche per i riferimenti alla dottrina tedesca. L’A. condivide l’opinione secondo la quale un rapporto di diritto pubblico nella specie può essere desunto in via analogica dal modello civilistico, “che qui assume il significato di un istituto di diritto comune”.

[34] M. Nigro, Ma che cos’è questo interesse legittimo? in Foro amm. 1998, LXIV, 2, p.329, il quale ritiene che, quindi, la situazione giuridica di interesse legittimo potrebbe indicare l’insieme dei doveri e delle funzioni del gestore di un servizio nei confronti dei destinatari e, anzi, sotto un certo punto di vista, denotare il rapporto stesso.

[35] Così F.G. Scoca, Contributo sulla figura dell’interesse legittimo, Milano 1990, p. 24 e 29, ripreso da G. Sanviti, op.ult.cit. p. 9.

[36] R. Dworkin, I diritti presi sul serio, Bologna, 1982, p.183 s. ripreso da G. Sanviti, op.ult.cit. p. 9.

[37] R. Alessi, Le prestazioni amministrative rese ai privati, cit., p. 33. La teoria delle prestazioni amministrative, in De Valles e poi Alessi, viene ricondotta alla concezione soggettiva dei servizi pubblici da F. Merusi, Servizio pubblico Nss. Dig. It., Torino 1970, p 217.

[38] G. Sanviti, op.ult.cit. p. 9 e s., il quale soggiunge che il diritto dell’utente riguarda non l’esercizio del potere discrezionale di cui è titolare il soggetto esercente il servizio, bensì, a differenza dell’interesse legittimo, “solo la prestazione individualizzata che lo riguarda direttamente e le utilità che complessivamente può trarre”.

[39] Sul concetto di funzione pubblica e per una ricostruzione dell’evoluzione dottrinaria in materia si rinvia a M.A. Carnevale Venchi, Contributo allo studio della nozione di funzione pubblica, vol. I, Padova 1969; F. Bassi, Contributo allo studio delle funzioni dello Stato, Milano 1969.

In tema di funzione amministrativa, tradizionalmente intesa come attività globalmente rilevante, di cura concreta degli interessi pubblici, raggiunta mediante l’esercizio di poteri a tal fine idonei, cfr. F. Benvenuti, Eccesso di potere amministrativo per vizio delle funzione, in Rass. dir. pubbl., 1950, p. 1 e ss.; Id, Funzione amministrativa, procedimento, processo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1952, p. 118. M. S. Giannini, Diritto amministrativo, Milano 1993, vol. I, p.75 e ss.; U. Allegretti, Pubblica amministrazione e ordinamento democratico, in Foro. It., 1984, V, p. 205 e ss.; G. Marongiu, Funzione (voce), II) Funzione amministrativa, in Enc. giur., vol XIV, Roma, 1989, p. 6, secondo cui “l’essenza stessa dell’amministrazione è nel suo aderire ai fatti come si presentano nel caso concreto e nell’attribuire ad essi il valore giuridico che è implicito nel sistema di interessi fissato in via ordinamentale. In tale complesso gioco tra la doverosità dell’attività e il margine libero della stessa si colloca il vero punto di distinzione dell’amministrazione dalle altre funzioni pubbliche; ed è proprio questo punto che sembra destinato ad entrare nella struttura della funzione per renderla sempre uguale a se stessa, anche quando mutino e si articolino diversamente i contenuti e gli scopi delle attività poste in essere nel suo esercizio”. Già in O. Ranelletti, Il concetto di “pubblico” nel diritto, in Riv. it. sc. giur. , 1905, p. 337 e ss., è affermato il principio secondo il quale l’ambito della funzione amministrativa non è mai ontologicamente dato, ma sempre storicamente relativo, dipendendo da cosa è considerato, di volta in volta, dai pubblici poteri come assolutamente necessario per gli interessi della generalità dei consociati.

[40] La teoria distintiva fra puissance publique e activité de gestion è analizzata in Laferrière, Traitè de la juridiction et des recours contentieux, 2° ed., Paris-Nancy, 1896; Berthélémy, Traité élémentaire de droit administratif, Paris, 13° ed., 1933. Per una trattazione più diffusa del paradigma di servizio pubblico nell’ordinamento francese v. fra tutti F. Merusi, Servizio pubblico, cit., p.217 e ss; G. Caia Funzione pubblica e servizio pubblico in AA.VV. Diritto amministrativo, Bologna 2000, p.940 e ss.

[41] In questi termini si esprime Caia, Funzione pubblica e servizio pubblico, cit., p.940 e ss. L’A. afferma con chiarezza che si tratta di due nozioni differenti ma non contrapposte in quanto si collocano su piani differenti riferendosi a fenomeni diversi.

[42] Sul punto cfr., fra tutti, Romano, Il cittadino e la pubblica amministrazione, in Il diritto amministrativo degli anni ’80, atti del XXX Convegno di studi di scienza dell’amministrazione di Varenna, Milano, 1987, 201 ss.; Pajno, Servizi pubblici e tutela giurisdizionale, in Diritto amministrativo, 1995, 551 e ss.

[43] Al modello di amministrazione “di servizio” appare strettamente legato quello, emerso successivamente ed in particolare a partire dalle leggi di riforma dell’amministrazione degli anni ’90, di “amministrazione di risultato” del quale si è più volte occupato, fra gli altri, L. Iannotta (cfr. i suoi lavori in Dir. amm. del 1996 e del 1999 e in Dir. proc. amm. del 1998), che ha analizzato le modifiche prodotte su tutti gli istituti del diritto amministrativo sostanziale e processuale, dall’introduzione di questo modello giuridico. In particolare, l’A., Principio di legalità ed amministrazione di risultato, in Amministrazione e legalità: fonti normative ed ordinamenti, Milano 2000, atti del convegno di Macerata del maggio 1999, 37 ss., osserva l’obbligo di assicurare beni e servizi alla cittadinanza “presto, bene ed economicamente, oltre che in modo trasparente”, connaturale alla nozione di amministrazione di risultato, tende da un lato “a trasformare la legalità nel rispetto di principi piuttosto che di prescrizioni” e, dall’altro, “ad assumere parametri di valutazione di tipo informale e sostanziale, se non proprio economico-aziendale”.

Sul tema osserva V. Cerulli Irelli, Corso di diritto amministrativo, Torino 2001, p. XXIV della premessa, che il passaggio ad una amministrazione “di risultati” richiede “un’azione concentrica, a tutto campo, sui criteri di organizzazione, sul funzionamento del lavoro, sul trattamento economico del personale, sulla distribuzione delle responsabilità, ecc., avendo come obiettivo di fondo quello di un’amministrazione customer-oriented, concepita cioè per servire gli interessi dei cittadini, “i clienti”, come direbbero gli americani; piuttosto che se stessa o le sue procedure”.

[44] Caia, Funzione pubblica e servizio pubblico, cit., p.925, specifica che le disposizioni costituzionali richiamate delineano “complessi” di attività della pubblica amministrazione che possono sostanziarsi in servizi pubblici così come alla prestazione ed organizzazione di questi ultimi vedono affiancarsi attività amministrativa tipica mediante esercizio di poteri ma anche attività di diritto comune in forza della generale posizione di autonomia privata che spetta all’amministrazione. Su quest’ultimo tema v. più diffusamente il paragrafo 4 di questa prima parte.

[45] La giurisprudenza ha infatti escluso la riferibilità della disposizione che stabilisce che “i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione” agli enti pubblici che espletano servizi di carattere produttivo; cfr. Corte Cass., sez. un., 21 ottobre 1983, n.6179, in Foro amm. 1984, 1102 (al p.to 4 della motivazione).

[46] M.S. Giannini, Diritto amministrativo, 3°ed, Milano 1993, 274 e ss., portando, invero, agli estremi questa impostazione, afferma che il concetto di ufficio pubblico può comprendere non forzatamente anche apparati titolari o incaricati di compiti che concretano servizi pubblici e tratta delle concessioni di pubblici servizi, come di uffici conferiti ad impresa.

[47] Così E.Casetta, Attività amministrativa (voce) in Dig. Disc. pubbl., II, Torino, 1987, p.522.

[48] L’ultima definizione è di G.Zanobini, Corso di diritto amministrativo, vol. primo, Principi generali, VIII ed., Milano, 1958, p.14 e ss, il quale mette in evidenza il rilievo dell’attività materiale dell’amministrazione pubblica, che si aggiunge all’elemento della volontà pur presente nell’azione medesima, mentre legislazione e giurisdizione si esauriscono in quest’ultimo. Anche il riferimento al carattere dell’immediatezza rileva ai fini della distinzione fra l’attività amministrativa e quelle legislativa e giurisdizionale: con la legislazione si determinano gli interessi da curare, le norme di organizzazione, di relazione e di azione; nella giurisdizione si attua una forma di controllo dei comportamenti dei singoli; l’attività amministrativa, in quanto attività “pratica” per la cura “immediata” degli interessi pubblici, non può certo limitarsi al momento dell’esercizio di poteri amministrativi.

A questo proposito valga la notazione di E.Capaccioli, Manuale di diritto amministrativo, I, 2° ed., Padova, 1983, p.275, secondo il quale i bisogni pubblici (della collettività o dei singoli che la compongono) sono soddisfatti, di regola, non dagli atti ma dalle attività: “l’esigenza del trasporto viene soddisfatta dall’esercizio dell’autolinea, non dagli atti che lo consentono…”.

[49] Per una illustrazione di cosa vuole intendersi in queste sede con la suddetta espressione si rinvia all’introduzione.

[50] Così Raggi, Servizio pubblico e demanialità, in Filangieri, 1909, n.2-3, p.13. Del resto Duguit, Les transformations du droit public, Paris, 1913, p.33, definisce il diritto amministrativo come il diritto dei pubblici servizi, utilizzando una nozione a mente della quale è pubblico servizio “ogni attività il cui compimento deve essere assicurato o controllato dai governanti, perché il compimento di queste attività è indispensabile alla realizzazione ed allo sviluppo dell’interdipendenza sociale, e la cui natura è tale che non può essere assicurata completamente che dall’intervento della forza governante”.

R. Alessi, Le prestazioni amministrative rese ai privati, Milano, 1956, 2 e ss., come osservato nel paragrafo precedente, critica l’ampiezza di questa nozione di servizio pubblico che finisce per ricoprire l’intera estensione dell’attività amministrativa. Nello stesso senso v. Zuelli, Servizi pubblici ed attività imprenditoriale, Milano 1973, p.15 e ss.

[51] G. Caia, Funzione pubblica e servizio pubblico, cit., p. 935. L’A. sottolinea, nella stessa sede, anche la funzione unificante di un concetto così vasto di funzione pubblica: esso serve a dimostrare che l’azione amministrativa è unitaria, anche se composita nelle sue manifestazioni.

Pare potersi intendere, dunque, che la legittimazione di questa interpretazione estensiva del concetto risieda in una intenzione meramente didascalica o di politica del diritto più che essere basata su effettivi criteri scientifici.

[52] G.Caia, op ult. cit., p. 936, il quale fa rilevare, tuttavia, che nel medesimo d.p.r. n. 616/1977 si segue talora l’impostazione antitetica, che fa riferimento all’amministrazione di servizio, per ricondurre, all’opposto, anche l’azione amministrativa tipica mediante esercizio di poteri nel concetto di “servizio”. Nel titolo III, riguardante i “servizi sociali” sono , infatti comprese anche materie come la “polizia locale urbana e rurale”.

[53] Così G. Caia, op.ult. cit., p. 938, il quale ricorda come esempi di servizi che partecipano di manifestazioni dell’esercizio dei pubblici poteri sia nel momento organizzativo che nel corso della prestazione (emanando ordini e disposizioni o nel caso dell’attività di “coordinamento elettrico” dell’Enel), il caso del servizio elettrico nazionale e le aziende-unità sanitarie locali; sono invece attinti dalla funzione pubblica solo nel momento organizzativo i servizi pubblici comunali di distribuzione dell’acqua e del gas.

In realtà i procedimenti di liberalizzazione hanno a volte sottratto anche il momento organizzativo dei servizi alla funzione pubblica e, per alcuni di essi, le uniche attività di natura pubblicistica rimangono quelle di controllo e regolazione, per altro affidati ad amministrazioni esterne. Sul quesito se, in questi casi, si possa ancora parlare di servizio “pubblico” sia consentito rinviare a G.E. Berlingerio, Studi sul pubblico servizio, Milano, 2003. G. Berti, I Pubblici servizi fra funzione e privatizzazione, in Jus 1999, p.867, afferma che il profilarsi delle privatizzazioni mette in ombra la parte della funzione “che sembra affievolirsi al punto di scomparire dall’orizzonte del servizio” ma che, per l’appunto, ciò che apparteneva alla funzione si trasferisce nella predisposizione di controlli da parte di autorità pubbliche esterne al servizio sulle modalità di esercizio o sui risultati dello stesso, concludendo che “la funzione insomma cambia e diviene servente rispetto al servizio” ma, potrebbe aggiungersi, non scompare.

