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n. 12/2005 - ©
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MASSIMILIANO BALLORIANI*
Appunti su
rapporto giuridico di diritto pubblico
e tutela dell’interesse legittimo
[1]
SOMMARIO
I. RAPPORTO GIURIDICO DI DIRITTO PUBBLICO E PRINCIPIO DI PROPORZIONALITÀ NELL’ESERCIZIO DEL POTERE.
II. NUOVO STATUTO DEI VIZI DEL PROVVEDIMENTO NEL RAPPORTO GIURIDICO DI DIRITTO PUBBLICO: GIURISDIZIONE “DI SPETTANZA” E ILLECITO DI DIRITTO PUBBLICO.
III. LA DISCIPLINA CONSENSUALE DEL RAPPORTO GIURIDICO DI DIRITTO PUBBLICO.
IV. LA GIURISDIZIONE DEL G.A. SUL RAPPORTO DI DIRITTO PUBBLICO. CRITERIO DI RIPARTO E GIURISDIZIONE NON SOLO IMPUGNATORIA.
V. LIMITI LEGALI ALLA MERITEVOLEZZA DI TUTELA DELL’INTERESSE LEGITTIMO NEL RAPPORTO GIURIDICO DI DIRITTO PUBBLICO.
VI. LA TUTELA DELL’INTERESSE LEGIMITTIMO NON TROVA LIMITI ONTOLOGICI NEI POTERI DEL SUO GIUDICE: AZIONI COSTITUTIVA, DI CONDANNA E DI ACCERTAMENTO.
VII. UN CASO PARTICOLARE DI AZIONE DI ACCERTAMENTO: L’AZIONE DI NULLITA’.
1. Atto nullo e risarcimento del danno. Precisazioni preliminari.
2.La giurisdizione in materia di risarcimento per violazione del giudicato.
3.L’azione di nullità. Questioni di giurisdizione.
4.Inesistenza ed inefficacia. Profili di giurisdizione.
5.L’azione di nullità. Altre questioni processuali. 5.1.Legittimazione ad agire e rilevabilità d’ufficio. 5.2.Imprescrittibilità dell’azione.,5.3.Contraddittorio, mezzi di prova e motivi aggiunti. 5.4.Risarcimento del danno.
I. RAPPORTO GIURIDICO DI DIRITTO PUBBLICO E PRINCIPIO DI PROPORZIONALITÀ NELL’ESERCIZIO DEL POTERE.
La nuova riforma della legge n. 241/1990 ha rafforzato ulteriormente la tutela dei privati nei confronti della Pubblica Amministrazione, ponendosi non solo come riforma del procedimento ma come legge che rivoluziona la tutela giurisdizionale.
Sollecita un ripensamento sistematico di molti istituti e categorie concettuali che in alcuni casi sembrano sopravvivere più per inerzia che come risultato di una rimeditazione” [2].
Il nuovo comma 1 bis dell’articolo 1 oggi dispone che la pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente.
Il vero significato di questa formula può essere colto solo se si considera che essa altro non è che un’anticipazione di quella di cui all’articolo 11, secondo cui, in accoglimento di osservazioni e proposte presentate a norma dell'articolo 10, l'amministrazione procedente può concludere, senza pregiudizio dei diritti dei terzi, e in ogni caso nel perseguimento del pubblico interesse, accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ovvero (sono state coerentemente soppresse le parole «nei casi previsti dalla legge», talché anche gli accordi sostitutivi diventano ora la regola generale) in sostituzione di questo.
Si tratta di una disposizione che deve essere coordinata anche con i principi enunciati recentemente dalla Corte Costituzionale nella sentenza 204/2004, che ha affermato che c’è interesse legittimo – e quindi statuto pubblicistico - laddove c’è il potere autoritativo ed ha conseguentemente confermato la legittimità della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nella “materia” di cui all’articolo 11 della legge 241/1990.
Si delinea così un diritto amministrativo, il cui perno centrale è pur sempre il potere ma non l’atto autoritativo.
Al posto del provvedimento, ora, le amministrazioni, non più solo nei casi previsti dalla legge, ma in via generale – e, anzi, preferenziale, in virtù del combinato disposto degli articoli 1 comma 1 bis e 11 comma 1 della 241/1990 - adottano accordi pubblici sostitutivi
Usando la terminologia della legge, si parla di agire autoritativo quando l’amministrazione utilizza un provvedimento amministrativo, mentre si parla di agire di diritto pubblico non autoritativo quando l’amministrazione agisce, pur sempre dotata di un potere di diritto pubblico, ma senza utilizzare il modulo provvedimentale.
Per la verità, in dottrina non c’è grande accordo sulla terminologia, ma si sarebbe potuto, al medesimo fine, distinguere l’agire autoritativo unilaterale (e quindi imperativo e provvedimentale) da quello autoritativo ma secondo schemi di diritto privato (entrambi presuppongono pur sempre la titolarità astratta di un potere di tutela unilaterale dell’interesse pubblico).
E’ proprio lo sfavore avverso l’uso del modulo provvedimentale l’ispirazione della riforma alla legge sul procedimento amministrativo.
L’ispirazione, cioè, è quella di ricondurre l’agire di diritto pubblico verso moduli consensuali e partecipativi, non provvedimentali.
Si tratta di una concezione che non elimina la distinzione tra interesse legittimo e diritto soggettivo ma che avvicina la tutela del primo a quella del secondo e, in ultima analisi, colloca su di un piano più paritario il rapporto tra privato e amministrazione [3].
La preferenza verso l’utilizzo di strumenti del diritto privato e quindi lo sfavore verso l’agire unilaterale è coerente anche con l’espressa menzione dei principi comunitari, tra i quali, come noto, si annovera quello di proporzionalità (che comprende anche il rapporto tra mezzi e fine)
Se la pubblica amministrazione è astrattamente dotata di un potere autoritativo per il soddisfacimento di un interesse pubblico, ma non adotta un provvedimento amministrativo, l’uso di atti formalmente privatistici non vale a negare l’esistenza rapporto pubblico su cui essa incide, benché l’attività amministrativa non provvedimentale debba utilizzare gli schemi di diritto privato, come si evince, del resto, proprio dall’articolo 11 della legge 241/1990, con il quale l’articolo 1 comma 1 bis deve essere coordinato.
Lo statuto pubblicistico deve convergere, per quanto possibile, verso i principi del diritto privato.
La preferenza per l’agire non provvedimentale risulta anche dalla generalizzazione della dia (articolo 19) e al silenzio assenso (articolo 20).
I lavori preparatori evidenziano che il legislatore ha voluto che l’amministrazione, nell’agire pubblico “utilizzi” gli strumenti del diritto privato, e non ha voluto invece qualificare l’attività amministrativa come privatistica.
Nei lavori preparatori, si afferma espressamente che l’agire pubblico resta sempre classificabile come funzione amministrativa, in quanto, appunto, funzionalizzata al perseguimento dei fini pubblicistici, e quindi non riconducibili nell’alveo dell’autonomia privata.
Ed infatti nel corso dei lavori preparatori relativi ai vari progetti, poi confluiti in quello in esame, era stata proposta una modifica che prevedeva la specificazione, secondo cui, benché l’Amministrazione possa agire normalmente secondo i paradigmi del diritto privato, tuttavia, in ogni caso, le amministrazioni pubbliche agiscono per la realizzazione dei pubblici interessi.
