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Articoli e note

n. 3/2004  - © copyright

MATTEO BARBERO*

Dal Consiglio di Stato una conferma del ruolo marginale dei Comuni in materia tributaria

(nota a Cons. Stato, Sez. V, 10 febbraio 2004 n. 485)

 

Malgrado che la (ormai non più) recente riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, riscrivendo interamente [1] l’articolo 119 della Carta fondamentale, abbia  per la prima volta espressamente riconosciuto a livello costituzionale l’autonomia finanziaria di entrata e di spesa spettante (oltre che alle Regioni anche) agli enti locali (ed, in particolare, ai comuni, in quanto enti potenzialmente investiti della generalità delle funzioni amministrative, secondo quanto dispone il nuovo articolo 118 Cost.), attribuendo loro la titolarità di risorse autonome comprendenti anche tributi propri (oltre che compartecipazioni al gettito di tributi erariali e quote di un fondo perequativo non vincolato nella destinazione e finalizzato a compensare i territori con minore capacità fiscale per abitante), tali enti continuano a disporre di poteri estremamente limitati in materia tributaria.

È quanto il messaggio lanciato dal Consiglio di Stato, nella sua recente sentenza richiamata nel titolo del presente contributo.

I giudici di Palazzo Spada, infatti, nel respingere l’appello proposto contro la sentenza di primo grado [dichiarativa dell’illegittimità di una delibera comunale che, ai fini della applicazione dell’imposta comunale sugli immobili (ICI), aveva fissato aliquote differenziate per gli immobili appartenenti alla medesima categoria (come individuata dal legislatore statale)], confermano che (anche sotto questo profilo [2]) il novellato articolo 119 Cost. (peraltro mai richiamato nella sentenza in commento, che, d’altra parte, non contiene alcun riferimento al riformato Titolo V) deve essere fatto oggetto di una lettura riduttiva, in combinato con l’articolo 23 Cost., il quale, come noto, configura una riserva di legge (sia pure relativa) in materia di imposizione fiscale.

In tale regime “al legislatore è attribuito il potere di fissare gli elementi essenziali (presupposto di imposta, base imponibile, soggetti obbligati ed indici di capacità contributiva), mentre ai soggetti pubblici deputati a definire in concreto le modalità di acquisizione del prelievo possono essere riconosciuti poteri regolamentari meramente attuativi del contenuto delle disposizioni di livello primario ed, in alcuni casi come quello in esame, anche limitati poteri di definire in concreto l’entità del tributo”.

D’altra parte, “la caratteristica delle norme tributarie che derivano dall’esercizio di detti poteri, in considerazione della forte capacità incisiva delle posizioni private di diritto soggettivo su cui vanno ad incidere, è quella di porsi come disposizioni” a fattispecie esclusiva, nel senso che il potere impositivo è delineato in modo compiuto nelle norme di livello primario che ne definiscono i contenuti ed in tali limiti è correttamente esercitato, mentre l’attività integrativa di tali contenuti a livello regolamentare  è consentita e legittima negli stretti limiti in cui il legislatore la abbia in concreto prevista”. 

Come noto, nei confronti delle disposizioni c.d. “a fattispecie esclusiva” (in quanto disposizioni preordinate a comprimere posizioni di diritto soggettivo che trovano la loro tutela nella Costituzione) “è escluso il ricorso a procedimenti analogici integrativi del contenuto di tali disposizioni e la stessa interpretazione estensiva è ammessa senza però che ne possa discendere l’applicabilità delle norme a casi non previsti in modo tipico e puntuale”.

Pertanto, nella materia de quo [3], il regolamenti degli enti locali devono procedere (per così dire) a “rime obbligate”, integrando il testo legislativo limitatamente agli aspetti esplicitamente individuati, senza alcuna possibilità di effettuare distinzioni o specificazioni ulteriori.

Del resto (…)  una diversa interpretazione (…), oltre che porsi in contrasto con gli indicati canoni ermeneutici, avrebbe come conseguenza la configurabilità di un potere libero da parte dei comuni (…), senza alcuna indicazione a livello legislativo dei criteri e dei presupposti di fatto per procedere; in altri termini, tale interpretazione rimetterebbe “esclusivamente alla valutazione discrezionale degli organi comunali” (ed, in generale, di organi privi di potestà legislativa) aspetti essenziali dell’imposizione fiscale, in palese violazione del dettato costituzionale.

Al contrario, nei confronti di siffatti organi vige (per la materia fiscale [4] ed in mancanza di specifiche ed espresse “disposizioni abilitative da parte del legislatore”) una presunzione di “non competenza”.

Non si può affermare, infatti, l’esistenza, in capo all’ente locale ed in mancanza di una espressa limitazione da parte del legislatore, di un potere impositivo “atipico” esercitabile negli spazi lasciati liberi dalla fonte primaria; viceversa, occorre concludere per l’inesistenza di un tale potere proprio perché “non previsto dal legislatore ordinario”.

***

La tesi sostenuta dal Consiglio di Stato nella sentenza qui brevemente annotata si presta (a parere di chi scrive) ad alcune considerazioni critiche.

La mancanza, nella motivazione, di un qualsiasi riferimento al novellato articolo 119 Cost. e, più in generale, al nuovo assetto delle competenze normative definite dal riformato Titolo V pare sintomatica di un disagio interpretativo imputabile alla difficoltà di conciliare la ratio sottesa a disposizioni (rectius a norme) costituzionali (contenute, rispettivamente, nella prima e nella seconda parte della Carta fondamentale)) concepite in epoche storiche differenti e rispondenti ad una diversa logica dello Stato (inteso come ordinamento nel suo complesso).