[54] Così G. Guarino, Pubblico ufficiale ed incaricato di pubblico servizio, in Scritti di diritto pubblico dell’economia, Milano 1970, p.235, il quale soggiunge che il collegamento tra un servizio pubblico può assumere carattere soggettivo (è pubblico il servizio che venga svolto, come accessorio, da un qualsiasi soggetto che sia titolare in via principale di pubbliche funzioni) o ricorrere qualora l’attività si inserisca istituzionalmente in serie procedimentali inaugurantisi e concludentisi con l’esercizio di potestà amministrative.

[55] S. Cattaneo, Servizi pubblici (voce) in Enc. dir, XLII, Milano 1990, il quale specifica che il carattere autoritativo andrebbe riferito, piuttosto che all’attività, ai poteri da questa implicati, dal momento che “l’attività in sé non è né autoritativa né non autoritativa”.

[56] In questo senso v. Zanobini, L’esercizio privato delle funzioni e dei servizi pubblici nel Trattato di diritto amministrativo di V.E.Orlando, vol II., parte III, p. 424; diversamente però nel Corso di diritto amministrativo, Milano, 7° ed., I, p. 18-19.

[57] Miele, Pubblica funzione e servizio pubblico in Archivio giuridico 1933, II; così anche Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, n.113; Zanobini, Corso, cit., p.18 e s.

[58] Così G. Berti, I pubblici servizi fra funzione e privatizzazione, in Jus 1999, p.867, il quale ricorda che fra le occasioni, gli episodi di esercizio di funzione nell’ambito del servizio pubblico, vi sono proprio gli atti di imperio che sono sempre stati ritenuti necessari a costituire, organizzare e poi gestire un servizio.

[59] Sul punto R.Villata, Pubblici servizi: discussioni e problemi, 2° ed, Milano 2000, pag.24 e ss., ritiene in particolare che la rivalutazione del profilo soggettivo del servizio pubblico, tesi sposata da lui come da altri autorevoli studiosi di diritto amministrativo, potrebbe apparire in contrasto con il definitivo accoglimento della concezione oggettiva di pubblico servizio da parte della novella al codice penale approvata nel 1990 ma che le cose appaiano “in termini diversi ove si evitino gli equivoci che si annidano nel generico riferimento ad una concezione oggettivistica, comprensiva in realtà di molteplici (e fra loro differenti) significati”. A proposito dell’art. 358 c.p. prima della riforma G. Guarino, Pubblico ufficiale ed incaricato di pubblico servizio, in Scritti di diritto pubblico dell’economia, Milano 1970, p.234, sosteneva che “la nozione del servizio pubblico (come quella della pubblica funzione) è presupposta dall’art. 358 c. pen. come unitaria; che non esiste una nozione del servizio pubblico agli “effetti penali”; che la nozione penalistica “è certamente influenzata da tutte le altre norme che afferiscono ai pubblici servizi, e quindi oggi anche dall’art. 43 Cost.; ma che l’art. 358 c. pen., per il solo fatto di esistere, a sua volta condiziona la nozione complessiva ed unitaria del pubblico servizio; questa nozione deve essere tale da soddisfare contemporaneamente ed allo stesso modo le esigenze costituzionalistiche, come quelle amministrativistiche e penalistiche”. La lettera della riforma si è mossa in senso inverso, rivendicando espressamente proprio l’autonomia della nozione penalistica. Ciò nonostante il raffronto presenta elementi di grande rilevanza ai fini della sistematizzazione del concetto generale di pubblico servizio.

[60] I virgolettati di questa breve sezione sulle nozioni penalistiche sono tutti tratti da R. Villata, op ult. cit., il quale deve essere consultato anche per i numerosi riferimenti alla dottrina penalistica.

[61] L’affermazione è di G. Berti, I servizi pubblici fra funzione e privatizzazione, in Jus 1999, p. 868.

[62] Così ancora G. Berti, op. cit., p.868, il quale sottolinea tuttavia che proprio per conservare la separazione delle giurisdizioni la Corte di Cassazione si rifà di continuo ai meccanismi di legalità, valorizzando quella interpretazione dell’art. 97 Cost. che consente di ricavarne, per l’appunto, la preservazione del principio di legalità.

[63] V’è chi attribuisce a questa tendenza anche una “privatizzazione” di natura ben diversa, derivante dalla diffusione degli istituti contrattuali nell’ambito dei rapporti tra soggetti tradizionalmente pubblici e imprese ed organismi privati (legislazione sui procedimenti amministrativi) - fra i quali potremmo citare, ad es., il project financing o i contratti d’area –; tale tendenza è tuttavia contrastata da indirizzi contrari, che fanno parte della fisiologia del cambiamento poiché rappresentano il binario su cui la classe al potere cerca di conservare la sua posizione, come l’accrescimento della funzione normativa regolamentare del Governo e il trasferimento di compiti alle Regioni con aumento dei poteri di direzione politica ed allargamento “della giurisdizione amministrativa, a sua volta legata all’impianto organizzativo ed autoritario dello Stato": così G. Berti, op.cit., p. 869. Su questo tema v., in particolare in riferimento alle procedure ad evidenza pubblica, A. Angiuli, Consenso ed autorità nell’evidenza pubblica, in Dir. amm., 1998, p.115 e ss.

[64] Una significativa rassegna delle reazioni alla riforma dei controlli realizzata con la legge n. 20 del 1994 è offerta dagli atti del convegno di studi organizzato dall’Università di Bari all’indomani dell’emanazione della legge, i cui lavori si avvalsero della partecipazione sia del mondo accademico che dei giudici della corte dei conti: V. Caputi Jambrenghi (a cura di), La nuova Corte dei conti: atti del convegno di Bari, 3 marzo 1994, cit. Di pari interesse gli atti del convegno della Banca d’Italia tenutosi a Perugia il 9-10 giugno 1994, Il nuovo sistema dei controlli sulla spesa pubblica, Roma 1994. Sul tema cfr. altresì Allegretti (a cura di), I controlli amministrativi, Bologna 1995; per una più recente ricostruzione del sistema dei controlli, alla luce anche dei successivi interventi legislativi, v. G. D’Auria, I controlli, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo generale, t. 2, Milano 2000, 1247 ss..

V. Caputi Jambrenghi, Efficienza e garanzia nel diritto amministrativo tra corsi e ricorsi, cit., 145, colloca la l. n. 20 del 1994 al culmine di un “corso”, un periodo cioè in cui il valore dell’efficienza prevale, nella disciplina dell’attività della pubblica amministrazione, su quello della garanzia. Prima della legislazione degli anni 1990, sottolinea l’A., una vera e propria rivisitazione dei controlli, così come una riforma dell’organizzazione pubblica, non avrebbero trovato il necessario sostrato giuridico-sociale: dopo le leggi n. 241 e n. 142 del 1990 l’interesse per un significativo cambiamento è risorto, traducendosi in un periodo intenso di normazione e di indubbia caratterizzazione per la vita dell’amministrazione pubblica, cui si deve riconoscere anche il pregio ulteriore di aver alimentato la tensione per un miglioramento continuo dell’organizzazione e dell’attività amministrativa.

Pure a prescindere dalla condivisibilità dell’affermazione che la nuova concezione di controllo sia “sempre più composizione di interessi che dichiarazione di diritto obiettivo” (S. Cassese, I moscerini e gli avvoltoi: sistema dei controlli e riforma della Costituzione in Sistema dei controlli e riforma della Costituzione, Atti del convegno organizzato dalla Corte dei conti in occasione del 130° anniversario della sua istituzione, Milano 1992, 49), certo non si può negare che essa porti a rivisitarne sia l’apparato che la funzione stessa, limitando il controllo preventivo di legittimità della corte dei conti agli atti fondamentali del governo individuati per tipologie generali, ad alcuni atti di gestione di particolare rilievo finanziario, ai decreti che esprimono i passaggi essenziali della gestione contabile del bilancio di competenza, nonché agli atti che il presidente del consiglio dei ministri richieda alla corte di assoggettare al controllo preventivo per un periodo determinato in relazione a situazioni di diffusa e ripetuta irregolarità rilevata in sede di controllo successivo e fissando come regola generale (art. 3, comma 4) il controllo successivo sulla gestione del bilancio e del patrimonio di tutte le amministrazione pubbliche, nonché sulle gestioni fuori bilancio e sui fondi di provenienza comunitaria, cioè essenzialmente sulle prassi gestionali attuative degli atti di maggior rilievo e degli atti generali di programma e di indirizzo che, come cennato, rimangono sottoposti al controllo preventivo di legittimità (sul punto v. corte dei conti, sez. controllo Stato, delib. n. 156/1993 del 26 agosto 1993; sull’attuale sottoponibilità a controllo preventivo di legittimità degli atti del Consiglio dei Ministri e del suo presidente sia consentito rinviare a G.E. Berlingerio, Il controllo di legittimità sugli atti del Governo e del suo presidente: conflitti di attribuzione e deleghe di riforma, in Foro amm. C.d.S., 2002, p. 1377 e ss.).

La legge contiene anche altre novità di rilievo per quanto attiene, per es., alla fissazione di termini per l’espletamento dell’attività di controllo (sul punto v. le anticipazioni sulle soluzioni adottate dalla legge di riforma n. 241 del 1990 e conseguentemente dalla legge n. 20/1994 in A. Angiuli, Studi sulla discrezionalità amministrativa nel quando, Milano 1988, passim), alla redazione da parte della Corte stessa dei programmi e dei criteri secondo cui svolgere il controllo, ai poteri istruttori ad essa attribuiti, al nuovo atteggiarsi dei rapporti fra controllo esterno e controlli interni. Ma il dato caratterizzante la novità della legge, risiede proprio nell’adozione del modello di controllo sulla gestione, indirizzato all’accertamento della rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa agli obiettivi stabiliti dalla legge, attraverso una valutazione comparativa di costi modi e tempi dello svolgimento dell’azione amministrativa: si tratta di quei requisiti di efficienza, efficacia ed economicità che ritorneranno di frequente nella legislazione successiva anche in tema di controlli, come per esempio nel d. lgs n. 286 del 1999 di riforma del sistema dei controlli interni. Le caratteristiche del modello di controllo successivo su complessive gestioni e non su atti erano già tutte presenti, nell’opinione di F. Battini, Il controllo sugli enti sovvenzionati, in Allegretti (a cura di), op. cit., 175, ripresa anche da G. D’Auria, Corte dei conti, controllo successivo sulla gestione e conflitti di attribuzione fra poteri dello Stato, nota a Corte cost. 457 del 23 dicembre 1999, in Foro it., 2001, I, 436 ss., nella l. n. 259 del 1998 sul controllo sugli enti partecipati dallo Stato, che nelle intenzioni del legislatore anticipava questa concezione innovativa del controllo, salvo poi subire un’interpretazione ed una applicazione che risentivano della predominante cultura del controllo preventivo di legittimità, privilegiando nelle relazioni al parlamento “ le censure relative alla legittimità dei singoli atti o comportamenti e quelle involgenti il parametro della regolarità della gestione, a discapito delle osservazioni attinenti ai risultati della gestione nel suo complesso, al buon andamento ed all’efficienza dell’azione amministrativa” (F. Battini, op. cit., 181 ss.). Di certo i caratteri del modello di controllo delineato dalla legge n. 20 mostrano la loro derivazione in parte dalla pratica dell’audit, quale sistema di verifica della gestione finanziaria elaborato dalle scienze aziendalistiche ma poi adattato al settore pubblico, ed in parte dagli strumenti da sempre utilizzati dalla Corte dei conti della Comunità europea (su questi temi, oltre alle relazioni tenute nel corso dei convegni sopra ricordati, v. G. Della Cananea, Indirizzo e controllo della finanza pubblica, Bologna 1996, in particolare 149 ss.).

In particolare sulla tematica della riforma dei controlli interni, avviata con il d.lgs. n. 286/1999, v. L. Torchia, La riforma dei controlli interni, Milano 2002; A. Crismani, La tutela giuridica degli interessi finanziari della collettività. Aspetti e considerazioni generali con riferimento al diritto comunitario, ed. Giuffrè, Milano 2000, pp. 304.

[65] G. Guarino, Pubblico e privato nell’economia. La sovranità fra Costituzione ed istituzioni comunitarie, in Quad. cost., n.1/1992, p. 42 e ss., prende in considerazione la disciplina tecnico-amministrativa dei settori produttivi, la sicurezza nel lavoro, la disciplina delle assicurazioni sociali e della previdenza pubblica, le retribuzioni pubbliche, le imprese pubbliche, le sovvenzioni alle imprese, i comitati interministeriali, la delimitazione del mercato, la determinazione autoritaria del tasso di cambio e del tasso di sconto, la fiscalità, la determinazione della dimensione della organizzazione pubblica.

[66] V. su questo argomento più diffusamente la parte seconda.

[67] L’espressione è di G. Guarino, op.ult.cit., p.45, il quale, nell’analisi del tema era partito proprio dagli effetti inevitabili e prioritari che l’organizzazione pubblica, per la sua dimensione e secondo la sua qualità, produce sul sistema economico in un sistema chiuso.

[68] Per G. Berti, op.cit, p.870, si assiste all’affermazione di una nuova legalità che nasce dalle libertà su di un tipo di legalità costruita sulla preminenza del politico sulle libertà e sulle responsabilità delle persone.