Si veda, più in particolare, relativamente al progetto poi approvato, il resoconto del 15 maggio 2003 della commissione affari costituzionali: Si tratta del riconoscimento normativo della possibilità, o, meglio, della preferenza (fatti salvi gli espressi divieti di legge), che le amministrazioni pubbliche operino in via generale attraverso gli strumenti del diritto privato anche nel perseguimento dei propri fini istituzionali, consistenti nella cura concreta degli interessi pubblici ad esse affidati dalla legge.
La nuova disposizione non incide, pertanto, sulla natura della funzione amministrativa – che rimane finalizzata al miglior perseguimento dell’interesse pubblico – ma soltanto sulla sua forma, che si esprimerà in via generale attraverso i moduli dell’agire consensuale, pur restando assoggettata ai principi di carattere pubblicistico enunciati nel nuovo comma 1 dell’articolo 1, sopra richiamati.
La conferma di tale impostazione emerge anche dai lavori parlamentari relativi alla modifica dell’articolo 20 della legge n. 59 del 1997 che (nel teso già approvato al Senato) prevede la delega al Governo per il disegno di legge annuale sulla semplificazione amministrativa.
A questo articolo si sta aggiungendo, tra l’altro, la lettera f-bis) che introduce il principio della (testualmente) “generale possibilità di utilizzare, da parte delle amministrazioni e dei soggetti a queste equiparati, strumenti di diritto privato, salvo che nelle materie o nelle fattispecie nelle quali l’interesse pubblico non può essere perseguito senza l’esercizio di poteri autoritativi”.
In sostanza, correttamente inteso, il comma 1 bis dell’articolo 1, della legge n.241 del 1990, prevede un rinvio generale alle norme di diritto civile ai fini della regolamentazione dell’attività amministrativa, in difetto di una puntuale disciplina specifica.
Così come, nell’ambito del processo amministrativo, vi sono diffusi rinvii alle norme sul processo civile, che tuttavia non valgono a snaturare le peculiarità del processo amministrativo.
Le norme di diritto privato, cioè, da norme di relazione diventano norme di azione, ai fini della disciplina dell’attività amministrativa.
Ciò vale a caratterizzare in termini più paritari il rapporto tra autorità e privato, ma non a mutare la natura delle posizioni giuridiche soggettive.
Si tratta di norme di relazione e quindi l’interesse legittimo resta tale, anche se si avvicina di più al diritto soggettivo, poiché le norme di azione dell’amministrazione si avvicinano a quelle di relazione tra privati.
L’utilità di tale rinvio generale, come vedremo più avanti, può essere molto utile, ad esempio, per colmare le lacune di disciplina dell’illecito di diritto pubblico, caratterizzato, rispetto a quello di diritto privato, dalla violazione di norme di azione e non di relazione.
E’ impressionante come il combinato disposto dell’articolo 1 comma 1 bis e dell’articolo 11 nella nuova formulazione sia quindi teso ad introdurre nel nostro ordinamento una disposizione analoga a quella contenuta nell’articolo nell’ordinamento tedesco nell’art. 54 della legge federale sul procedimento amministrativo del 1976 che recita: ”un rapporto giuridico di diritto pubblico può essere costituito, modificato o estinto da un contratto in quanto non sia vietato da disposizioni di legge” (che corrisponde oggi all’articolo 1 comma 1 bis della legge n.241 del 1990) e poi “l’autorità può, invece di emanare un atto amministrativo, concludere un contratto di diritto pubblico, con colui che potrebbe essere destinatario dell’atto amministrativo” (che corrisponde oggi all’articolo 1 della legge n.241 del 1990).
Il modulo consensuale cui pure si riferisce l’articolo 1 comma 1 bis è pur sempre quello degli accordi sostitutivi, ove la PA agisce pur sempre con la capacità di diritto pubblico, come titolare di potestà pubblica funzionalizzata al pubblico interesse.
La rubrica dell’articolo 1 della legge n.241 del 1990, del resto, si riferisce espressamente ai principi generali dell’attività amministrativa, e come chiarito anche dalla Corte Costituzionale nella sentenza n.204 del 2004, l’attività amministrativa regolata dalla legge n.241 del 1990 ed esercitata sia con atti autoritativi sia con moduli consensuali sostitutivi di cui all’articolo 11, è pur sempre funzione amministrativa dalla pubblica amministrazione dotata di potere pubblico.
Il modello meramente privatistico, ovviamente, resta limitato ai casi in cui v’è una totale assenza di norme pubblicistiche di azione (tra cui la legge n.241 del 1990) che funzionalizzano all’interesse pubblico l’agire dell’amministrazione, cioè in tutti i casi in cui manca il potere autoritativo e la conseguente possibilità di adottare atti amministrativi o accordi di diritto pubblico.
Dal combinato disposto dei commi 1 e 1 bis dell’articolo 1 della legge n.241 del 1990, si desume che anche l’attività amministrativa di diritto privato è funzionalizzata al pubblico interesse.
Del resto, se un potere è funzionalizzato ad un pubblico interesse, tale potere non può avere carattere privatistico, non può essere espressione di autonomia privata.
L’articolo 1322 codice civile e l’articolo 41 della Costituzione, infatti, evidenziano come l’autonomia privata non possa essere funzionalizzata al pubblico interesse.
Il pubblico interesse resta sempre esterno alla causa degli atti di autonomia privata ed in particolare del contratto di diritto privato, intesa oggi come funzione economico-individuale [4].
V’è autonomia di diritto privato - e quindi l’amministrazione può agire secondo il diritto privato comune - solo se manca il potere autoritativo, cioè la potestà di diritto pubblico, essendo situazioni tra loro incompatibili [5].
La “privatizzazione” dell’agire amministrativo introdotto dalla riforma alla legge sul procedimento amministrativo si sostanzia allora in ciò: una preferenza degli schemi del diritto privato rispetto ai provvedimenti ed una diffusa contaminazione di principi civilistici nella disciplina del rapporto giuridico di diritto pubblico.
Tale diffusa contaminazione dei principi civilistici riguarda anche il nuovo statuto del provvedimento amministrativo.
II. NUOVO STATUTO DEI VIZI DEL PROVVEDIMENTO NEL RAPPORTO GIURIDICO DI DIRITTO PUBBLICO: GIURISDIZIONE “DI SPETTANZA” E ILLECITO DI DIRITTO PUBBLICO.
Anche l’articolo 21 septies incide profondamente sulla tutela giurisdizionale nei confronti dell’amministrazione, introducendo positivamente, per la prima volta, nell’ordinamento, la disciplina generale dei casi di nullità del provvedimento amministrativo.
Anche in tema di nullità del provvedimento, la disciplina prescelta riprende in gran parte i principi civilistici di teoria generale relativi alla nullità del contratto[6], ed è quindi prevalsa alla fine la tesi cd. privatistica sulla nullità del provvedimento amministrativo, con conseguente superamento di quella cd. pubblicistica, coniata dalla Cassazione, ai fini del giudizio sul riparto di giurisdizione.
L’articolo 21-octies, al comma 1, reca la disciplina dell’annullabilità del provvedimento amministrativo, ricalcando la storica tripartizione dei vizi (incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere), mentre al comma 2 introduce – anche qui sull’esempio dell’ordinamento tedesco - quella che è stata semplicisticamente definita come ipotesi di irregolarità dell’atto amministrativo.
In realtà, sia quella dell’articolo 21 septies sia quella dell’articolo 21 octies sono previsioni molto importanti sotto molteplici profili, che coinvolgono sia la definizione della struttura del rapporto giuridico di diritto pubblico sia i poteri del giudice amministrativo nei confronti della pubblica amministrazione.
