LexItalia.it  

 Prima pagina | Legislazione | Giurisprudenza | Articoli e note | Forum on line | Weblog

 

Articoli e note

n. 12/2003  - © copyright

MATTEO BARBERO (*)

Nota di commento a Corte Cost. 359/2003

 

La recente sentenza n. 359 della Corte Costituzionale (con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della legge della regione Lazio 11 luglio 2002, n. 16 recante “Disposizioni per prevenire e contrastare il mobbing nei luoghi di lavoro”) presenta numerosi aspetti di rilevante interesse.

Al di là delle censure relative alle singole norme desumibili dalle disposizioni dettate dal legislatore regionale del Lazio (e relative alla rilevata interferenza delle norme stesse con aree di regolazione di pertinenza del legislatore statale, in quanto attribuite a quest’ultimo a titolo di potestà legislativa esclusiva ex articolo 117, comma 1, Cost. ovvero di potestà concorrente, sub specie di determinazione dei principi fondamentali, ex articolo 117, comma 3 Cost.), la Consulta rileva la sussistenza di un vizio – presupposto tale da inficiare l’intero atto regionale di normazione [che la Corte assume nella sua interezza come oggetto dell’impugnazione governativa e della questione di costituzionalità, superando i dubbi relativi all’ammissibilità dei medesimi, attesa la apparente (ma esclusa) genericità delle censure erariali)] in quanto contrastante con l’assetto costituzionale dei rapporti fra Stato e Regioni.

Sotto questo profilo, la Corte è chiamata nuovamente a precisare la propria precedente giurisprudenza relativa alla rilevanza dei principi fondamentali di matrice statale in ordine alla disciplina delle materie attribuite dalla Costituzione alla legislazione concorrente Stato-Regioni, con particolare riguardo alla considerazione (costituente ormai un insegnamento consolidato del Giudice delle leggi, ribadito anche nella pronuncia in commento) secondo cui “la mancanza di un'espressa, specifica disciplina statale contenente i principi fondamentali di una determinata materia di competenza legislativa concorrente non impedisce alle Regioni di esercitare i propri poteri, in quanto in ogni caso tali principi possono e devono essere desunti dalla preesistente legislazione statale”.

Ciò non significa, tuttavia, che, in mancanza di una specifica disciplina cornice di un determinato fenomeno (come il mobbing) emergente dalla vita sociale con caratteristiche tali da investire ambiti di normazione variegati di pertinenza di soggetti diversi, alcuni di tali soggetti (ed in primis le Regioni) abbiano (sia pure in via provvisoria, come espressamente stabilito dall’articolo 1 della legge laziale dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza in commento) poteri illimitati di legiferare.

Secondo la Corte (che richiama il prevalente indirizzo giurisprudenziale, che riconduce le relative fattispecie alla previsione di cui all’articolo 2087 cod. civ.), il mobbing rientra, in prima approssimazione, nella materia dell’ordinamento civile e, quindi, nell’ambito della competenza legislativa statale esclusiva; peraltro (come riconosce la stessa Consulta), quella incidente sulla materia de quo si atteggia come una normativa ad oggetto complesso, come tale in grado di incidere su molteplici settori dell’ordinamento giuridico, alcuni dei quali (almeno parzialmente) rientranti nella competenza regionale. Ciò implica che interventi normativi regionali volti ad introdurre, ad esempio, “misure di sostegno idonee  a studiare il fenomeno in tutti i suoi profili e a prevenirlo o limitarlo nelle sue conseguenze” debbano considerarsi senz’altro ammissibili.

Viceversa, alle Regioni è certamente preclusa l’adozione di una normativa invasiva della sfera riservata ai principi fondamentali di derivazione statale, sia pure in una situazione (quale quella attuale) caratterizzata dalla mancanza di disciplina di rango primario in materia; eventuali interventi sostitutivi od anticipatori da parte del legislatore regionale nei confronti di quello statale devono ritenersi comunque inammissibili. L’aver, al contrario, ritenuto che la mancanza di una normativa statale legittimasse la supplenza del livello di governo intermedio nei confronti di quello centrale costituisce quel vizio che si colloca (per così dire) “a monte” del processo legislativo che ha dato origine alla legge censurata nella sentenza in commento e che ne comporta l’integrale dichiarazione di incostituzionalità, prima ed in aggiunta ai profili di incostituzionalità delle singole norme.

Nell’apparente lucidità delle argomentazioni della Corte, si annidano, peraltro, alcuni elementi di contraddizione.

Se la censura delle norme poste dal legislatore laziale in materia riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato con carattere di “cedevolezza rovesciata” (“nelle more della emanazione di una disciplina organica dello Stato in materia”, come si esprime l’articolo 1 della legge oggetto della pronuncia in commento) appare condivisibile alla luce dell’iter argomentativi sviluppato dalla Consulta, meno condivisibile si palesa, viceversa, l’avvenuta censura dell’intera legge, che ha travolto anche le disposizioni volte a dettare norme di dettaglio sicuramente riconducibili a quella tipologia di misure che, per espressa affermazione degli stessi giudici costituzionali, rientrano pacificamente nella competenza delle Regioni.

In altri termini, non sembra congruo sostenere la sussistenza di un “vizio – motivo” tale da inficiare la delibera legislativa nel suo complesso, a prescindere dall’analisi della compatibilità con il quadro costituzionale delle singole norme poste dalle disposizioni in essa contenute. In questo senso, la Corte arriva a vanificare la portata delle sue stesse affermazioni circa la possibilità di desumere i principi fondamentali dal complesso della normativa volta a disciplinare un determinato oggetto; nella fattispecie, infatti, la mancanza di una disciplina di rango primario e l’avvenuto, parziale straripamento del legislatore regionale dall’ambito di normazione ad esso riservato comportano l’incostituzionalità (anche) di quelle norme poste da disposizioni perfettamente in linea con il quadro delineato dal nuovo titolo V della parte seconda della Costituzione, come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale.

Sarebbe apparsa più corretta una dichiarazione di incostituzionalità delle sole disposizioni volte a dettare norme esorbitanti rispetto alla competenza regionale, vuoi perché incidenti su materie attribuite allo Stato in via esclusiva (anche solo limitatamente alla normativa di principio) vuoi perché non rispettose di quei principi fondamentali comunque desumibili dall’ordinamento giuridico, il quale, pur in mancanza di una disciplina specifica, non ignora (come riconosce la stessa Corte) il fenomeno del mobbing.

Particolarmente interessante risulta anche il riferimento operato dalla Consulta all’ordinamento comunitario; tale riferimento sembrerebbe riempire di contenuto concreto il “vincolo comunitario” di cui al comma 1 dell’articolo 117 Cost.. Anche attraverso il richiamo di un atto generale di indirizzo adottato dal Parlamento Europeo, la Corte arriva ad escludere, almeno in via generale ed in mancanza di una cornice normativa unitaria, discipline territorialmente differenziate in materia di mobbing

 

 

(*) Funzionario Regione Piemonte – Direzione Bilanci e finanze e dottorando in diritto pubblico c/o l’Università degli Studi di Torino.


Stampa il documento Clicca qui per segnalare la pagina ad un amico