[69] Sul punto tuttavia esistono opinioni discordanti: da un lato v’è chi (G. Berti, op. cit., p.872 e ss.) propugna senz’altro un allontanamento sia dalla politica che dalla discrezionalità amministrativa, inquadrando il servizio pubblico che si esprime in attività regolate dal diritto privato in moduli afferenti alla scienza dell’amministrazione e sempre più lontani dal ceppo del servizio pubblico, con lo scopo di evitare che la caduta del confine fra pubblico e privato si traduca in una subdola insinuazione del pubblico “negli spazi o nei meccanismi di congiunzione delle parti e dei protagonisti del campo economico”; dall’altro si pone chi (M. A. Cabiddu, I servizi pubblici tra organizzazione amministrativa e principi costituzionali, in L. Ammannati, M.A. Cabiddu, P. De Carli (a cura di), Servizi pubblici concorrenza diritti, Milano 2001, p. 28) sostiene una parità dei soggetti interessati – pubblici e privati, prestatori del servizio e consumatori-utenti – che evoca l’idea di un codice del servizio che determini le condizioni di questa parità, “vincolando tutti coloro che operano in quest’area a una comune doverosità-responsabilità”.

[70] In questo senso v. in particolare Miele, Pubblica funzione e servizio pubblico in Archivio giuridico 1933, ora in Scritti giuridici, vol I, Milano 1987, p.135 e ss. Nelle conclusioni l’A,. tratteggiando la distinzione fra le due nozioni in relazione alla qualità degli individui incaricati di compiere le relative attività, afferma essere funzione pubblica ogni attività compiuta da individui “stretti allo Stato, originariamente o successivamente, da un particolare rapporto pubblicistico” che “emanano atti giuridici o compiono fatti giuridici o collaborano all’emanazione e al compimento di entrambi in virtù di un potere giuridico pubblicistico”, laddove la definizione di atti e fatti giuridici è delineata dall’autore in relazione al regime del procedimento; mentre sono incaricati di pubblico servizio coloro che pur se “addetti ad organizzazioni regolate secondo i principi di diritto pubblico… esplicano ogni altro genere di attività di natura pubblicistica”.

Contro la tesi residuale v. già Pototschinig, I pubblici servizi, Padova, 1964, p. 417 afferma espressamente: “non ogni attività dello Stato o di un altro ente pubblico, la quale non sia pubblica funzione costituisce necessariamente un pubblico servizio”.

[71] Per un’esposizione completa di questa impostazione v. di recente A.Pericu, Impresa e obblighi di servizio pubblico, Milano 2001, p. 99 e ss; L. Perfetti, Contributo ad una teoria dei pubblici servizi, Padova 2001.

[72] Nella tesi esposta da L. Perfetti, Contributo ad una teoria dei pubblici servizi, in particolare p. 240 e ss., i fini sociali possono individuarsi  nella messa a disposizione degli strumenti per rendere effettivo il godimento dei diritti e delle libertà protette dalla Costituzione.

[73] Per S. Cattaneo, Servizi pubblici (voce) in Enc. giur, XLII, cit., p. 355, mentre nel servizio pubblico l’attività “rileva per se stessa, in quanto immediata soddisfazione del compito assunto”, nell’attività di rilievo economico il fine pubblico resta esterno all’impresa.

I. Marino, Servizi pubblici e sistema autonomistico, Milano 1987, p.196 e s. esplicita il concetto rilevando che i fini istituzionali di un ente politico possono essere convenientemente perseguiti anche attraverso la creazione (strumentale) di imprese pubbliche, mentre “i servizi pubblici costituiscono essi stessi il fine dell’ente politico”.

[74] V. L Perfetti, Pubblico servizio, capacità di diritto privato e tutela della concorrenza. Il caso del facility management, in Riv. it. dir. pub. com 2002, p.207 e ss.

[75] Cfr. sent. 9 maggio 2001, n.2605, i cui contenuti sono ripresi e confermati da sez. V, 11 luglio 2001, n.3847.

[76] Tale da comprendere potenzialmente non solo tutte le attività di servizio pubblico, ma anche quelle afferenti alla pubblica funzione, le attività strumentali all’uno ed all’altra, i servizi sociali nonché la gran parte delle imprese private.

[77] Tale giurisprudenza era destinata con evidenza a rimanere isolata. In passato, infatti, era stata dichiarata illegittima la costituzione da parte di un comune di una s.p.a. mista a capitale pubblico maggioritario per la pulizia e la custodia del patrimonio immobiliare dell’ente, proprio perché tale attività è stata ritenuta dai giudici non un servizio pubblico di interesse collettivo, bensì una normale attività strumentale di servizi reperibile dall’ente medesimo sul libero mercato con l’applicazione delle regole concorrenziali in materia di appalti Cfr. Tar Puglia, sez. II Bari, 23 aprile 1998, n.367, in Foro amm. 1999, p.206 nonché Tar Sicilia, Catania, sez. II, 10 giugno 1999, n.1137, in Giornale dir. amm., 1999, p. 1067, con nota di M. Dugato. Contra v. Consiglio di Giustizia amministrativa per la regione siciliana, 23 luglio 2001, n.410, in Giornale dir. amm., n.1/2002, p.21 e ss., con nota di M. Dugato, Il servizio pubblico locale: incertezze qualificatorie e tipicità delle forme di gestione.

[78] Sentenza 18 novembre 1999, causa C-107/98, Teckal s.r.l., Comune di Viano/A.G.A.C. Reggio Emilia

[79] E’ stata , infatti, ritenuta illegittima una deliberazione del Consiglio comunale con la quale veniva affidato senza gara ad una Azienda speciale comunale il servizio di riscaldamento degli immobili comunali (con affidamento anche dei relativi lavori di manutenzione), essendo necessario in tale ipotesi il previo esperimento di una procedura concorsuale, non potendosi procedere all’affidamento diretto del servizio, atteso che quest’ultimo esula dalla previsione di cui all’art. 22 della L. n. 142/1990.

[80] Ha osservato in proposito la Sez. V, condividendo l’opinione del giudice di primo grado, che nella specie non solo la natura oggettiva del servizio de quo (approvvigionamento di gasolio e manutenzione degli impianti di esercizio per gli immobili comunali) non costituiva una produzione di beni o attività rivolti ai fini sociali e di promozione economica (secondo la tassativa enucleazione della richiamata norma), ma al contrario di quanto stabilito dall’art. 22 della L. n. 142/1990, il servizio non veniva svolto dal Comune a favore della collettività, ma sarebbe stato erogato in senso inverso, cioè a favore del Comune, con notevoli conseguenti perplessità sulla qualificazione "pubblica" di tale erogazione che, viceversa, pare più esattamente potersi qualificare quale pura e semplice "prestazione economica" sia pure svolta nei confronti di un soggetto pubblico.

[81] Il servizio di gestione calore non è un servizio pubblico locale, onde per esso trova applicazione l'art. 3, comma 4, del decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 157, di recepimento della direttiva n. 92/50/CEE, in materia di appalti di servizi, che stabilisce che "gli appalti che includono forniture e servizi sono considerati appalti di servizi quando il valore totale di questi è superiore al valore delle forniture comprese nell'appalto". Per converso, se il valore della fornitura supera quello dei servizi, la normativa alla quale far riferimento è quella del d. lgs, 358 del 1992. Non sussiste l'obbligo per l'ente locale di indire una pubblica gara per l'affidamento della gestione del servizio calore posto che, in sede d'interpretazione a norma dell'art. 234 del Trattato CE (sentenza Teckal sulla quale v. infra ed ordinanza pronunciata il 14 novembre 2002 su questo specifico caso), è stato chiarito dalla Corte di Giustizia che la direttiva 93/36/CEE - e, quindi, per l'ordinamento italiano, il d. lgs. n. 358 del 1992 - deve applicarsi per l'aggiudicazione di un contratto di fornitura di beni, salvo che l'amministrazione aggiudicatrice eserciti sul fornitore, che sia un soggetto distinto da essa, un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi, e sempre che il fornitore svolga la parte più importante della propria attività con l'amministrazione o le amministrazioni che lo controllano.

                La tematica concernente l’individuazione del confine fra servizio pubblico ed appalto pubblico di servizi come di quello fra servizio pubblico ed attività di diritto privato della pubblica amministrazione, si è riproposta di recente con una certa rilevanza in occasione dell’introduzione, con legge finanziaria per il 2003, delle norme che hanno previsto un abbassamento della soglia per l’obbligatorietà di espletamento della gara comunitaria a 50.000 euro, hanno circondato il ricorso alla trattativa privata da cautele ulteriori rispetto a quelle già previste dalla normativa in vigore ed infine hanno reso obbligatorio per la stragrande maggioranza delle amministrazioni quanto già disposto dalle leggi finanziarie per il 2000 e per il 2002 in merito alla utilizzazione delle convenzioni quadro definite dalla Consip s.p.a.. Si tratta delle norme di cui all’art. 24 che hanno già subito una parziale abrogazione (primo e secondo comma) con il decreto legge 29 settembre 2003, collegato alla finanziaria per il 2004. Ci si è domandati in proposito se l’ambito oggettivo di applicazione di dette novelle possa ritenersi esteso anche alla materia dei servizi pubblici Laddove a favore della tesi negativa potrebbe addursi proprio l’argomentazione secondo la quale la fattispecie del pubblico servizio non può prescindere dagli elementi dell’offerta alla collettività e della destinazione della prestazione economica alla “realizzazione di prevalenti fini sociali”. Per una riflessione più articolata sull’argomento dia consentito far rinvio a G.E. Berlingerio, Studi sul pubblico servizio, Milano 2003, in particolare cap. IV, par. 2.a).

[82] Fra tutti v. C. Marzuoli, Principio di legalità e capacità di diritto privato dell’amministrazione, Milano 1982; A. Romano, L’attività privata degli enti pubblici, Milano 1979; G. Greco, I contratti dell’amministrazione tra diritto pubblico e privato, Milano 1986.

[83] Cfr. da ultimo, M. Dugato, Le società per la gestione dei servizi pubblici locali, Milano 2001, p. 14. Sull’esistenza del modello societario anche prima della legge n. 142 del 1990, v. G. Rossi, I servizi pubblici locali (tipologia delle formule organizzative e analisi delle problematiche), in Scritti in onore di Guarino, Padova 1998, III, p. 492.

[84] L. Perfetti, Pubblico servizio, capacità di diritto privato e tutela della concorrenza. Il caso del facility management, cit., p. 209, individua nella tendenza ad espandere oltre il ragionevole la categoria del pubblico servizio, un vero e proprio tentativo di “ridurre ad eccezione la partecipazione di un ente pubblico ad una società di capitali”, attuato tentando di reperire una norma abilitativa espressa nella legge.

[85] In questo senso v. G. Caia, Funzione pubblica e servizio pubblico, cit. p.943 e s.

Sul tema v., in generale, V. Cerulli Irelli, Corso di diritto amministrativo, cit. p.671 e ss., il quale fa derivare la capacità giuridica generale degli enti pubblici dalla norma di cui all’art. 11 del codice civile, laddove è sancito che essi “godono dei diritti secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico”, interpretandolo nel senso che essi sono soggetti allo statuto normativo singolare loro proprio, e applicano il diritto comune “salva la compatibilità di singole norme e istituti con lo statuto speciale stesso”. Cfr. anche Cerulli Irelli, Diritto amministrativo e diritto comune: principi e problemi, in Scritti G. Guarino, I, Padova 1998.

[86] In questo senso v. G. Tesauro, Diritto comunitario, 2° ed, Padova 2001, p.526 e ss., il quale ritiene che la questione “in definitiva non richiede una risposta astratta e di principio”. M. Ramajoli, Attività amministrativa e disciplina antitrust, Milano 1998, p.14 e ss., pare superare del tutto il dato di problematicità insito nel quesito, affermando senz’altro che nell’ordinamento comunitario “la concorrenza non è mai considerata come obiettivo da realizzare <per sé>” ma che ad essa è stata attribuita una funzione strumentale rispetto agli altri obiettivi imposti dal Trattato di Roma, e cioè essenzialmente rispetto alla costituzione di un mercato unico europeo. Ad avviso dell’A., inoltre, limiti ed eccezioni al libero mercato sono presenti nella disciplina comunitaria allo scopo di “affrontare in maniera migliore la concorrenza esterna”, di rendere, dunque, l’economia europea, come un tutt’uno omogeneo, più competitiva sul mercato internazionale e costituiscono quindi elementi “non sempre omogenei e commensurabili a quelli provenienti dall’ordinamento interno”. Sul punto cfr. anche G. Amato, Radici storiche, ruolo e prospettive dell’Antitrust in una moderna democrazia economica, in Riv. pol. ec., 1995, 99 e ss., 101, il quale parla di “eccezioni brutali” nei confronti della concorrenza esterna da parte dell’ordinamento comunitario.

In parziale disaccordo cfr. G. Rossi, Antitrust e teoria della giustizia, in Riv. soc., 1995, p.3 (nota 7), il quale sostiene che un’interpretazione più autonoma e non strumentale delle norme antitrust comunitarie sia ora imposta dagli artt. 3 e 3A del Trattato sull’Unione europea. 