In particolare la possibilità di adottare sentenze dichiarative nella giurisdizione di legittimità ed i limiti relativi alle sentenze costitutive.
L’articolo 21 octies, infatti, è stato riconosciuto dalla giurisprudenza prevalente come norma avente carattere anche processuale e quindi applicabile anche alle azioni di annullamento relative ad atti adottati prima dell’entrata in vigore della riforma [7].
L’articolo 21 octies e l’articolo 21 septies costituiscono, sotto il profilo processuale, un importante passo avanti nell’attuazione degli articoli 103, 24 e 113 della Costituzione, sia relativamente all’effettività della tutela dell’interesse legittimo e la conseguente atipicità delle azioni giurisdizionali nei confronti della pubblica amministrazione sia relativamente alla previsione (cfr. in particolare l’articolo 113 al comma 3) secondo cui la legge deve determinare (o limitare) i casi in cui gli atti della pubblica amministrazione possano essere annullati
L’articolo 21 octies poi, in particolare, evidenzia come la struttura del rapporto giuridico di diritto pubblico, in cui si correlano la potestà pubblica e l’interesse legittimo, a prescindere dall’adozione di atti autoritativi, fa emergere anche nel diritto pubblico la possibilità di scindere le norme di comportamento dalle norme di validità, entrambe, tuttavia, accomunate dal fatto di essere norme di azione, cioè norme che disciplinano l’agire pubblico dell’amministrazione, il rapporto giuridico di diritto pubblico.
Emerge così il vizio contenuto nella sentenza n.500 del 1999, che aveva qualificato la responsabilità della pubblica amministrazione per lesione dell’interesse legittimo come illecito per violazione di norme di relazione, e quindi sottoposta alla giurisdizione del giudice ordinario, vizio cui è stato posto rimedio dalla legge n.205 del 2000, soprattutto alla luce della chiara interpretazione che ne ha dato la Corte Costituzionale con la sentenza n.204 del 2004.
Ma il comma 2 dell’articolo 21 octies, ha rilievo sotto il profilo della giurisdizione, anche laddove rende giustizia di quelle numerose pronunzie che tendono a ripartire la giurisdizione in base al carattere vincolato o discrezionale del provvedimento e non in base alla natura pubblica e autoritativa del potere esercitato dall’amministrazione [8], come ha invece recentemente ribadito la Corte Costituzionale nella sentenza 204/2004.
La Corte, in realtà, ha fornito una interpretazione della giurisdizione esclusiva conforme allo spirito della Carta Costituzionale, nel senso che la previsione della giurisdizione esclusiva, deve pur sempre operare nell’ambito della giustificazione costituzionale del giudice amministrativo.
E la giustificazione costituzionale non può risiedere in un limite ontologico di tutela del privato nei confronti della pubblica amministrazione (che sarebbe in contrasto con l’articolo 24 della Costituzione), ma nella divisione dei poteri [9].
Quindi la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo deve sempre riferirsi ai casi in cui la pubblica amministrazione è titolare di un potere pubblico, ai casi, cioè, in cui la questione attiene ad un rapporto giuridico di diritto pubblico.
Nell’ambito di un rapporto giuridico di diritto pubblico, la giurisdizione del GA è esclusiva se la PA utilizza formalmente norme di diritto privato, cioè si avvale degli schemi di diritto privato [10].
Questo passaggio è importantissimo, perché la giurisdizione esclusiva, così intesa, non è più importante sotto il profilo del riparto di giurisdizione (che, per il principio della divisione dei poteri, e per l’articolo 103 della Costituzione, si basa sull’interesse legittimo, quindi sul rapporto giuridico di diritto pubblico) ma sotto il profilo dei poteri del giudice amministrativo nei confronti della pubblica amministrazione.
La Corte Costituzionale, cioè, è come se avesse detto che nei casi di giurisdizione esclusiva gli interessi legittimi correlativi al potere pubblico ricevono una tutela che più si avvicina al diritto soggettivo, poiché il giudice amministrativo si comporta come se fosse il giudice dei diritti.
La giurisdizione esclusiva non vale più a connotare le posizioni giuridiche ad essa affidate come diritti soggettivi, anzi essa postula pur sempre che la PA agisca come titolare di un pubblico potere (cfr. testualmente la sentenza n. 204 del 2004) e che si verta, quindi, pur sempre nell’ambito di un rapporto giuridico di diritto pubblico.
Anche queste ultime considerazioni sulla giurisdizione esclusiva hanno notevole rilievo sotto i molteplici profili che coinvolgono anche la pienezza della tutela giurisdizionale.
Se la giurisdizione esclusiva, sotto il profilo sostanziale, delle posizioni giuridiche coinvolte, non presenta apprezzabili caratteri di distinzione rispetto a quella di legittimità, allora gli strumenti tipici della giurisdizione esclusiva sono ontologicamente suscettibili di estensione alla giurisdizione di legittimità: in ambedue i casi il giudice amministrativo è giudice del rapporto.
Un’altra conseguenza è che se una materia viene attribuita alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, allora, in difetto di dichiarazione di incostituzionalità, tale attribuzione riveste anche carattere sostanziale, nel senso che vale a qualificare in senso pubblicistico l’agire dell’amministrazione.
Si pensi all’articolo 6 della legge n.205 del 2000, in materia di gare svolte da soggetti comunque tenuti all’evidenza pubblica [11].
Il criterio di riparto delineato dalla Corte Costituzionale resta comunque rigidamente incentrato sulle posizioni giuridiche soggettive (diritto soggettivo e interesse legittimo).
La Consulta (e questo, se sarà ampiamente condiviso, potrà essere un’importante fonte di certezza) ha fornito anche le basi per individuare quando c’è l’interesse legittimo.
La qualificazione che ne dà la Corte è, per così dire, indiretta: c’è interesse legittimo e quindi giurisdizione del giudice amministrativo, quando l’amministrazione agisce nella titolarità un potere pubblico.
L’interesse legittimo è individuato come la posizione giuridica correlativa al potere pubblico, e queste conclusioni devono orientare gli interpreti nell’elaborazione di una teoria organica del rapporto giuridico di diritto pubblico, quale relazione tra le indicate posizioni giuridiche.
Parlare di giurisdizione amministrativa come di giurisdizione sul rapporto giuridico di diritto pubblico comporta una serie di conseguenze: innanzitutto, c’è giurisdizione amministrativa (perché c’è il rapporto giuridico pubblico) per la semplice presenza del potere pubblico in capo all’amministrazione, a prescindere dalla circostanza se tale potere venga poi esercitato o meno (silenzio), con un atto (vincolato o discrezionale), con un accordo di diritto pubblico o con un comportamento[12], e a prescindere dalla natura dei vizi dell’atto o dell’accordo di diritto pubblico eventualmente utilizzati.
Nella versione finale della riforma della legge sul procedimento amministrativo, il legislatore sembra essersi perfettamente adeguato all’interpretazione dei principi costituzionali in materia di riparto elaborata dalla Consulta nella sentenza 204/2004.
Dalla riforma della legge sul procedimento amministrativo, innanzitutto, si staglia la figura del rapporto giuridico di diritto pubblico, mentre il provvedimento autoritativo, con i sui vizi o con la sua natura discrezionale o meno, non è più al centro delle regole di riparto della giurisdizione.