Si tratta, evidentemente, di una considerazione ormai scontata, avendo la dottrina dominante da tempo sottolineato il “difficile rapporto” fra i due ordini di norme.

Nel caso in esame, tuttavia, i Giudici di Palazzo Spada sembrano gettare la spugna in partenza, limitandosi a riproporre un’interpretazione prudente e tradizionale della riserva di legge in materia tributaria, peraltro in perfetta sintonia con la stessa Corte Costituzionale [5].

Peraltro, il mantenimento al centro (in particolare in capo allo Stato, inteso questa volta quale ente costitutivo dell’ordinamento repubblicano complessivo) di rilevanti poteri di manovra della leva fiscale (e, in generale, di controllo della finanza pubblica), anche se imposta da considerazioni di ordine economico [6], dall’attuale configurazione del sistema tributario [7] e dalla necessità di garantire il rispetto dei vincoli comunitari [8], deve fare i conti con un testo costituzionale e soprattutto con un nuovo testo dell’articolo 119 Cost. (ancora in gran parte inattuato ma che non pare destinato ad essere interessato dalle ulteriori proposte di revisione costituzionale attualmente all’esame del Parlamento) rispondente ad una logica (se non di vero e proprio federalismo almeno) di forte decentramento fiscale.

Si tratta di un nodo interpretativo che, prima o poi, i giudici (costituzionali ed amministrativi) dovranno risolvere con chiarezza..


 

* Funzionario della Regione Piemonte e  dottorando di ricerca in diritto pubblico presso l’Università degli studi di Torino.

[1] L’articolo 119 Cost. è stato sostituito dall’articolo 5 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, “Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione”.

Il testo originario dell’articolo era il seguente:  “Le Regioni hanno autonomia finanziaria nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi della Repubblica, che la coordinano con la finanza dello Stato, delle Province e dei Comuni.

Alle Regioni sono attribuiti tributi propri e quote di tributi erariali, in relazione ai bisogni delle Regioni per le spese necessarie ad adempiere le loro funzioni normali.

Per provvedere a scopi determinati, e particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole, lo Stato assegna per legge a singole Regioni contributi speciali.

La Regione ha un proprio demanio e patrimonio, secondo le modalità stabilite con legge della Repubblica.”

Il testo attualmente in vigore, viceversa, recita: “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa.

I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio.

La legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante.

Le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite.

Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni.

I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno un proprio patrimonio, attribuito secondo i principi generali determinati dalla legge dello Stato. Possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare spese di investimento. è esclusa ogni garanzia dello Stato sui prestiti dagli stessi contratti”.

 

 

 

[2] Il nuovo articolo 119 Cost. è stato fatto oggetto di numerose interpretazioni restrittive da parte della Corte Costituzionale. Cfr anche infra nel testo e nelle note.

[3] Ma analogo discorso può farsi a proposito di altri ambiti materiali eventualmente normabili mediante regolamenti di competenza degli enti locali ma coperti da riserva (anche solo relativa) di legge.  Su ItaliaOggi del 20 febbraio 2004 (pag. 42), ad esempio, L. Oliveri richiama correttamente  la materia relativa alla organizzazione dei pubblici uffici, senz’altro disciplinabile da parte degli enti locali mediante regolamento ma, al contempo, oggetto, ex articolo 97 Cost., di una riserva di legge (ancora una volta relativa e, per la verità interpretata in modo molto più elastico di quella sancita dall’articolo 23 Cost.). È evidente che un tale interpretazione potrebbe condurre al sostanziale svuotamento del potere regolamentare spettante agli enti locali “in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”, secondo quanto dispone il nuovo comma 6 dell’articolo 117 Cost.. Si noti, inoltre, che la stessa legge c.d. “La Loggia” (Legge 5 giugno 2003, n. 131, "Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3"), all’articolo 4, comma 4, prevede che, nelle materie devolute alla competenza regolamentare degli enti locali, la legge debba limitarsi ad indicare i soli “requisiti minimi di uniformità”.

[4] Ma si veda quanto precisato nella nota precedente.

[5]Cfr la recente sentenza n. 37/2004 della Corte Costituzionale (in particolare il punto 5 in diritto).

[6] Si veda, in proposito, il rapporto “Federalismo 2004. Aspetti quantitativi e confronto con le esperienze europee”, curato dall’Associazione Reforme.

[7] Che attualmente non prevede tributi che possano essere definiti come “propri” di enti diversi dallo Stato. Neppure le imposte come l’Irap o come l’Ici (oggetto della sentenza in commento), che recano, nella loro stessa denominazione l’impronta degli enti sub-statali ed il cui gettito (unitamente a poteri di gestione spesso rilevanti) è attribuito a tali enti (imposte che quindi potevano essere ascritte alla categoria dei “tributi propri” fatta propria dal previgente articolo 119 Cost.) posseggono questa caratteristica. In proposito, si rinvia alle sentenze n. 296/2003, n. 297/2003, n. 311/2003 e, soprattutto, alla gia citata sentenza n. 37/2004 della Corte Costituzionale.

[8] Per questi aspetti, si vedano le recenti sentenze della Corte Costituzionale n. 4/2004 e n. 36/2004, in materia di patto di stabilità interno.


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