[87] In altre sedi, l’espressione workable competition, è stata tradotta, forse più correttamente, come concorrenza “praticabile” o “sostenibile”: scartati i due estremi della concorrenza atomistica e del monopolio, questo modello si propone di realizzare le condizioni in cui una riduzione del numero delle imprese operanti sul mercato (considerata positiva ed, a volte, inevitabile) fosse compatibile con un corretto funzionamento della concorrenza. Sul punto cfr. la sentenza della Corte di Giustizia sul caso Metro-SABA del 1977 e V. Mangini, G. Olivieri, Diritto antitrust, Torino, 2000, pag. 7, i quali ritengono che il suddetto modello non  presenti elementi di novità rispetto al modello teorico di concorrenza perfetta, quanto piuttosto il tentativo di contemperare l’esigenza delle imprese di conseguire la dimensione ottimale ed abbassare i costi con la condizione della permanenza di un numero sufficiente di unità produttive.

Parrebbe, in realtà, che l’espressione, molto usata dagli studiosi di diritto della concorrenza in special modo comunitario, abbia visto progressivamente attenuarsi la rilevanza del suo significato tecnico economico a favore di un’accezione atecnica con finalità descrittive. Come modello economico, la workable competition ha trovato la sua formulazione più compiuta in J.M.Clark, Toward a concept of workable competition, in Am. ec. Rev., 30 (1940), ed ha successivamente subito un’elaborazione particolarmente estremizzante sfociata nella teoria del “mercato contendibile” (J.B. Clarck, The limits of competition in Pol. Sc. Quart., 2 (1887), p. 45 ss.) secondo la quale si giunge a ritenere come possibile l’assoluta compatibilità di un mercato oligo- (o addirittura) monopolistico con risultati perfettamente concorrenziali. Secondo questo indirizzo, e sulla scorta delle riflessioni di Bain, Barriers to new competition, 1956, acquista rilievo il concetto di concorrenza potenziale: là dove il monopolista risulti sottoposto ad una concorrenza potenziale -– alla costante minaccia, cioè, della possibilità dell’ingresso sul mercato di nuovi potenziali concorrenti – il grado di monopolio esistente è irrilevante, in quanto “egli sarà sempre costretto ad osservare comportamenti rigorosamente concorrenziali”; per conservare la sua posizione di monopolio, infatti, dovrà impedire l’ingresso di nuovi rivali con l’adozione di un prezzo del prodotto il più vicino possibile al suo costo marginale (prezzo concorrenziale). Il pericolo di insistere troppo nel riferimento alla teoria del “mercato contendibile”, come avvenne nel dibattito che precedette l’emanazione della legge nazionale antimonopolistica nel 1990, viene rilevato da V. Mangini e G. Olivieri, Diritto antitrust, cit, p. 8, i quali sottolineano le implicazioni che il suo acritico accoglimento avrebbe comportato sulla politica legislativa da attuare

[88] Cfr. Corte di Giustizia Ce, sent. 25 ottobre 1977, Metro, causa 26/76, Racc. p.1875, pt. 20; sent. 13 febbraio 1979, Hoffmann-La Roche, causa 85/76, Racc. p. 461, pt. 38.

[89] G. Amato, Il potere e l’antitrust, Bologna 1998, p. 93, riassume la funzione essenziale della descritta disciplina nella promozione della concorrenza, avendo di mira la difesa dei contraenti più deboli, individuati sia nelle imprese di piccole e medie dimensioni, sia nei consumatori. Per A. Frignani, M. Waelbroeck, Disciplina della concorrenza nella CE, 4° ed. Torino 1996, p.19, mentre nel modello di concorrenza atomistica il compito delle autorità di controllo consisterà nel vegliare che il più gran numero di operatori indipendenti sia sul mercato, nel modello della concorrenza efficace, la perdita di indipendenza di un operatore “non pregiudica sempre il funzionamento del mercato…specialmente quando permette a più imprese di piccole dimensioni di unire le loro forze per resistere alla concorrenza che viene loro fatta dalle grandi. In questo senso anche S. Lombardini, Monopolio e concorrenza nella politica economica, Milano, 1983; R. Prodi, Il nuovo quadro economico della concorrenza in Europa, in La concorrenza nella CEE, Roma 1973, p. 167; M. Libertini, Il mercato, in Trattato di diritto comm. (diretto da Galgano), Padova 1979, p. 407; Van den Bergh, L’analisi economica del diritto della concorrenza, introduzione al commento della legge n. 287 in Frignani, Pardolesi, Patroni Griffi, Ubertazzi, Diritto antitrust italiano, Bologna 1993, n. 23.

[90] Sul punto v. con chiarezza G. Tesauro, Manuale, cit., p.526 e ss.

Appare indispensabile, tuttavia, una rilettura dell’impostazione tradizionale alla luce delle nuove norme di indirizzo generale introdotte con il Trattato costituzionale europeo, ancora in bozza al momento in cui viene licenziato questo breve contributo ma già chiaramente ispirato a quei valori caratterizzanti le moderne democrazie e gli istituti dello Stato sociale dei quali si è a lungo lamentata l’assenza nei testi fondativi delle Comunità e poi dell’Unione europea. Su questi concetti, che per vastità e complessità è impossibile approfondire in questa sede, si fa riferimento alla nutrita letteratura di settore, limitandosi qui a sottolineare che il fenomeno, già ravvisabile fin dall’Atto unico europeo e dal Trattato di Maastricht, si era reso del tutto evidente con l’emanazione del Trattato di Amsterdam.

Per la ricostruzione di questa evoluzione con particolare riferimento al settore dei servizi di interesse economico generale sia consentito far rinvio a G.E. Berlingerio, Studi sul pubblico servizio, cit., capitolo V. Sugli ultimi sviluppi in materia si può consultare il sito internet dedicato dalla Commissione europea alla documentazione riguardante il “libro verde in materia di servizi di interesse generale”, COM (2003) 270, http://europa.eu.int/comm/secretariat_general/service_general_interest/ , ove, fra i commenti individuals, anche G.E.Berlingerio, The green paper on services of general interest: the perspective fo the public service in the european community law .

[91]  Cfr. sent. Metro, cit., pt. 43; più di recente, Nestlè-Perrier, cause T-96/92 e T-12/93, sent. 27 aprile 1995, Racc. II, p. 1213, ptt. 30-31.

[92] Sul punto v. in particolare A. Frignani, M. Waelbroeck, Disciplina della concorrenza nella CE, 4° ed. Torino 1996, p. 20 e ss. Nell’opinione degli AA. la decisione di divieto, quando viene emessa nell’ambito del primo sistema, non ha effetto retroattivo poiché non è dichiarativa ma costitutiva di diritti ed inoltre spetta all’autorità di controllo provare che la restrizione deve essere considerata vietata a causa del suo carattere abusivo o contrario all’interesse generale. Nelle legislazioni appartenenti al secondo tipo, invece, la validità di alcune restrizioni può essere riconosciuta, sia dietro domanda degli interessati (sistema detto della “riserva di autorizzazione”, Erlaubnisorbehalt), sia di pieno diritto, dall’autorità di controllo o dai tribunali, nel corso di una controversia ove si discuta della liceità di una restrizione (sistema detto della “eccezione legale”). Nell’ipotesi in cui solo l’autorità di controllo possa autorizzare una restrizione, la sua decisione è generalmente costitutiva, mentre, nel sistema dell’eccezione legale, la decisione che riconosce il carattere lecito di una restrizione è solo dichiarativa.

[93] Il rigore delle norma fu ben presto mitigato da correttivi introdotti in via giurisprudenziale che dapprima previdero la deroga al divieto per quelle clausole (c.d. ancillary) meramente accessorie a contratti il cui scopo principale fosse lecito e poi (in particolare attraverso le sentenze Standard oil del 1911 e Chicago Board of Trade del 1918) fissarono la c.d. rule of reason in base alla quale è attribuito agli organi giudicanti il potere di stabilire se nel caso concreto una fattispecie cui consegua effetto restrittivo della concorrenza produca effetti pro-concorrenziali (c.d. effetti “redimenti”) tali da compensare il pregiudizio arrecato alla libertà di mercato, contribuendo al suo miglior funzionamento. Nell’esercizio di questo potere, che V. Mangini, G. Olivieri, Diritto antitrust, cit., p.10, definiscono “largamente discrezionale”, la giurisprudenza non tardò ad escogitare l’espediente della per se condemnatio che consentiva di formulare una presunzione di illiceità nei riguardi di talune fattispecie percepite come palesemente restrittive e prive di qualsiasi giustificazione in termini di efficienza economica.

[94] La definizione è di V. Mangini, G. Olivieri, Diritto antitrust, cit., p. 9.

[95] Si preannuncia, tuttavia, una radicale modifica dell’attuale prassi applicativa con il passaggio ad un regime del “controllo”, cioè del primo tipo su descritto. L’incoerenza dell’approccio alla materia derivante dalla dicotomia della norma fondamentale in due principi contrastanti (quelli rispettivamente espressi nei paragrafi 1 e 3 dell’art. 81), già più volte messa in luce dalla dottrina che la definisce “the unfortunate bifurcation” (Hawk, The american (antitrust) revolution: lessons for the EEC? In ECLR, 1988, p. 53 e ss., poi ripreso da Korah, From legal form outword economic efficiency, in Antitrust bullettin, 1990, p. 1009 e ss.), è rilevata anche nel Libro bianco sulla modernizzazione delle norme per l’applicazione degli artt. 85 ed 86 del Trattato CE. Nel documento la stessa Commissione afferma che “l’attuale divisione, nell’applicazione dell’art. 85 (ora 81 n.d.r.), fra par. 1 e par. 3 risulta infine artificiale e contraria al carattere inscindibile dell’articolo stesso, che richiede un’analisi economica dell’insieme degli effetti imputabili ad un accordo”.

[96] Così V. Mangini, G. Olivieri, Diritto antitrust, cit., p. 13. Gli AA. ritengono, inoltre, che l’automatica ricezione dei canoni interpretativi della giurisprudenza comunitaria in materia costituisca un momento significativo del processo di inserimento del diritto comunitario nel sistema delle fonti dell’ordinamento italiano, “un sugello definitivo del conclamato principio che pone il primo al di sopra del diritto interno degli Stati membri (principio della supremazia del diritto comunitario)”. Senza entrare nel merito di un’analisi che richiederebbe ben altra ampiezza rispetto a quella che è opportuno dedicarvi in questa sede, si può forse affermare che il principio di “supremazia” del diritto comunitario trovi applicazione non laddove, come in questo caso, esista una legge nazionale che espressamente preveda criteri di applicazione delle rispettive discipline (nazionale e comunitaria) che, peraltro, fanno pedissequo riferimento ai criteri specularmente previsti dalla normativa comunitaria, ed inoltre richiami i principi comunitari in sede di interpretazione ed applicazione della stessa disciplina nazionale. Piuttosto è necessario invocare il suddetto principio nei casi in cui esista una sovrapposizione di ambiti applicativi di norme provenienti dalle due fonti ed il conflitto, sia che si tratti di una contrapposizione fra norme di indirizzo differente sia che consista nell’individuazione dei principi interpretativi cui fare riferimento nell’applicazione, non sia già risolto dalle norme stesse nel senso della prevalenza del diritto comunitario.

[97] Sul concetto di clausole nel diritto amministrativo v. più diffusamente e con altri esempi l’introduzione.

[98] E’ condivisa in dottrina, infatti, l’opinione in base alla quale un’applicazione diretta del principio di sussidiarietà alla materia trovi spazio esclusivamente nell’ambito di una specifica politica della Commissione indirizzata ad una deflazione del suo carico di lavoro a favore delle autorità nazionali, sulla scia della tendenza della stessa Corte di Giustizia che ha riconosciuto alla Commissione il diritto di respingere un’istanza allorchè l’istante disponga di mezzi di tutela efficaci davanti alle giurisdizioni nazionali. In questo senso L. Di Via, L’applicazione del principio di sussidiarietà nel diritto della concorrenza italiano e comunitario, in Contratto e impresa-Europa, 1996, p.71; B.Hawk, L. Laudati, Antitrust federalism in the US and decentralisation of competition law enforcement in the EU: a comparison, relazione al convegno su Antitrust: rules, institutions and international relations, Roma, 20 novembre 1995.

A. Frignani, M. Waelbroeck, Disciplina della concorrenza nella CE, 4° ed. Torino 1996, p. 28 e s. ritengano, del resto, che il principio di sussidiarietà non svolga un ruolo importante in materia di concorrenza proprio perché, come si osservava supra, le regole di concorrenza comunitarie tengono già conto in larga misura della preoccupazione di non intaccare eccessivamente le competenze degli Stati membri in materia.

 

[99] Per G. Tesauro, Diritto comunitario, cit., p. 625 e s. ritiene il tema di grande rilievo, in quanto investe potenzialmente qualunque normativa nazionale che regoli l’attività delle imprese: misure sulla disciplina dei mercati, su prezzi e tariffe, sull’ambiente, misure di politica economica e monetaria, tributarie, previdenziali, sulle condizioni di lavoro, sull’esercizio di una professione, ecc.