A meno di non voler ritenere che l’irregolarità dell’atto amministrativo potrà essere fatta valere solo davanti al giudice ordinario[13], l’articolo 21-octies, comma 2, nel prevedere testualmente che “Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato” e che “Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato” non ammette più l’equivalenza atto autoritativo vincolato = atto dovuto = diritto soggettivo = giurisdizione del giudice ordinario, sulla quale la Cassazione appare sclerotizzata, creando non poche incertezze negli addetti ai lavori, supportata anche da recenti interpretazioni, che pur di affermare la giurisdizione ordinaria non esitano ad introdurre nuove e artificiose sotto-categorie (come quella di potere autoritativo in senso stretto e in senso lato) che certo non giovano alla certezza e razionalità del sistema[14].
L’analisi degli articoli che disciplinano l’invalidità dell’atto amministrativo, inoltre, non può essere affatto disgiunta dalla considerazione del principio dell’ispirazione privatistica nella disciplina del rapporto di diritto pubblico, espresso nella legge in esame.
E’ proprio sotto tale visione privatistica che è stata privilegiata una moderna concezione sostanziale della legalità, come la previsione secondo cui, a fronte di violazioni di carattere meramente formale, non scaturisce necessariamente l'invalidità degli atti.
Si è voluto introdurre nel diritto amministrativo un principio per certi aspetti simile a quello esistente nel diritto privato, relativo alla conservazione degli effetti del negozio giuridico, mediante la previsione della mera irregolarità non invalidante, nel caso di violazioni puramente formali.
Tale analogia, più volte richiamata nei lavori preparatori, può risiedere nella circostanza che, sia nel caso di conversione del contratto che nel caso di irregolarità del provvedimento amministrativo, il giudice è chiamato ad effettuare un controllo di adeguatezza dello strumento utilizzato (contratto o provvedimento amministrativo) alla funzione perseguita [15].
Detto ciò, è intuibile la rilevanza di tale nuova disposizione, ai fini della delimitazione dei poteri del giudice e della caratterizzazione dell’oggetto sottoposto alla sua cognizione: non solamente l’atto, attraverso i vizi denunciati dal ricorrente, ma l’intero rapporto, la reale fondatezza della pretesa azionata.
Non sono mancate posizioni di condivisione nei confronti della sentenza n. 204 del 2004 della Corte Costituzionale, anche per l’aspetto maggiormente involutivo, cioè laddove essa “ha fatto giustizia di alcune fughe in avanti del legislatore ordinario” richiamando la funzione del giudice amministrativo come giudice “nell’amministrazione”, garante cioè del buon andamento della pubblica amministrazione [16].
Si continua, anche autorevolmente, a descrivere il processo amministrativo come una sorta di appendice al procedimento amministrativo (ancor più da quando sono stati pressocchè soppressi i controlli preventivi sull’amministrazione attiva) e si è affermato che il compito naturale del giudizio amministrativo è quello di indirizzare utilmente l’Amministrazione verso il giusto assetto d’interessi [17].
Forse non ci si dovrebbe rallegrare della valorizzazione dell’espressione contenuta nell’articolo 100 comma 1 della Costituzione, secondo cui “Il Consiglio di Stato è organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia nell’amministrazione”.
Tale espressione, come noto risalente al 1880 [18], nella Costituzione può essere oggi riferita solo al Consiglio di Stato come organo consultivo, ed infatti l’articolo 100 è collocato nella sezione degli organi ausiliari e non in quella della Magistratura, e pertanto non sembra assumibile a criterio di delimitazione della funzione della tutela giurisdizionale affidata agli organi di giustizia amministrativa.
Questa concezione di giustizia nell’amministrazione, come parentesi giurisdizionale, nell’ambito di esercizio del potere pubblico, non è più attuale, così come non sono più attuali le definizioni di interessi legittimi come “interessi diversi dai diritti”, che appare delineata nella legge 2248/1865 allegato E.
La concezione di giustizia nell’amministrazione come parentesi giurisdizionale, nell’ambito di esercizio del potere pubblico, è anche alla base dell’ostinazione con la quale gran parte della giurisprudenza amministrativa difende la pregiudiziale di annullamento [19].
Difatti, se si afferma che il giudice amministrativo è il giudice del buon andamento, il giudice dell’amministrare, conseguentemente si ritiene anche che esso non possa limitarsi a conoscere dell’illegittimità e illiceità dell’azione amministrativa ai soli fini di tutelare l’interesse del privato, ove ciò non possa comportare l’eliminazione dell’atto amministrativo illegittimo o comunque l’illegittimità di cui è risultata affetta l’attività amministrativa, sempre in funzione del corretto perseguimento del fine pubblico.
Questi argomenti oggi sono di estremo rilievo, anche a proposito del problema se consentire o meno l’azione volta al risarcimento per danni da ritardo, nel perdurante silenzio dell’amministrazione, anche senza previo esperimento dell’azione avverso l’inerzia provvedimentale di cui all’articolo 21 bis della legge n.241 del 1990.
Se si considera che la pregiudiziale di annullamento può giustificarsi, al massimo, per il rispetto del termine di decadenza nell’azione di annullamento quale proiezione del principio di certezza dell’azione provvedimentale dell’amministrazione, allora tale argomento non giustifica la pregiudiziale di condanna a provvedere rispetto a quella per il risarcimento dei danni da ritardo.
Del resto, anche il diritto privato conosce l’applicazione di termini di decadenza comuni all’azione costitutiva e a quella risarcitoria.
Si pensi all’azione redibitoria per i vizi nella vendita e all’azione di risarcimento per i danni di cui all’articolo 1494.
Volendo estendere il principio anche al silenzio invece si verrebbe a funzionalizzare anche l’interesse legittimo alla cura dell’interesse pubblico, configurando nuovamente l’interesse legittimo quale interesse alla legittimità dell’azione amministrativa, interesse occasionalmente protetto, cioè solo se coincidente con quello pubblico al ripristino della legittimità dell’azione amministrativa.
Ma l’interesse legittimo non è protetto solo se occasionalmente [20] coincidente con l’interesse pubblico.
A ben vedere l’unica differenza che può connotare l’interesse legittimo rispetto al diritto soggettivo è la circostanza che la pretesa ha ad oggetto l’esercizio di un potere autoritativo dell’altra parte [21], e rispetto all’interesse legittimo di diritto privato [22], invece, la circostanza che il potere autoritativo è funzionalizzato al pubblico e non privato interesse.
L’affermazione, secondo cui la tutela dell’interesse legittimo non può essere limitata da una funzione giurisdizionale amministrativa che sia restrittivamente intesa come una mera parentesi di giustizia nell’amministrazione, trova un fondamentale riscontro nella circostanza che il giudice amministrativo di ottemperanza è dotato di giurisdizione di merito, così che la soddisfazione dell’interesse del privato giurisdizionalmente riconosciuto può prescindere tendenzialmente dalla necessaria cooperazione dell’amministrazione.
Inoltre appare comunque di per sé illegittimo e contrario al principio di buon andamento (articolo 97 della Cosituzione) che l’amministrazione, non deducendo nel giudizio ragioni di diniego della pretesa del privato, nella fase di remand adduca poi altri motivi di rifiuto già deducibili poichè preesistenti alla decisione giurisdizionale.
Su tali aspetti si rinvengono importanti spunti giurisprudenziali, in materia di formazione progressiva anche del giudicato di ottemperanza [23], nonché, più direttamente, con riguardo all’illegittimità del comportamento dell’amministrazione che prospetti motivi di diniego che avrebbe già potuto addurre precedentemente [24].
Tali ultime considerazioni, come è evidente, pongono anche in crisi le ricorrenti affermazioni secondo cui il giudicato amministrativo di legittimità non copre il dedotto ed il deducibile [25].
La giurisdizione amministrativa è anch’essa una giurisdizione sul rapporto, e gli indizi normativi e giurisprudenziali di ciò sono in costante aumento.
Si pensi ai numerosi casi in cui la giurisprudenza ha consentito alla Pa di integrare il provvedimento in corso di giudizio, come corollario del giudizio non più limitato al controllo sull’atto ma esteso alla responsabilità, e conseguentemente al rapporto.
Il giudizio sul rapporto, d’altro canto, non può che definitivamente coprire il dedotto ed il deducibile[26], quale espressione della parità delle parti nel giudizio.
A tali considerazioni si è oggi aggiunto anche il tenore del nuovo articolo 21 opties, comma 2, che esclude l’annullabilità di atti vincolati per violazioni puramente formali, e che quindi impone al giudice un controllo sostanziale della spettanza della pretesa azionata dal privato [27].
Questa norma è perfettamente coerente con le riflessioni appena sviluppate.
Difatti essa afferma il principio secondo cui anche la tutela impugnatoria dell’interesse legittimo, avverso atti autoritativi e discrezionali, implica una cognizione della spettanza della pretesa.
Non più quindi al solo fine di quantificare il risarcimento del danno (attraverso lo strumento di cui all’articolo 35 del dlgs 80/1998, nel caso di atti autoritativi anche discrezionali).
L’articolo 21 octies tuttavia avverte che, nel caso di atti discrezionali, a differenza di quanto disposto con riferimento agli atti vincolati, la natura meramente formale dei vizi dedotti non può essere accertata d’ufficio dal giudice, ma deve essere necessariamente eccepita dall’amministrazione: viceversa si graverebbe il giudice di un compito di gestione dell’interesse pubblico.
Di ciò si trova agevole e puntuale conferma nel successivo periodo del comma 2 dell’articolo 21 octies, laddove è statuito che Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
E’ evidente quindi che il giudizio amministrativo non è più pensabile come giudizio sull’atto, ma diviene necessariamente giudizio sul rapporto tra privato ed amministrazione.
Ciò non comporta una sostituzione del giudice all’amministrazione, poiché dovrà essere quest’ultima ad allegare in giudizio le ulteriori ragioni che comunque giustificano la mancata realizzazione dell’interesse del privato [28], potendo anche integrare, se necessario, il provvedimento.
E su tali ragioni ed integrazioni, ovviamente, il controllo del giudice non sarà di merito, ma di legittimità ed inoltre limitato dai motivi aggiunti [29] che il ricorrente può chiedere di presentare di volta in volta (con rimessione in termini).
Ecco che l’azione amministrativa comprende anche la difesa davanti al giudice amministrativo delle proprie scelte, e l’eventuale integrazione del provvedimento nel corso del procedimento giurisdizionale [30].
Ne consegue che i vizi del provvedimento conservano la loro rilevanza, ma possono essere superati nel giudizio, ove prevale l’accertamento della legittimità del rapporto (anche d’ufficio nel caso di atti vincolati e solo su allegazioni delle parti in quelli discrezionali), rispetto a quella dell’atto.
Non c’è quindi un’irrilevanza dei vizi dell’atto, ma l’affermazione testuale della giurisdizione sulla spettanza, che comporta la prevalenza del rapporto sull’atto.
Sotto questo profilo, appaiono affrettate alcune ipotetiche censure di incostituzionalità dell’articolo 21 octies, comma secondo, per contrasto con gli articoli 24 e 113 della Costituzione poiché, si dice, limiterebbe solo ad alcuni vizi la possibilità di impugnare gli atti amministrativi[31].
E’ un’evidente inversione logica voler ritenere incostituzionale una norma poiché non corrisponde ad un preconcetto e superato ideale di giurisdizione speciale, ormai contrario a quello fatto proprio dalla Costituzione.
Intesa come norma che afferma che anche la giurisdizione amministrativa è una giurisdizione “sulla spettanza”, l’articolo 21 octies è tutt’altro che incostituzionale.
E’ inutile annullare un atto amministrativo se di tale annullamento il ricorrente non può trarre alcun vantaggio sostanziale.
Anzi, così intesa, la norma è proprio attuazione del carattere soggettivo ed individuale della tutela giurisdizionale come scolpita nella nostra Carta Costituzionale (cfr. articoli 2 e 24 della Costituzione) [32].
Il giudice amministrativo, nell’attuale contesto costituzionale, si può giustificare come giudice speciale solo nell’ottica della divisione dei poteri, non come corollario di un’ipotetica permanente specialità del giudizio amministrativo, da intendere ancora come parentesi di annullamento nell’azione amministrativa.
L’articolo 21 octies illumina di luce moderna la struttura del rapporto giuridico di diritto pubblico.
Anche nel diritto amministrativo si viene cioè ad introdurre quella distinzione tra regole di validità e regole di comportamento che già è presente nel diritto privato, sebbene oggi con confini quanto mai incerti, grazie anche alle influenze del diritto comunitario [33].
A tal fine l’articolo 28 octies della legge n.241 del 1990, in un certo senso, limitando i casi in cui il giudice può accordare al privato una tutela di tipo costitutivo, dà attuazione anche all’articolo 113 comma 3 della Costituzione, laddove prevede che l’annullamento dell’atto amministrativo può intervenire solo nei casi stabiliti dalla legge.
Questo articolo, inoltre, sposa la ricostruzione della tutela risarcitoria dell’interesse legittimo fornita dalla Corte Costituzionale nella sentenza n.204 del 2004, bocciando definitivamente invece la teoria elaborata dalla Cassazione nella sentenza n.500 del 1999.
La separazione delle regole formali da quelle sostanziali e l’attribuzione a queste ultime solamente del rilievo ai fini dell’annullabilità del provvedimento introduce positivamente anche nel diritto amministrativo la distinzione tra regole di comportamento e regole di validità.
Soltanto che vengono entrambe individuate nell’ambio delle regole sul procedimento amministrativo e quindi nell’ambito delle regole di azione, con la conseguenza che il risarcimento del danno all’interesse legittimo si staglia nel rapporto di diritto pubblico con una propria autonomia rispetto sia all’illecito aquiliano di cui all’articolo 2043 codice civile sia soprattutto all’illecito di tipo contrattuale di cui all’articolo 1218 codice civile (cui attraverso il paradigma del contratto sociale l’aveva ricondotto il Consiglio di Stato), che invece deriva dalla violazione di norme di comportamento di relazione tra privati nell’ambito di un rapporto giuridico obbligatorio di diritto privato.
Ne consegue che il richiamo all’articolo 1218 codice civile può essere solo tendenziale, specie nel caso di attività provvedimentale.
Si delinea così una figura speciale dell’illecito nel rapporto giuridico di diritto pubblico [34].
Le conseguenze sono notevoli ed intuibili.
Innanzitutto, non potrebbero trovare immediata applicazione i limiti qualitativi e quantitativi dei danni risarcibili, nei rapporti giuridici tra privati, che sono direttamente connessi alla natura degli interessi coinvolti (si pensi al danno morale o al limite della prevedibilità nell’illecito contrattuale colposo).