[100] In un primo tempo, infatti, la giurisprudenza, di fronte all’ipotesi di accordi tra imprese suggellati da una legge che ne imponeva il rispetto, ha affermato in termini molto generali che gli Stati membri non possono adottare provvedimenti che consentono alle imprese di sottrarsi ai divieti sanciti dal Trattato in tema di concorrenza (fra tutte cfr. Inno/Atab, causa 13/1977, sentenza 16 novembre 1977, Racc. p. 2115, pt. 31-33; la fattispecie riguardava una legge belga che imponeva ai dettaglianti di tabacchi manufatturati il rispetto del prezzo fissato dai produttori e dagli importatori: l’impresa Inno sosteneva che la normativa statale imponeva un comportamento che, in difetto della norma, sarebbe stato contrario agli artt. 81 ed 82 del Trattato). Tuttavia, anche sulla scorta della dottrina che ha sottolineato l’applicabilità delle norme di cui agli artt. 81 ed 82 alle imprese e dunque, in via di principio, non alle legislazioni nazionali, oltre all’impossibilità che le disposizioni in parola violino le competenze che gli Stati membri hanno conservato in materia di politica economica, una giurisprudenza successiva ha escluso la rilevanza degli artt. 81 ed 82 rispetto a discipline nazionali di prezzi e tariffe, valutabili viceversa alla luce della norma di cui all’art. 28. Cfr., fra tutte, Van de Har, cause riunite 177-178/82, sentenza 5 aprile 1984, Racc. p.1797, pt. 24.

[101] La dottrina ha tuttavia definito il parametro dell’art. 10 come impositivo di un dovere niente affatto autonomo, "ma da riferire caso per caso ad una norma materiale”, nella specie l’art. 81. Ne consegue che trattasi di un parametro che non può essere utilizzato in assenza di un comportamento delle imprese: così G. Tesauro, Diritto comunitario, p. 632. Analogamente la previsione contenuta nell’art. 3, essendo espressamente subordinata “alle condizioni e secondo i ritmi previsti dal presente Trattato”, deve considerarsi suscettibile di applicazione solo congiuntamente ad altra norma che ne segni i profili concreti: in particolare quelle di cui agli artt. 81-89.

Da ultimo cfr. la sentenza Corte giust. C.E, C-198/01 del 9 settembre 2003, C.I.F. c. Autorità garante concorrenza e mercato, nella quale la Corte ha affermato: “ 1. - Ai sensi del combinato disposto degli artt. 10, 81 e 82 del Trattato CE, gli Stati membri sono obbligati a non adottare o mantenere in vigore provvedimenti, anche di natura legislativa o regolamentare, idonei a eliminare l'effetto utile delle regole di concorrenza applicabili alle imprese, che devono essere disapplicati non solo dal giudice nazionale, ma anche da tutti gli organi dello Stato, comprese le Autorità amministrative, il che implica, ove necessario, l'obbligo di adottare tutti i provvedimenti necessari per agevolare la piena efficacia del diritto comunitario; ne consegue che, in presenza di comportamenti d'imprese anticoncorrenziali imposti o favoriti da una normativa nazionale che ne legittima o rafforza gli effetti riguardo alla determinazione dei prezzi e alla ripartizione del mercato, un'Autorità nazionale preposta alla tutela della concorrenza, come l'Autorità garante della concorrenza e del mercato, ha l'obbligo di disapplicare tale normativa nazionale, può infliggere sanzioni alle imprese incriminate per comportamenti successivi alla decisione di disapplicare la normativa nazionale, una volta che quella decisione sia diventata definitiva nei loro confronti, e per comportamenti pregressi, qualora questi siano stati semplicemente facilitati o incoraggiati da quella normativa nazionale, mentre non può infliggere sanzioni alle citate imprese per comportamenti pregressi qualora siano stati loro imposti dalla detta normativa nazionale.2. - Spetta al giudice nazionale valutare se una normativa che rimette alla competenza ministeriale la determinazione del prezzo di vendita al dettaglio di un prodotto e affida ad un consorzio obbligatorio tra i produttori il potere di ripartire la produzione tra le imprese possa essere considerata, ai fini dell'applicazione dell'art. 81 n. 1 del Trattato CE, una disciplina che lascia sussistere la possibilità di concorrenza suscettibile di venire ostacolata, ristretta o falsata da comportamenti autonomi delle imprese incriminate”. Per i precedenti cfr. Corte di giustizia CE 13 luglio 1972, causa C-48/71, Commissione/Italia, in Racc. p. 529, punto 716 novembre 1977, causa C-13/77, INNO/ATAB, in Racc. p. I-2115, punto 31; 21 settembre 1988, causa C-267/86, Van Eycke, in Racc. p. 4769, punto 16; 22 giugno 1989, causa 103/88, Fratelli Costanzo, in Racc. p. 1839, punto 3117 novembre 1993, causa C-185/91, Reiff, in Racc. p. I-5801, punto 14; 9 giugno 1994, causa C-153/93, Delta Schiffahrts- und Speditionsgesellschaft, in Racc. p. I-2517, punto 14; 5 ottobre 1995, causa C-96/94, Centro Servizi Spediporto, in Racc. p. I-2883, punto 20; 19 febbraio 2002, causa C-35/99, Arduino, in Racc. p. I-1529, punto 34. 2. - Cfr. Corte di giustizia CE 29 ottobre 1980, cause riunite 209/78-215/78 e 218/78, Van Landewyck/Commissione, in Racc. p. I-3125, punti 130-134; 20 marzo 1985, causa 41/83, Italia/Commissione, in Racc. p. I-873, pt. 19; 10 dicembre 1985, cause riunite 240/82-242/82, 261/82, 262/82, 268/82 e 269/82, Stichting Sigarettenindustrie/Commissione, in Racc. p. 3831, ptt. 27-29

[102] Sull’applicazione dell’art. 10 cfr. in particolare Spediporto, C-96/94, sent. 5 ottobre 1995, Racc. p.I-2900, ptt. 19 e ss.. In relazione all’applicazione dell’art. 81 cfr. Delta, C-153/93, sentenza 9 giugno 1994, Racc. p.I-2517, pt.12; sull’art. 82 GB-Inno-BM, causa 13/77, sentenza 16 novembre 1977, Racc. p.2115, pt. 31.

[103] Fra i casi più significativi in questo ambito v. ERT, C-260/89, sent. 18 giugno 1991, Racc. p. I-2925, pt. 15, 19-20 e 32-35; Corbeau C-230/1991, sent. 19 maggio 1993, Racc., p. I-2533, pt.11. Da ultimo v. Deutsche Post, C-147-148/1997, sent. 10 febbraio 2000, Racc. p. I- 825, pt. 39.

[104] Censurato, dunque non solo lo Stato che interviene nell’economia con effetti lesivi della libertà di concorrenza ma anche lo Stato che si spoglia dei propri poteri pubblicistici (residui) in materia economica attribuendoli ad uno o più soggetti privati: la fattispecie dà luogo ad una presunzione di nocività per il mercato, al di là delle modalità concrete con cui questi poteri vengano esercitati. Sul punto cfr. Van Eycke, causa 267/86, sentenza 21 settembre 1988, Racc. p. 4769, pt. 16. Più di recente la determinazione delle tariffe è risultato un campo particolarmente sensibile ai fini dell’applicazione delle norme che si stanno analizzando: v. ad es. Spediporto, cit., in cui la Corte ha escluso che una normativa che attribuisca all’amministrazione la determinazione delle tariffe dei trasporti di merci su strada su proposta di un comitato composto in maggioranza da rappresentanti dell’amministrazione possa rappresentare una violazione del combinato disposto delle norme ex artt. 3, 10 e 81 o 82 del Trattato. 

[105] Sul tema esiste ormai una vasta letteratura sia italiana che internazionale. Cfr. in particolare: J.Y. Cherot, Les aides d’Etat dans les Communautées européennes, Paris 1998; J.P. Keppenne, Guide des aides d’Etat en droit communautaire, Bruxelles 1999; C. Pinotti, Gli aiuti di Stato alle imprese nel diritto comunitario della concorrenza, Padova 2000; C. Malinconico, Gli aiuti di Stato in Trattato di diritto amministrativo europeo diretto da Chiti M.P. e Greco G., Milano 1997, A. Pappalardo, Le linee generali della politica di concorrenza in tema di aiuti statali in Manuale di diritto comunitario a cura di Pennacchini- Monaco- Ferrari Bravo -Puglisi, Torino 1984; Battini, Gli aiuti pubblici alle imprese in AA.VV, Ordinamento comunitario e pubblica amministrazione a cura di Massera, Bologna 1994; da ultimo v. G. Luchena, La nozione giuridica di aiuto di Stato nell’ordinamento sopranazionale tra “intransigenza” e “resistenza” in F. Gabriele, G. Bucci, C.P: Guarini (a cura di), Il mercato: le imprese, le istituzioni, i consumatori, Bari, 2002, p. 287 e ss.

V. Caputi Jambrenghi, Gli aiuti di Stato nel diritto comunitario vivente, in Riv. it. dir. pub. com., 1998, p. 1262, sottolinea la piena autonomia della materia riguardante gli aiuti nell’ambito delle regole volte alla tutela della concorrenza, deducendone la incontrastata prevalenza nel diritto comunitario vivente della “tendenza ostile nei confronti dell’intervento in se stesso dello Stato nell’economia”. Un giudizio di merito negativo a priori, dunque, a volte subdolamente mascherato da censura sulla legittimità dell’intervento più che sul suo contenuto. Conviene G. Tesauro, op. ult. cit., p. 648, sullo spostamento dell’accento dal polo della “responsabilità ed autonomia degli Stati nelle scelte di politica economica ed industriale” verso quello del “mercato interno e della concorrenza”, imputabile prevalentemente all’applicazione della disciplina sugli aiuti di Stato.

[106] V. Caputi Jambrenghi, Gli aiuti di Stato nel diritto comunitario vivente, cit.,1281 e ss. criticando l’ampiezza del potere discrezionale accordato alla Commissione in sede di verifica della compatibilità degli aiuti con il mercato comune, sottolinea, soprattutto alla luce della piena giustiziabilità su ricorso del concorrente contro la concessione dell’aiuto, la necessità di un “criterio di giudizio meno aleatorio che soprattutto consenta di precisare in diritto positivo gli elementi – almeno quelli fondamentali – di una fattispecie assai rilevante nell’economia dei singoli Stati per gli effetti economico-sociali che vi si ricollegano”.

Nello stesso senso G. Tesauro, op. ult. cit., p.649, ritiene che i regolamenti del 1998 e 1999 riaffermino l'esigenza che il processo di produzione delle norme di diritto derivato non sia unicamente affidato ad atti di soft law della Commissione ma avvenga, “almeno in certa misura”, mediante atti regolamentari in senso stretto, assunti dal Consiglio (previa consultazione del Parlamento europeo) “in coerenza con il sistema di articolazione delle fonti già ampiamente sperimentato con riferimento alle norme antitrust (art. 81 ss.)”.

[107] Sentenza del 22 novembre 2001, causa C-53/00

[108] Cfr. sentenze del TPG del 27 febbraio 1997, FFSA, causa T-106/95 e del 10 maggio 2000, SIC, causa T-46/97

[109] Così L. Armati, La Corte di Giustizia della Comunità Europea chiarisce il rapporto tra finanziamento dei servizi pubblici e regole comunitarie sugli aiuti di Stato in http://www.amministrazioneincammino.luiss.it.

[110] Sul tema dell’interazione fra le norme regolanti il divieto di aiuti di Stato e quelle relative ai servizi di interesse economico generale, sia consentito rinviare a G. E. Berlingerio, Studi sul pubblico servizio, Milano 2003, in particolare cap. VI.

[111] In questo senso v. L. Nivarra, La tutela civile: profili sostanziali, in AA.VV., Diritto antitrust italiano, vol II, Bologna 1993, p. 1450 e s., ripreso anche da M. Antonioli, Concorrenza ed antitrust: aspetti pubblicistici, in Trattato di diritto amministrativo europeo, cit., p. 601 e ss.

[112] Per questo particolare aspetto v., fra tutti, G. Alpa, Il diritto dei consumatori, Bari, 1995, p.43 e ss.

[113] Che si tratti poi de “l’oggetto” della tutela, cioè del bene finale al cui raggiungimento l’introduzione della norma è tesa o piuttosto di una “regola” strumentale al conseguimento di altri beni come il benessere e/o l’efficienza del sistema produttivo (così C. Marzuoli, Mercato e valore dell’intervento pubblico, in Le Regioni, 1993, p. 1953-1609; C. Piccioli, Contributo all’individuazione del fondamento costituzionale della normativa a tutela della concorrenza (c.d legge antitrust), in Riv. trim. dir. pubbl., 1996, 54 e ss.) oppure la crescita economica e/o la piena occupazione (così A. Toffoletto, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per la violazione della normativa antitrust, Milano 1996, p.145) è tema alquanto dibattuto, come si è avuto modo di constatare più volte nelle pagine che precedono. Appare tuttavia poco condivisibile la posizione di M. Antonioli, op.ult.cit., p.604 (cfr. sul tema altresì il più recente M. Antonioli, Mercato e regolazione, Milano 2001, in particolare p.7 e ss), il quale opta per l’individuazione del “destinatario” della tutela antitrust nel mercato sulla scorta dell’argomentazione che le teoriche che intravedono oggetti di tutela ulteriori, “contrassegnati da una genericità difficilmente contestabile”, sottendano, in realtà, “a quella ideologia attribuita ai costituenti, secondo cui il mercato, ove non coniugato alle libertà personali dell’individuo, implicherebbe addirittura un disvalore”( in questo senso cfr. G. Amato, Il mercato nella Costituzione, in Quad. cost. 1992, p. 19). Vi sono tuttavia posizioni che pur negando che il mercato rappresenti un valore in sé, sia in ambito nazionale che in ambito comunitario, intravedono in esso “una istituzione sociale, uno strumento che serve per conseguire utilità” (in questo senso M. A. Cabiddu, Servizi tra organizzazione amministrativa e principi costituzionali, cit., p. 24 e s., la quale richiama, sulla necessità di governare il mercato per orientarlo al perseguimento di scopi non solo economici, L.Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze, Bari 2000 e più in generale G. Guarino, Il governo del mondo globale, Firenze 2000.