Inoltre, la prova (almeno quella dell’illiceità e dell’imputabilità del danno) nel giudizio sul risarcimento del danno per lesione di interesse legittimo dovrebbe essere richiesta in modo meno rigoroso rispetto ai principi vigenti in materia di illecito civile, nel senso che, vertendosi pur sempre nel giudizio di legittimità e in materia di norme di azione e di tutela dell’interesse legittimo, si dovrebbero seguire le stesse regole procedimentali in materia di prova della violazione delle regole di validità dell’atto, quantomeno nei limiti in cui si ritenga che tali regole siano connesse alla tutela giurisdizionale dell’interesse legittimo.
Con riferimento ai termini di prescrizione dell’azione (salvo il termine di decadenza di 60 giorni nel caso di adozione di un provvedimento autoritativo), l’applicazione del termine decennale previsto per l’illecito civile di tipo contrattuale è più problematica di quanto sino ad ora si è ritenuto.
Proprio a tal fine, potrebbe trovarsi molto utile il richiamo generale alle norme di diritto privato, come completamento delle lacune nelle norme di relazione sull’attività amministrativa, giungendo quindi a ritenere il termine di prescrizione direttamente, e non analogicamente, applicabile.
A ciò si aggiunga che, anche nella legge sul procedimento, sembrerebbe trovare conferma che nella prima fase di cognizione il giudice amministrativo ha potere di incidere pienamente sul rapporto solo a fronte di potere amministrativo vincolato.
Nel caso di potere discrezionale, invece, nella perdurante mancanza di collaborazione dell’amministrazione (nella determinazione del danno da risarcire, nel rispetto dei principi enunciati dal giudice), si può ricorrere ad una fase di ottemperanza.
Si consideri il particolare strumento di cui all’articolo 35 del d.lgs. 80/1998, come modificato dall’articolo 7 della legge 205/2000.
Questo articolo ben s’innesta nell’ambito della possibilità accordata alla pubblica amministrazione di determinare convenzionalmente il contenuto del provvedimento o di sostituire il contratto al provvedimento oppure di trovare con la parte un accordo sul risarcimento del danno.
Se ne desume il favore ordinamentale per la definizione collaborativa e contestuale degli assetti di interessi sottesi alla funzione pubblica.
Se però l’atto è discrezionale, la pretesa può coincidere solo con i vincoli a tale discrezionalità, sia nell’an che nel contenuto del provvedimento.
Ecco perché, nel determinare il risarcimento del danno, è stato previsto che il giudice amministrativo, ai sensi dell’articolo 35 del d.lgs. 80/1998, come modificato dall’articolo 7 della legge 205/2000, nel disporre il risarcimento del danno, possa limitarsi ad una condanna generica, dettando nel contempo i criteri ed i termini affinché l'amministrazione addivenga ad una proposta al privato, nella duplice forma del risarcimento pecuniario e dell'adempimento in forma specifica [35].
Nel caso di mancato raggiungimento dell’accordo di liquidazione del danno, nel rispetto dei criteri di legittimità dell’azione amministrativa, fissati dal giudice, l’articolo 35 prevede un giudizio d’ottemperanza e quindi di merito, proprio perché il risarcimento del danno da lesione dell’interesse legittimo, in caso di potere discrezionale in capo all’amministrazione, non può essere determinato, se non valutando, nel complesso rapporto privato-amministrazione, la reale spettanza del bene della vita.
Nel caso di potere discrezionale, la spettanza non è piena, ma coincide con i limiti dello stesso potere discrezionale.
In tali casi, allora, operare attraverso un criterio probabilistico realizzerebbe l’errore di sostituire arbitrariamente parametri ordinali, relativi a valutazioni soggettive spettanti in prima battuta all’amministrazione e poi al Giudice, con parametri cardinali, meramente prognostici e probabilistici[36].
Qualora invece il provvedimento sia assolutamente vincolato, è evidente che la posizione giuridica di interesse legittimo del privato può trovare immediata e piena tutela risarcitoria, sia per il ritardo sia per la non corrispondenza del provvedimento al modello legale, trattandosi di una vera e propria pretesa correlativa ad una posizione di “obbligo” in capo all’amministrazione.
In tal caso, qualora fosse già raggiunta la prova del danno, si potrebbe seriamente dubitare della decisione giurisdizionale che si limitasse ad attivare la procedura di cui all’articolo 35 del d.lgs. 80/1998, come modificato dall’articolo 7 della legge 205/2000.
In entrambi i casi, inoltre - cioè sia in quello di atto vincolato che in quello dell’atto discrezionale -, non è dubitabile che la natura della responsabilità sia più vicina a quella di tipo contrattuale, e quindi possa tendenzialmente ispirarsi a quella da “contatto procedimentale” [37].
III. LA DISCIPLINA CONSENSUALE DEL RAPPORTO GIURIDICO DI DIRITTO PUBBLICO.
Ogniqualvolta l’amministrazione decide di regolare convenzionalmente quello stesso interesse, che l’ordinamento protegge al punto da conferirlo alla tutela potestativa dell’amministrazione, l’utilizzo, cioè l’uso formale degli strumenti di diritto privato, non può trasformare l’interesse pubblico in interesse privato[38].
La titolarità di un potere funzionalizzato al pubblico interesse e la regolamentazione di tale potere secondo un modulo non provvedimentale, di conseguenza, non radicano la giurisdizione del giudice ordinario, ma (per gli articoli 1 e 11 della legge 241 del 1990) la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
La Corte Costituzionale, nella sentenza n.204 del 2004, ha detto che la giurisdizione esclusiva non può seguire la sussistenza generica dell’interesse pubblico in un determinato settore (materia) dell’ordinamento [39]: allora il pubblico interesse che radica necessariamente la giurisdizione del giudice amministrativo non è un generico interesse pubblico di settore ma è quello cui è funzionalizzato il singolo potere coinvolto nel rapporto giuridico dedotto in giudizio.
Non ci si riferisce alla generica finalizzazione dell’attività anche di diritto privato dell’amministrazione ad interessi pubblici, ma alla regolamentazione convenzionale di uno specifico interesse pubblico, individuato dalla legge come meritevole di tutela di diritto pubblico, mediante l’astratta attribuzione all’amministrazione del potere di perseguirlo anche con un provvedimento autoritativo unilaterale.
La “rilevanza pubblica autoritativa” dell’interesse dedotto nel rapporto convenzionale, qualifica quest’ultimo in termini pubblicistici e ne condiziona la disciplina, nell’ambito della quale, necessariamente, il momento autoritativo prima o poi riemerge a tutela di tale interesse, che in quanto tale non è mai sottoponibile totalmente al regime dell’autonomia privata [40].
L’amministrazione, così come può autovincolarsi nell’adozione di ulteriori provvedimenti amministrativi, può anche negoziare con il privato la costituzione modificazione o estinzione di un rapporto giuridico di diritto pubblico.
Anzi, oggi questo è il paradigma preferenziale, ex articoli 1 comma 1 bis e 11 della legge n.241 del 1990.
Il limite, però, è sempre quello del riemergere, prima o poi, del potere pubblico, che non può mai esaurirsi con l’accordo: quest’ultimo è pur sempre funzionalizzato al pubblico interesse.
Si pensi al regime del recesso dai contratti di diritto pubblico (articolo 11 comma 4) e della revoca del provvedimento amministrativo (21 quinquies) che nella legge sul procedimento amministrativo sono accomunati nei presupposti (a tutela del principio di matrice comunitaria del legittimo affidamento, da intendersi richiamato in materia di attività latu sensu amministrativa dal comma 1 dell’articolo 1 della legge 241 del 1990) e nel conseguente obbligo di indennizzo.