Il mercato, invero, come regola, come chiave di accesso a determinati valori cui deve necessariamente essere accostato per assumere un’identità definita, più che “istituzione sociale” può forse essere definito come istituzione che, nel nostro sistema costituzionale ed in questo periodo storico, è volto al sociale senza essere suscettibile, in sé, di assurgere a valore – né tantomeno a disvalore- in quanto neutrale.

[114] Il tema, sul quale esiste ormai vasta letteratura, si incrocia con quello della interpretazione della “Costituzione economica” alla luce dell’influenza comunitaria. Per la prima tesi, la Costituzione italiana , pur affermando la compresenza di interventi pubblici nel mercato affermerebbe la preminenza di quest’ultimo (in questo senso v. G. Morbidelli, Iniziativa economica privata (voce) in Enc. dir., vol. XXXVI, Milano 1987; G. Guarino, Pubblico e privato nella economia. La sovranità tra Costituzione ed istituzioni comunitarie, in Quad. cost, 1992, 21-64; M.P. Chiti, Il Trattato sull’Unione europea e la sua influenza sulla costituzione italiana, in Riv.it, dir. pub. com., 1993, p. 357); altra dottrina osserva che nessuna codificazione del mercato concorrenziale deriverebbe dall’affermazione del principio di iniziativa privata, in considerazione , in particolare, dell’introduzione da parte del legislatore costituzionale del limite ad esso derivante dal rispetto dell’utilità sociale che legittima altresì i monopoli pubblici (in questo senso cfr. in particolare G. Alpa, op.ult.cit, p. 45).

[115] Cfr. F. Merusi, La natura delle cose come criterio di armonizzazione comunitaria nella disciplina sugli appalti, in Riv. it dir. pub. com. 1997, p.39 e ss.

[116] In questo senso v. G. Tesauro, Diritto comunitario, cit., p. 576, il quale definisce questa enumerazione, contenuta nell’art. 82, come meramente esemplificativa. Come in numerosi altri campi del diritto comunitario la definizione delle fattispecie, pure rimanendo comunque estremamente flessibile poiché legata fondamentalmente alla sostanza più che alla forma, si avvale delle indicazioni più dettagliate derivanti in parte dal diritto derivato ma soprattutto dalla giurisprudenza.

[117] Si tratta in particolare delle ipotesi disciplinate nella norma di cui all’art. 3 del detto regolamento, così come successivamente modificato: a) dell’ipotesi di fusione tra due o più imprese prima indipendenti; b) dell’ipotesi di acquisto del controllo totale o parziale di una o più imprese da parte di soggetti che controllano già un’impresa o da parte di una o più imprese; l’acquisto può avvenire direttamente o indirettamente, con l’acquisizione di quote di capitale o di qualsiasi elemento del patrimonio, contrattualmente o per altra via.

[118] Cfr. tra le numerose pronunce, Alsatel, causa 247/86, sent. 5 ottobre 1988, Racc. p. 5987, pt.11.

[119] A questo scopo è tesa la Comunicazione sulla cooperazione tra la Commissione e le autorità nazionali di concorrenza (GUCE C 313 del 15 ottobre 1997).

[120] Così V. Caputi Jambrenghi, L’organismo di diritto pubblico in Dir. amm. 2000, in particolare p. 39. L’A. aveva sottolineato come il ridimensionamento del dogma della personalità giuridica e quello del collegamento fra finalità di interesse pubblico e specialità degli strumenti giuridici per il suo perseguimento nonché la perdurante necessità di affinare le tecniche interpretative del requisito di natura teleologica inducessero a prevedere “l’ingresso di figure soggettive private nel perseguimento di finalità di rilevanza collettiva ed anche con l’incremento dell’uso di tecniche proprie del diritto comune”.

[121] L’espressione è di V. Caputi Jambrenghi, op.ult.cit., p. 15. Cfr. nello stesso senso F. Scoca, Le amministrazioni come operatori giuridici, in AA.VV., Diritto amministrativo, Bologna 1998, p.511.

[122] R. Alessi, Le prestazioni amministrative rese ai privati, cit., p. 5.

[123] Si tratta delle conclusioni del 23 settembre 1999, nella causa C-176/98, Holst Italia s.p.a./Comune di Cagliari e a..

[124] Così per lo meno nelle parole dell’avvocato generale La Pergola, conclusioni in Bfi Holding Bv/Gemeente Arnhem e altri, sentenza del 10 novembre 1998, C-360/96, in Foro it 1999, IV, 139, il quale afferma che devono essere ricomprese nel novero anche entità “non dotate di propria personalità giuridica”.

Il tentativo di A. Police, Dai concessionari di opere pubbliche alle società per azioni di “diritto speciale”: problemi di giurisdizione, nota a Cons. Stato , Sez. VI, n.498/95, in Dir. proc. Amm. 1996, p.147 e ss., di restituire rilevanza al requisito della personalità giuridica ed anzi alla pubblicità di essa, è criticato da D. Marrama, Contributo sull’interpretazione della nozione di “organismo di diritto pubblico” in Dir. amm. 2000, p. 600 e ss., il quale intravede negli effetti di un’ermeneutica siffatta il rischio che tradisca lo scopo principale della normativa in esame e cioè quello di disgiungere l’individuazione dei soggetti tenuti al rispetto delle regole dell’evidenza pubblica da requisiti di carattere puramente formale. In proposito v. anche L. Righi, La nozione di organismo di diritto pubblico nella disciplina comunitaria degli appalti: società in mano pubblica e appalti di servizi, in Riv. it. dir. pub. com. 1996, p 1267 ss.    

[125] La possibilità di tracciare una linea di demarcazione fra i due enti è posta in termini problematici da V. Caputi Jambrenghi, op.ult.cit., p. 34, ed affrontata da G. Greco, Organismo di diritto pubblico, atto secondo: le attese deluse in Riv. it dir. pub. com, 1999, I, p.184 ma soprattutto in Id, Ente pubblico, impresa pubblica, organismo di diritto pubblico, in Riv. it. dir. pub. com. 2000, p. 839 e ss., ove, partendo da una riflessione sillogicistica sulla contestuale menzione di organismo e di impresa pubblica nella direttiva 93/38, sugli appalti nei settori c.d. ex esclusi, aveva prospettato la distinguibilità dei due concetti, per poi prendere atto che la stessa giurisprudenza comunitaria di fatto li sovrappone, utilizzando un criterio di differenziazione estremamente labile, e che questo impedisce di adottare la nozione di organismo di diritto pubblico come riferimento idoneo a definire un concetto di ente pubblico (non economico) valido per tutti gli Stati e “soprattutto in Italia dove definizioni di questo tipo sono sempre mancate”.

[126] Sull’adozione del criterio sostanziale aveva già detto tutto F. Merusi, La natura delle cose come criterio di armonizzazione comunitaria nella disciplina sugli appalti, in Riv. it dir. pub. com. 1997, p.39 e ss., il quale partendo da un’analisi della pandettistica giunge all’adozione del concetto di “organo indiretto della pubblica amministrazione” per ricondurre alla giurisdizione amministrativa tutte le controversie riguardanti gli appalti pubblici: lo scritto è infatti precedente all’emanazione del d.lgs. n.80 del 1998.

Sul connotato di sostanziale insito nell’applicazione dei criteri per l’individuazione della nozione di organismo di diritto pubblico v., da ultimo, Corte di giustizia CE, C-214/00, 15 maggio 2003, Commissione delle Comunità europee/Regno di Spagna : “Al fine di poter qualificare un ente come organismo di diritto pubblico ai sensi dell'art. 1 lett. b) delle direttive Cons. C.E.E. 14 giugno 1993, n. 92/50, 93/36 e 93/37, in materia di appalti pubblici, è necessario che concorra l'esistenza di un triplice gruppo di requisiti, e precisamente a) il possesso della personalità giuridica, b) lo svolgimento di attività finanziata in modo maggioritario dallo Stato o da altri Enti pubblici od organismi di diritto pubblico, ovvero soggetta al loro controllo ovvero condotta con organismi di amministrazione, direzione o vigilanza costituiti in misura non inferiore alla metà da componenti designati dai medesimi Enti, c) la sua istituzione per soddisfare specificamente bisogni di interesse generale non aventi carattere industriale o commerciale; tale nozione deve essere interpretata estensivamente, dovendo essere ricompresi in tale contesto anche le società di diritto privato che soddisfano i prefati requisiti, poichè è indifferente la forma di costituzione degli organismi de quibus”. Ma già Corte di giustizia C.E., 15 gennaio 1998, causa C-44/96, Mannesmann Anlagenbau Austria e a., in Racc. p. I-73, ptt. 20 e 21; 10 novembre 1998, causa C-360/96, Bfi Holding, in Racc. p. I-6821, ptt 61 e 62; 1° febbraio 2001, causa C-237/99, Commissione/Francia, in Racc. p. I-939, ptt. 41-43; 12 dicembre 2002, causa C-470/99, Universale-Bau e a., sul sito Internet http://curia.eu.int/it.

[127] V. in questo senso D. Marrama, op. cit., p.606 e ss., il quale coglie le linee direttrici di questa categorizzazione proprio nelle sentenze Bfi Holding Bv/Gemeente Arnhem e altri, cit., ed in Mannesman/Anlagebau Austria del 15 gennaio 1998, causa C-44/96, da altri citate in contesti affatto differenti. La possibilità di utilizzare il descritto criterio era, in realtà, già stata prospettata da V. Caputi Jambrenghi, op.ult.cit., p.34 ma in termini problematici e dubitativi; il riferimento sembra, tuttavia, essere sfuggito all’autore citato in precedenza che elabora la sua ricostruzione partendo da una critica sia all’approccio “fideistico” al criterio teleologico (fra i sostenitori del quale si cita anche M. Chiti, I signori del diritto comunitario: la Corte di Giustizia e lo sviluppo del diritto amministrativo europeo in Riv. it dir. pub. com., 1991, p.796 e ss.), sia a quello da lui definito “categoriale” ed attribuito ad alcuni autori, pare invero in forza di una lettura poco condivisibile degli stessi.

[128] Sentenza del 10 maggio 2001, cause riunite c.223/99 e C-260/99), Agorà s.r.l./Ente autonomo Fiera internazionale di Milano ed altri, in Urb. e app. 2001, p. 977. B. Mameli, Commento alla circolare del Ministero per le politiche comunitarie 19 ottobre 2001, n.12727 in Urb. e app. 2002, p.75 ritiene che anche il Consiglio di Stato, con la relativa ordinanza di rimessione, sembra avere abbandonato quella sicurezza che aveva contraddistinto la passata giurisprudenza sulla natura di una s.p.a. a carattere commerciale con evidente finalità di lucro. Ha messo in rilievo R. Villata, Pubblici servizi, Milano 2003, p.178 e ss, che la sentenza sull’Ente Fiera, caratterizzandosi per un profilo di novità rispetto a quelle precedenti, propone una nozione di organismo di diritto pubblico, con indicazioni di principio circa i bisogni di interesse generale di carattere non industriale o commerciale; attribuisce valore determinante alla natura imprenditoriale dell’attività, giacchè sottolinea le modalità di gestione, condotta secondo criteri di rendimento, efficacia e redditività, con la piena assunzione del relativo rischio; ed infine “senza contraddire BFI Holding, riconosce tuttavia un maggior peso alla circostanza che l’ente operi in un mercato concorrenziale”. L’A. conclude ritenendo che a seguito di tale pronuncia sembra chiarito che “ad un soggetto agente da imprenditore in mercati concorrenziali non sembra predicabile la qualifica di organismo di diritto pubblico”.

Tuttavia anche la sentenza della Corte da ultimo ricordata sembra subire l’influenza dello “scopo” per il quale la definizione è ricercata, in questo caso uno scopo opposto rispetto a qualche anno addietro; cfr. infatti sulla rilevanza pubblica dell’organizzazione delle Fiere il paragrafo che segue sull’argomento.

[129] Determinazione del 13 luglio 2000, n.33, in G.U. 1 agosto 2000, n.178.

[130] Sentenza del 18 novembre 1999, causa C-107/1998, pubblicata in Urb. e app. 2000, p.227. Sulla sentenza cfr. G. Greco, Gli affidamenti in house di servizi e forniture, le concessioni di pubblico servizio e il principio della gara in Riv. it. dir. pub. com., 2000, p. 1461 e ss; C. Alberti, Appalti in house, concessioni in house ed esternalizzazione, in Riv. it. dir. pub. com., 2001, p.495 e ss.; da ultimo v. R. Villata, Pubblici servizi, 3° ed., p. 166 e ss.

[131] Il fenomeno, ormai diffuso (basti pensare a società come l’ATAC o l’ACEA partecipate dal Comune di Roma che sono affidatarie di appalti anche all’estero), è preso in considerazione dal Consiglio di Stato nella citata ordinanza di rimessione della vicenda Ente Fiera alla Corte di Giustizia.

Sul tema, assai dibattuto, della legittimità di svolgimento di attività imprenditoriale da parte delle società a capitale pubblico fuori dal territorio degli enti soci v, da ultimo, G. Caia, L’attività imprenditoriale delle società a prevalente capitale pubblico locale al di fuori del territorio degli enti soci in Foro amm. TAR, 2002, p.1565 e ss.; R. Villata, Pubblici servizi, 3° ed., Milano 2003, in particolare p. 206 e ss; E. Scotti, Società miste, legittimazione extraterritoriale e capacità imprenditoriale: orientamenti giurisprudenziali e soluzioni legislative a confronto, in Riv. it. dir. pub. com., 2002, p.777 e ss.

[132] Sia consentito fare riferimento a G. E. Berlingerio, Studi sul pubblico servizio, cit., in particolare cap. IV.

[133] 19 ottobre 2001, n.12727 in Urb. e app. 2002, p.69.

[134] Sul punto v. da ultimo B. Mameli, L’organismo di diritto pubblico, Milano 2003, in particolare p. 94 e ss. ove l’A. analizza criticamente l’inserimento degli enti pubblici economici nella elencazione degli organismi di diritto pubblico contenuta nella Merloni ter che,a suo dire, “potrebbe trasformarsi in un escamotage per consentire, in applicazione della deroga contenuta nell’art. 6 della direttiva sui servizi, la mancata applicazione delle procedure dell’evidenza pubblica”. L’A. fa un riferimento specifico altresì al settore dei servizi pubblici locali. In particolare su questo tema v. da ultimo A. Caroselli, Organismo di diritto pubblico ed imprese gestori di servizi pubblici locali. Brevi riflessioni, in www.diritto dei servizi pubblici.it, 9 settembre 2003

R. Villata, Pubblici servizi, 3° ed, cit., p. 185 e ss. individua, sulla scorta di un’analisi anche della più recente giurisprudenza, una tendenza del Consiglio di Stato a trascurare “la circostanza che siffatta nozione è strettamente funzionale all’applicazione della normativa comunitaria sugli appalti e, ove sotto soglia, di quella relativa ai lavori pubblici” (Sul tema delle ripercussioni della nozione comunitaria di organismo di diritto pubblico al di fuori del diritto amministrativo degli appalti, v. però B. Mameli, op.ult.cit., p.160 e ss ove si prospetta l’enucleazione di un “diritto funzionale”, lontano dall’applicazione di definizioni formali, che propugnerebbe l’applicazione della nozione in esame, per es, in materia di accesso ai documenti amministrativi: cfr. Cons. Stato, ad.pl., n. 5 del 22 aprile 1999). Il massimo giudice amministrativo italiano esaurirebbe l’indagine nel riscontro della sussistenza di una finalità d interesse generale, senza approfondire ulteriormente la natura non industriale o commerciale del bisogno soddisfatto, trascurando del tutto l’elemento della imprenditorialità della gestione, viceversa valorizzato dalla recente pronuncia della Corte di giustizia sull’Ente Fiera di Milano, sembrando ancora orientato a ritenere almeno parzialmente sovrapponibili le nozioni di “impresa pubblica” ed “organismo di diritto pubblico”.

[135] Così B. Mameli, op.ult.cit., p.157 e ss. Tuttavia, almeno formalmente, nella giurisprudenza italiana appare costante il riferimento ai requisiti fissati dal diritto comunitario: cfr., ad es., già Consiglio di Stato, sez. VI, n. 1206 del 2 marzo 2001, “La normativa nazionale, ricalcando quella comunitaria, subordina l’attribuzione della qualifica di "organismo di diritto pubblico" al possesso di tre requisiti: il requisito della personalità giuridica; la sottoposizione ad un'influenza pubblica; il soddisfacimento dei bisogni generali della collettività, non aventi carattere industriale o commerciale. In relazione a tale ultimo requisito, per bisogno non industriale o commerciale non si intende la non imprenditorialità della gestione, ma la funzionalizzazione per il soddisfacimento di bisogni generali della collettività; inoltre tale requisito non implica che il soggetto sia incaricato unicamente di soddisfare bisogni del genere, ed anzi consente l’esercizio di altre attività”; nonché da ultimo Consiglio di Stato, sez. V, n. 4748 del 22 agosto 2003 “L’individuazione degli organismi di diritto pubblico consegue all’accertamento di tre distinti requisiti richiesti cumulativamente: il possesso della personalità giuridica; la sussistenza di una dominanza pubblica; il perseguimento della soddisfazione di interessi generali di carattere non industriale o commerciale. Sussiste il requisito della dominanza pubblica nel caso di possesso da parte di soggetti pubblici della maggioranza delle quote azionarie; per contro è da escludersi che il controllo pubblico richiesto, sia esclusivamente quello esercitatile da parte di Enti pubblici con modi e forme diversi dalla partecipazione maggioritaria ed incentrati su controlli amministrativi sull’organizzazione e sull’attività della società. Il requisito del perseguimento di interessi generali è soddisfatto, fra l'altro, nel caso di esercizio di un servizio pubblico”.

[136] V. in particolare il paragrafo terzo della prima parte.

[137] Come correttamente si osserva nella citata circolare del Ministero delle politiche comunitarie.

[138] Nelle cause C-367/98, C-483/99 e C-503/99, Commissione/Portogallo, Commissione/Francia e Commissione/Belgio.

Va premesso che la sentenza sembra accogliere solo parzialmente le indicazioni dell’avvocato generale M. Dàmaso Ruiz-Jarabo Colomer ha reso nelle sue conclusioni (pubblicate il 3 luglio 2001); o meglio, ne accoglie gli effetti senza seguirne il ragionamento giuridico che presentava invece caratteri di novità ed una presa di posizione condivisibile sull’interpretazione della norma di cui all’art. 295 del Trattato.

L’avvocato generale aveva ritenuto, infatti, che la Commissione compisse un errore di ragionamento nell’interpretazione dell’art 295 CE, il quale dispone recisamente che “il presente Trattato lascia del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri”.

La Commissione ne fornisce un’interpretazione (cfr. anche la Comunicazione sugli aspetti giuridici degli investimenti intracomunitari) ad effetto restrittivo; l’espressione “regime di proprietà” viene considerata un riferimento a due sole situazioni, una contrapposta all’altra: la proprietà pubblica e quella privata. La Commissione sostiene che nei casi di specie si tratti non di una partecipazione pubblica di controllo in un’impresa privata ma di prerogative relative alla suddivisione della proprietà fra persone giuridiche private, alle quali, quindi, l’art. 295 non si applica.

L’avvocato generale aveva ritenuto, invece, che la menzionata disposizione andasse interpretata in un senso più ampio, per tre motivi fondamentali: essa si trova nella settima parte del Trattato, cioè quella dedicata alle disposizioni generali e finali che si applicano trasversalmente a tutte le regole in esso contenute; la formulazione è perentoria ed incondizionata, per cui non lascia adito a dubbi; l’art. 295 trova la sua legittimazione direttamente nella dichiarazione di Schuman del 9 maggio 1950.

Dall’insieme di questi elementi si può dedurre che l’espressione “regime di proprietà” non può certo riferirsi alla regolamentazione civilistica delle relazioni patrimoniali ma piuttosto all’insieme delle regole di qualsiasi natura che conferiscono il “controllo” su di una impresa. Il comune denominatore delle misure in esame è esattamente quello di attribuire allo Stato degli strumenti di intervento nell’attività di alcune imprese d’interesse strategico per l’economia nazionale al fine di imporre loro determinatii obiettivi di politica economica. Si tratta della materia per l’appunto riservata alla sovranità degli Stati membri dall’art. 295, nell’interpretazione suggerita. Questa interpretazione è anche l’unica che permetta di conservare un effetto utile all’art. 295 che, altrimenti, sarebbe una norma pleonastica (il che non può darsi, alla luce dei basilari principi comuni sull’interpretazione delle leggi) tendente a ribadire una circostanza evidente: che il Trattato non incide sulla configurazione del regime giuridico del patrimonio nei singoli Stati.

Accedendo all’interpretazione della Commissione, inoltre, si giungerebbe a trattare in maniera diversa situazioni che producono effetti identici dal punto di vista delle libertà fondamentali (proprietà pubblica delle imprese e “controllo” pubblico attraverso le “golden shares”). In conclusione l’avvocato generale concordava con la tesi della difesa spagnola che “Qui peut le plus, peut le moins”: difficilmente si potrebbe concepire che il Trattato consenta di conservare le partecipazioni dello Stato nella proprietà delle imprese, con il massimo di restrizione della libertà di stabilimento e di circolazione dei capitali che esse comportano, ed impedisca, invece, un regime liberalizzato ma sottoposto ad alcune condizioni amministrative in sé non discriminatorie. Questo non significa che le misure, pure se considerate non per se discriminatorie, non siano sottoposte alle regole imperative del Trattato, in particolare quelle riguardanti il divieto di discriminazione in base alla nazionalità e la difesa della libera concorrenza. Saranno ritenute accettabili, allora, solo quelle misure che lo Stato avrebbe potuto adottare se avesse mantenuto l’impresa nel regime di proprietà pubblica. Fra queste sicuramente rientrano quelle che permettono l’intervento dello Stato nella scelta dei soci di maggioranza delle imprese private, poiché l’identità degli azionisti riveste un’importanza primordiale per le opzioni strategiche. In questo senso l’avvocato generale fa anche un riferimento (anche se velato) a vicende come quella Montedison o Idrocantabrico: sostiene che l’acquisizione di partecipazioni in un’impresa privatizzata da parte di un’impresa pubblica di un altro Stato membro (a maggior ragione se essa gode in patria di un monopolio) sia di particolare delicatezza poiché comporta un rischio ulteriore di restringimento del campo nel quale la concorrenza ha libero gioco, compromettendo, di conseguenza, gli obiettivi della privatizzazione. Viene sottolineato, infine, che in assenza di una normativa comunitaria di settore, non è compito della Corte cimentarsi in valutazioni complesse di politica economica tendenti ad accertare la obiettiva giustificazione di queste misure. L’avvocato generale, conscio del “judicial restraint” insito nella sua interpretazione, conclude con l’augurio che il legislatore comunitario termini il lavoro cominciato nel 1957

[139] Sotto questa denominazione convenzionalmente si comprendono anche altri fenomeni affini come il diritto di nomina del presidente o di parte del Consiglio di amministrazione, il contingentamento dei pacchetti azionari vendibili alle società straniere o la subordinazione della vendita ad un’autorizzazione ministeriale.

[140] E' alla luce di questo principio che la Corte ha valutato se fossero discriminatorie le azioni che attribuivano poteri speciali le quali consentivano rispettivamente: in Portogallo, di vietare ai cittadini di un altro Stato membro acquisizioni che superino un determinato numero d'azioni; in Francia e in Portogallo, di esigere una previa autorizzazione o una previa notifica ogniqualvolta l'acquisizione superasse un determinato numero di azioni munite del diritto di voto; in Francia e in Belgio, di opporsi ex post alle decisioni di cessioni.

[141] Sentenza Commissione/Italia del 23 maggio 2000, C-58/99, Racc. p.I-3811 riguardante i poteri attribuiti al Ministro del Tesoro dalle norme di cui agli art. 1, n.5 e 2 del d.l. 31 maggio 1994, n.332, convertito con modificazioni nella legge 30 luglio 1994, n.474 nonché o decreti relativi ai poteri speciali nel caso delle privatizzazioni dell’ENI s.p.a. e di Telecom Italia s.p.a., con cui si condannava la Repubblica italiana per violazione delle norme sul diritto di stabilimento e sulla libera circolazione dei capitali.

[142] Per la disamina v. P. Marchetti, (a cura di), La privatizzazione delle imprese pubbliche, Milano 1996 nonché a R. Garofoli, Le privatizzazioni degli enti dell’economia, Milano 1998.

[143] Sulle vicende della redazione della l. n. 474/1994 di rinvia a C. Carcelli, Le procedure di privatizzazione del patrimonio mobiliare dello Stato e degli enti pubblici, in E. Bani, C. Carcelli, M.B. Pieraccini, Privatizzare. I modi e le ragioni, Padova 1999, p.77 e ss.