In alcuni casi, se la legge configura la possibilità di recedere dal contratto per motivi di pubblico interesse, allora anche il recesso dai contratti di diritto privato (di cui all’articolo 21 quinquies) può assumere i caratteri del provvedimento amministrativo autoritativo funzionalizzato al pubblico interesse.
Per i principi illustrati, v’è sempre e comunque giurisdizione del giudice amministrativo, esclusiva ex articolo 11 della legge 241/1990, anche nel caso dei servizi pubblici, i quali possono, in astratto, essere sottoposti ad un ordinamento settoriale, attraverso provvedimenti di regolazione, concessione o autorizzazione, controllo e sanzione, ma che l’amministrazione può invece decidere di regolare avvalendosi dello strumento privatistico (mediante contratti o costituendo società a partecipazione pubblica) [41].
I relativi rapporti, per la rilevanza qualitativa dell’interesse, saranno necessariamente connotati da un particolare disciplina in cui emergeranno momenti di potere unilaterale a tutela di tale interesse.
In particolare, come si evince dalla lettura combinata delle parti in fatto ed in diritto e del dispositivo, il Giudice Costituzionale, nella sentenza 204/2004, ha ritenuto che, in materia di pubblici servizi, spettano al Giudice Amministrativo le controversie vertenti sull’accertamento del contenuto e della validità del rapporto, con devoluzione al giudice ordinario di quelle vertenti sul pagamento di indennità, canoni ed altri corrispettivi (e forse solo in materia di concessioni di servizi pubblici [42]) cioè in riferimento a vertenze in cui la cura autoritativa dell’interesse pubblico non ha rilievo funzionalizzante del rapporto in termini comunque speciali e pubblicistici [43]-.
Con il che si ribadisce il ruolo del giudice amministrativo come giudice della funzione pubblica e quindi anche del rapporto pubblico consensuale (ex articoli 1 ed 11 della legge 241/1990), cioè del rapporto costituito per il diretto perseguimento dell’interesse pubblico affidato dalla legge alla cura anche autoritativa dell’amministrazione (che è diverso dall’interesse proprio dell’apparato amministrativo).
La funzione amministrativa, come cura dell’interesse pubblico, esercitata sia in forma autoritativa sia con accordi “sostitutivi” (es. i contratti di pubblico servizio, la cessione in luogo dell’espropriazione, le convenzioni urbanistiche), spetta alla giurisdizione del giudice amministrativo ed appartiene allo statuto particolare del diritto pubblico; l’attività di rilievo meramente privatistico dell’amministrazione pubblica, nella quale essa non agisce affatto come autorità, invece, ricade nella giurisdizione del giudice ordinario.
Ne consegue che, coerentemente, esulano dalla cognizione del giudice amministrativo quelle questioni nelle quali non è affatto controverso il contenuto del rapporto pubblico consensuale o la validità dell’atto costitutivo dello stesso, cioè la regolamentazione dell’interesse pubblico “meritevole di tutela autoritativa”.
Vi esulano quindi i casi in cui si chieda solo la condanna al pagamento di indennità o altri corrispettivi dovuti senza che si controverta in ordine all’esatta conformazione comunque del rapporto.
Sia alcune critiche sia alcune esaltazioni della Sentenza 204 non hanno pienamente valutato l’esatta portata della stessa, la quale, al di là delle espressioni usate, ha riaffermato pienamente il ruolo del giudice amministrativo come giudice della funzione pubblica e dei servizi pubblici [44].
Resta così necessariamente devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario solo quella che viene definita come attività privata delle amministrazioni pubbliche – che non costituisce funzione - [45], cioè soprattutto quell’attività con la quale le amministrazioni provvedono a sè stesse, ciò alla provvista di beni e servizi necessari alla propria organizzazione.
Resta pertanto attuale ed utile la distinzione elaborata dalla giurisprudenza amministrativa, relativamente alla distinzione tra appalti di servizi pubblici, in cui l’intera gestione del servizio, escluse le controversie afferenti solo alle indennità canoni o altri corrispettivi, è affidata alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ed appalti pubblici di servizi [46], devoluti, con riguardo alle controversie afferenti al rapporto contrattuale istaurato, alla giurisdizione del giudice ordinario [47].
In sostanza, l’articolo 11 della legge 241/1990, in combinazione con l’articolo 5 della legge 1034/1971 e con il nuovo comma 1 bis dell’articolo 1, secondo i criteri di riparto della giurisdizione sanciti dalla sentenza 204/2004 della Corte Costituzionale, comporta una concezione ampia di funzione amministrativa, non solo provvedimentale, e comprendente sia i pubblici servizi[48] (quali ipotesi pienamente rientranti nell’articolo 11) sia le funzioni pubbliche autoritative[49], a prescindere dalla concreta adozione di un provvedimento annullabile.
Che i servizi pubblici rientrino comunque nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, lo si ricava anche dalla lettura combinata e coerente dell’articolo 11 e dell’articolo 15 della legge 241/1990, che deve essere intesa nel senso della devoluzione al giudice amministrativo di tutti quegli accordi, tra amministrazioni o tra privati ed amministrazione, che sono funzionali alla cura diretta dell’interesse pubblico, sia relativamente all’esercizio di attività autoritativa che di servizi pubblici [50].
L’identità strutturale tra affidamento consensuale di servizi pubblici e accordi sostitutivi ex articoli 11 della legge 241/1990, è resa maggiormente evidente dal fatto che il comma 4-bis dell’art. 11, introdotto in sede di riforma, dalla legge n. 15/2005, impone di far precedere la stipulazione di accordi sostitutivi da una “determinazione dell'organo che sarebbe competente per l'adozione del provvedimento”, e quindi da un provvedimento amministrativo che da un lato accerti la compatibilità della conclusione dell’accordo con la cura dell’interesse pubblico perseguito dal servizio e dall’altro che si ponga come “l’atto terminale di una fase di evidenza pubblica” [51].
Questa determinazione, per espressa disposizione della legge, è prevista a garanzia dell’imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione.
E’ la stessa legge, quindi, che dice quale debba essere il contenuto e la funzione di questo provvedimento amministrativo.
Sembra abbastanza chiaro che essa non debba contenere la scelta dell’amministrazione in ordine alla preferenza accordata allo strumento di tipo privatistico piuttosto che la provvedimento autoritativo, atteso che, dal combinato disposto degli articoli 1 e 11 della legge 241 del 1990, si evince che il rapporto giuridico di diritto pubblico deve essere preferibilmente (si pensi al ricordato principio comunitario di proporzionalità) costituito modificato o estinto con il provvedimento o con l’accordo [52].
Un primo contenuto tipizzato della delibera preliminare di cui all’articolo 11 comma 4bis è funzionale all’imparzialità, quindi si desume che debba essere pertinente alla scelta del contraente secondo le regole o almeno i principi dell’evidenza pubblica, nel caso in cui il destinatario del provvedimento non risulti già individuabile in funzione dello specifico interesse pubblico da perseguire.
Proprio perché gli accordi, a differenza dei provvedimenti, diventano oggi atipici, inoltre, la legge richiede che nella delibera preliminare sia anche fatta espressa menzione dell’interesse pubblico - che resta tipico in ossequi al principio di legalità - cui l’accordo viene funzionalizzato, cioè dell’interesse che viene a connotare, in senso pubblicistico, la causa dell’accordo.