[144] In questo senso F. Merusi, La Corte di giustizia condanna la golden share all’italiana ed il ritardo del legislatore in Diritto pub. comp. ed eur. 2000, II, p.1238, il quale si sofferma anche a ricercare le ragioni (facete) del ritardo del legislatore italiano nell’adeguare la normativa a seguito censure di violazione del Trattato da parte della Commissione. Nel senso di una differenziazione della versione italiana da quelle originali francese ed inglese, v. anche R. Garofoli, Golden shares e Authorities nella transizione dalla gestione pubblica alla regolazione dei servizi pubblici, in Riv. it. dir. pub. com. 1998, p. 189 e ss.

[145] R. Garofoli, op. ult. cit., p.183, con l’analisi della dottrina contrastante.

[146] F. Merusi, op.ult. cit., p. 1238.

[147] Cit.

[148] Le cui fasi sono state analizzate più diffusamente nel paragrafo terzo della prima parte.

[149] In questo senso v. F. Benvenuti, Appunti di diritto amministrativo, parte gen., 4° ed, Padova 1959, p. 199 e s., il quale però sostiene che la “polizia giuridica”, definita come la conservazione dei valori giuridici e la tutela della convivenza sociale, sia esclusa dal campo dei servizi laddove questi vengano considerati come quel “settore dell’azione amministrativa in cui lo Stato e gli Enti pubblici minori, per procurare la soddisfazione di un interesse pubblico, si inseriscono nel processo produttivo, intervenendo con una propria o nell’altrui creazione di utilità”: definizione espressamente mutuata dalle scienze economiche e quindi priva di un valore giuridico bene definito.

[150] Sulla interazione fra le norme che disciplinano il pubblico servizio e quelle regolanti l’uso dei beni pubblici v. V. Caputi Jambrenghi, Premesse per una teoria dell’uso dei beni pubblici, Napoli 1979, in particolare p.218 e ss. Da ultimo cfr. anche G.E. Berlingerio, Studi sul pubblico servizio, cit., cap. II.

[151] In questo senso v. M. Bazex, Le juge administratif et l’application du droit national et communautaire de la concurrence, in Rev. Comcurrence et consommation 2000, n.16, p. 13.

[152] J. Caillosse, Le droit administratif français saisi par la concurrence, in AJDA 2000, p.102.

[153] Si Tratta della sentenza 19 gennaio 1994, C-364/1992, Sat Fuluggesellschaft Mbh Eurocontrol, cit., pt.43. Nelle sue conclusioni l’avvocato generale Tesauro, al punto 50, sottolinea come si tratti di attività e funzioni che comprendono quelle relative alle attribuzioni essenziali del potere pubblico in settori come l’amministrazione generale e fiscale, la giustizia, la sicurezza e la difesa nazionale.

La sentenza e le implicazioni che ne derivano verranno analizzate più diffusamente nell’ultimo paragrafo di questa parte.

[154] V. in particolare la sentenza del 16 novembre 1977, Inno/ATAB, causa 16/77, Racc. 1977, p. 2115.

[155] Il c.d. “test di proporzionalità” può sinteticamente articolarsi in tre quesiti riguardanti la necessità della misura contestata, la sua adeguatezza a conseguire l’obiettivo ed il suo caratterizzarsi come la meno restrittiva possibile.

Sul principio di proporzionalità v., fra tutti, Ciciriello, Il principio di proporzionalità nel diritto comunitario, Napoli 1999; Canizzaro, Il principio della proporzionalità nell’ordinamento internazionale, Milano, 2001, in particolare p.3-6 ove l’a. sottolinea come la nozione di proporzionalità nell’ordinamento internazionale abbia preso le mosse dall’elaborazione compiuta dal pensiero giuspubblicistico. L’analisi dei limiti dell’azione coercitiva della pubblica amministrazione, in particolare nel c.d. diritto di polizia, conduce a rilevare, nella maggior parte delle ipotesi di azione pubblica, il vincolo al perseguimento di finalità indicate da una norma superiore. La dottrina tedesca, preso atto che il principio di proporzionalità opera in un sistema di finalità predeterminate, elabora il limite posto ai pubblici poteri e consistente nel mantenimento di un nesso “di proporzionalità”, per l’appunto, fra finalità e mezzi posti in essere per la loro realizzazione. In questa prospettiva, la funzione del principio di proporzionalità si rivela essere la delimitazione e precisazione della sfera di discrezionalità concessa ai pubblici poteri. I criteri e le intensità del giudizio, dovranno, dunque, essere diversificati a seconda del tipo di interessi considerati; per questo motivo, come osservato, il contenuto del principio si articola in una tripartizione che attiene alla verifica dei connotati di necessità, idoneità, e proporzionalità in senso stretto. Quest’ultima, in particolare, viene considerata come un parametro di misurazione della coerenza sistematica nell’ambito dell’ordinamento, e dunque un veicolo di trasformazione del giudizio di proporzionalità in un bilanciamento dei valori tutelati dall’ordinamento. Negli ordinamenti che contemplano limitazioni dei poteri pubblici fondate sul principio di proporzionalità, esse sono configurate come corollario di legalità e razionalità dell’azione pubblica.

Nella Comunità europea l’applicazione del siffatto principio ha sede in particolare nel controllo sull’esercizio delle competenze comunitarie e nel coordinamento fra l’esercizio di competenze statali e gli obblighi derivanti dal Trattato.

[156] Il leading case su questo tema è rappresentato dalla sentenza 19 maggio 1993, Corbeau, causa 320/1991, Racc. I-2533.

[157] Per A. Marceau, Police administrative et droit public de la concurrence in AJDA 2002, p. 199, il giudice, dunque, non considererà una misura illegittima per la mera violazione delle norme di concorrenza se la violazione stessa è strettamente necessaria per garantire il mantenimento dell’ordine pubblico.

[158] A quest’ultimo modello sono stati ricondotti i procedimenti di approvazione delle tariffe di handling aeroportuale (legge n. 316/1991) ed i piani di programmazione produttiva adottati dai consorzi del prosciutto San Daniele e del Parmigiano reggiano. I provvedimenti sono stati oggetto di istruttorie dell’A.g.c.m. conclusesi rispettivamente con i provvedimenti A56, IBAR/SEA del 16 marzo 1994 e n. 1138 del 19 giugno 1996.

[159] Cfr. in particolare M.Todino -P.Cassinis, Misure normative e applicabilità alle imprese della disciplina della concorrenza in Conc. e merc. 2001, p.688 e ss., i quali sottolineano tre elementi della fattispecie che avrebbero avuto rilevanza fondamentale nella decisione dell’Autorità: il grado di autonomia lasciato ai consorzi, la natura di mero atto di controllo degli atti di approvazione, la carenza di istruttorie da parte degli organi competenti.

[160] Pubblicata in Foro it. n. 4/2000 con nota di Pardolesi; in Giorn. dir. amm. N. 4/2000 p.356 con nota di Fonderico e in Economia dell’azienda e Diritto dell’impresa n.1/2000 con nota di S. Cadeddu.

[161] Cfr. sul tema la nota sentenza Arduino, del 19 febbraio 2002, C-35/99, in Racc. I-1529, nella quale la Corte ha ritenuto che gli artt. 5 e 85 del Trattato CE (divenuti artt. 10 CE e 81 CE) non ostino all'adozione da parte di uno Stato membro di una misura legislativa o regolamentare che approvi, sulla base di un progetto stabilito da un ordine professionale forense, una tariffa che fissa dei minimi e dei massimi per gli onorari dei membri dell'ordine, qualora tale misura statale sia adottata nell'ambito di un procedimento come quello previsto dal regio decreto legge 27 novembre 1933, n. 1578, come modificato.

[162] L’osservazione è di M.Todino-P.Cassinis, Misure normative e applicabilità alle imprese della disciplina della concorrenza, entrambi funzionari dell’Agcm. Neppure sorprende che i due autori contestino al g.a. di essersi mosso su di un piano giuridico formale che contrasta con i parametri di valutazione adottati dalla giurisprudenza comunitaria in tema di applicabilità delle regole di concorrenza. Sulla “sostanzialità” dei criteri di valutazione giuridica delle fattispecie adottati nel diritto comunitario, v. le osservazioni contenute nel paragrafo sull’organismo di diritto pubblico.

[163] Milano, sez.I, 7 gennaio 1998, n.57, in TAR 1998, I, 908. Anche in Riv. it dir. pub. com 1998, p.472 con nota di Antonioli. Pende appello in Consiglio di Stato.

[164] n.6167/2000.

[165] Sentenza n. 72 del 9 aprile 1969, sulla quale v. il commento di L. Musselli, Direttive comunitarie e creazione amministrativa di un mercato nei servizi pubblici in Dir. amm. 1998, p.130 e ss.

[166]  Sul tema v. L. De Lucia, La regolazione amministrativa dei servizi di pubblica utilità, Torino 2002.

[167] Sentenza 15 gennaio 2002, causa C-439/1999, Commissione delle Comunità europee/ Repubblica italiana, pubblicata in Riv. Dir. pub. com. ed eur., 2002, II, p.787 e ss. Con note di R. Caranta, Diritto comunitario e diritto interno (vecchio e nuovo) in materia di fiere e L. Patruno, Fiere ed esposizioni: dalla promozione territoriale alla “vetrina” virtuale.

[168] La disposizione sembra porsi in contrasto con il principio dell’home country control espresso più volte dalla Corte ma che trova la sua formulazione più nota nella sentenza Cassis de Dijon del 20 febbraio 1979, causa 120/78, Racc. 649. In base ad esso è considerato superfluo il controllo nello Stato dove la prestazione viene effettuata se le esigenze poste alla base di questo sono già salvaguardate dal controllo dello Stato membro di origine.

[169] Sulla legge quadro sul settore fieristico dell’11 gennaio 2001, n.7 v. G.F. Ferrari, Gli enti fieristici tra pubblico e privato, Milano 2001.

[170] Su quest’ultimo tema Cfr. sentenza della Corte 25 luglio 1991, causa C-76/1990, Dennemeyer, Racc. I-4221; sentenza della Corte 31 marzo 1993, causa C19/92, Kraus , Racc. I-1663.

[171] Le sentenze fondamentali sul tema sono Gebhard del 30 novembre 1995, causa C-55/1994, in Racc., I-4165 e Analir del 20 febbraio 2001, causa C-205/1999, Racc. I-1271.

[172] R. Caranta, op.cit., p. 788, ipotizza che linea difensiva “minimalista” tenuta dal Governo italiano fosse stata suggerita dall’imminenza dell’emanazione della nuova legge. Tuttavia, in considerazione dei contenuti controversi della legge, questa non si è rivelata una scelta felice.

[173] Sul punto v. la ricostruzione storica di L. Patruno, op. cit., il quale fa risalire al medioevo le prime normative di natura autorizzatoria pubblica concernenti le fiere.

[174] G. Berti, op.cit, passim.

[175] Come è il caso di talune funzioni (ad esempio notarili, nei Paesi in cui sono consentite) rispetto alle attività di consulenza ed assistenza legale o della rappresentanza e della difesa delle parti in giudizio svolte dallo stesso avvocato; e ciò anche quando l’esercizio dell’attività legale costituisca l’oggetto di un obbligo o di una esclusiva voluti dalla legge. Cfr. Reyners, causa 2/74, sentenza 21 giugno 1974, Racc.p.631, pt. 45-47 e 54-55. Confermata anche da Thijssen, sentenza del 13 luglio 1993, causa C-42/92, Racc. I-4047.

[176] Per il caso di prevalenza dell’attività di natura economica v. conclusioni dell’avvocato generale Mischo del 4 novembre 1986 relative alla causa 118/85, pt. 4, “nella sentenza 41/83 del 20 marzo 1985 Italia/Commissione, Racc. 1985, 873, in particolare 880) la Corte ha disatteso espressamente l'argomento del Governo italiano (secondo il “quale l’attività normativa di un ente di diritto pubblico non può considerarsi un’attività imprenditoriale ai sensi dell’art. 86 del Trattato”), in quanto i regolamenti (che nella fattispecie la British Telecom aveva adottato avvalendosi del potere normativo che le veniva attribuito dalla legge) devono considerarsi come parte integrante dell’attività imprenditoriale della BT (n.20). LA Corte ha quindi confermato che le attività di un’impresa di diritto pubblico dal momento che rientrano tra le attività imprenditoriali, ricadono sotto le norme comunitarie che disciplinano la concorrenza.

Per il caso opposto, cfr. sentenza 19 gennaio 1994, C-364/1992, Sat Fuluggesellschaft Mbh Eurocontrol, cit., pt. 28 e le osservazioni dell’avvocato generale Tesauro cit., “…l’espletamento di funzioni implicanti l’esercizio di potestà pubbliche da parte di un’entità può sottrarre l’insieme delle attività da essa svolte alle norme di concorrenza solo qualora tali funzioni costituiscano un elemento inseparabile del complesso dell’attività in questione”.

[177] Cfr. le conclusioni dell’Avvocato generale Siegbert Alber presentate il 29 maggio 2001 Causa C-439/99, Commissione/Italia pt. 55.

[178] Cfr. le conclusione dell’Avvocato generale Jacobs presentate il 15 febbraio 2001, C-283/99, Commissione/Italia, pt.13 il quale ha respinto l'idea secondo cui gli istituti privati di vigilanza farebbero parte della pubblica amministrazione; successivamente si è posta la questione se essi partecipino o meno all'esercizio di pubblici poteri


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