A ciò si riferisce la legge quando dice che la determinazione preliminare all’accordo è a garanzia del buon andamento.
L’atipicità dell’accordo, quindi, è limitata dalla necessaria funzionalizzazione di esso ad un interesse pubblico affidato dalla legge all’amministrazione procedente e da questa puntualmente individuato nella delibera preliminare.
I sostenitori della teoria cd. privatistica [53] degli accordi di cui all’articolo 11 della legge n.241 del 1990 tendono a limitare il momento pubblicistico di esercizio del potere alla determina preliminare, ritenendo l’accordo un atto di autonomia privata.
In realtà non si può impedire che il pubblico interesse entri anche nella causa dell’accordo poiché altrimenti si verrebbe ad interrompere il nesso di collegamento funzionale tra questo e la delibera preliminare.
Né risulta pertinente, a tal fine, il riferimento al contratto di diritto privato preceduto dal procedimento di evidenza pubblica, dove invece ciò che è funzionazzato direttamente al pubblico interesse è il procedimento di scelta e non il contratto finale.
Nel caso dei contratti di diritto privato, preceduti dall’evidenza pubblica, l’interesse perseguito dal procedimento di scelta è perfettamente distinguibile da quello perseguito dal contratto di diritto privato poi stipulato dall’amministrazione.
Il primo persegue un interesse pubblico generale, comune a tutti i procedimenti di scelta: che l’amministrazione stipuli i propri contratti alle migliori condizioni possibili e non realizzi disparità di trattamento tra gli aspiranti contraenti.
Il secondo persegue invece l’interesse particolare dell’apparato amministrativo che ha stipulato il contratto (es. fornitura di materiali d’arredo), che non coincide affatto con l’interesse pubblico affidato al potere amministrativo.
Il collegamento tra i provvedimenti di evidenza pubblica ed il contratto di diritto privato concluso dall’amministrazione è quindi solo genetico mentre quello tra la delibera preliminare e l’accordo di diritto pubblico ex articolo 11 è funzionale, mediante il rilievo pubblicistico dell’interesse trasfuso nella causa dell’accordo.
Questo giustifica il generale e atipico potere di recesso unilaterale ex articolo 11 comma 4 della legge 241 del 1990, a differenza della tipicità del potere di recesso dai contratti di diritto privato, ex articolo 21 sexies.
Gli accordi di diritto pubblico di cui all’articolo 11 vengono stipulati pur sempre nell’ambito di un rapporto di diritto pubblico, che si instaura con il procedimento amministrativo e che vede la correlazione delle due posizioni giuridiche di potere e di interesse legittimo.
Ora, quello che connota il rapporto (e, al contempo, la giurisdizione, anche secondo il ragionamento della Corte Costituzionale nella sentenza n.204 del 2004) sono le posizioni giuridiche.
Qualsiasi atto - che tenda e realizzare l’interesse cui, nel rapporto, è funzionalizzata direttamente la posizioni giuridica di potere dell’amministrazione - è comunque esercizio di tale potere, sia che ciò avvenga con un provvedimento amministrativo autoritativo sia con un accordo formalmente privatistico.
Il termine “esercizio indiretto del potere” introduce una sottoclassificazione che non è idonea a modificare la natura delle posizioni giuridiche.
Le conseguenze che derivano dalla qualificazione di contratti di diritto pubblico sono evidenti.
La volontà dell’amministrazione resta procedimentalizzata poiché funzionale al perseguimento del pubblico interesse e quindi la dichiarazione di volontà dell’amministrazione potrà essere impugnata da parte dell’amministrazione stessa e di terzi, facendo valere anche i vizi di legittimità del provvedimento amministrativo.
Analogamente, il rapporto tra delibera preliminare e dichiarazione di volontà nell’accordo resta quello di nesso funzionale di presupposizione, con tutte le conseguenze che ne derivano sotto il profilo della tutela giurisdizionale.
Allo stesso modo, il privato contraente individuato nella delibera preliminare non potrà ricorrere alla procedura di cui all’articolo 2932 codice civile, ma a quella di cui agli articoli 21 bis della legge TAR e 2 della legge n.241 del 1990[54].
E’ poi evidente, come espressamente previsto dagli articoli 1 e 11 della legge n.241 del 1990, che la disciplina dell’accordo di diritto pubblico, salvo il potere di recesso per motivi di pubblico interesse e la connessione funzionale con la delibera preliminare, salve cioè tutte le deroghe allo statuto privatistico che derivano per la funzione pubblica dell’accordo stesso, sarà sottoposto alla disciplina dei contratti di diritto privato.
Ciò riguarda anche la soggezione dell’amministrazione alla responsabilità di cui agli articoli 1337 e 1338 codice civile (in cui però il giudizio di buona fede è orientato anche dalla presenza del pubblico interesse, che potrebbe anche giustificare il recesso dalle trattative) e l’esperibilità di tutti i rimedi a tutela delle posizioni che derivano direttamente dal contratto (es. articoli 1453 e 1218 codice civile).
Tale ultima affermazione rivela come, con il contratto di diritto pubblico, l’amministrazione si può impegnare verso il privato (si autolimita) a tutelare l’interesse legittimo come fosse un diritto soggettivo, una pretesa piena, anche in ordine all’adozione di un provvedimento amministrativo.
L’applicazione delle norme di diritto privato, relativamente alla validità dell’accordo o alla manutenzione di esso, giustifica la previsione della giurisdizione esclusiva.
Stante la identità di presupposti e di funzione si ritiene che l’accordo di diritto pubblico soggiaccia sia al potere di revoca della delibera preliminare ex articolo 21 quinquies sia al recesso di cui all’articolo 11 comma 4, in entrambi i casi con l’obbligo di indennizzo.
E’ ovvio poi che le due ipotesi possono non coincidere, poiché la revoca della delibera può anche avvenire prima della stipula dell’accordo e giustificare quindi il rifiuto dell’amministrazione di stipulare.
Nulla esclude poi che i motivi di pubblico interesse possano riferirsi solo al contenuto dell’accordo e non della delibera e quindi l’amministrazione possa solo avvalersi del potere di recesso, che comunque conserva il carattere provvedimentale, attesa l’espressa funzionalizzazione del potere all’interesse pubblico.
Per tutte le considerazioni finora svolte, infine, la posizione dei terzi rispetto all’accordo di diritto pubblico ha la medesima natura e disciplina di quella che hanno i terzi nei confronti di un provvedimento autoritativo che non li vede come destinatari diretti.
IV. LA GIURISDIZIONE DEL G.A. SUL RAPPORTO DI DIRITTO PUBBLICO. CRITERIO DI RIPARTO E GIURISDIZIONE NON SOLO IMPUGNATORIA.
Nella recente sentenza 204/2004 della Corte Costituzionale, si è testualmente affermato che il Costituente ha riconosciuto al giudice amministrativo piena dignità di giudice ordinario per la tutela, nei confronti della pubblica amministrazione, delle situazioni soggettive non contemplate dal (modo in cui era stato inteso) l’art. 2 della legge del 1865.
Si è inoltre rimarcata la chiara opzione del Costituente in favore del riconoscimento al giudice amministrativo della piena dignità di giudice [55]: riconoscimento per il quale milita (…) la circostanza che l’art. 24 Cost. assicura agli interessi legittimi – la cui tutela l’art. 103 riserva al giudice amministrativo – le medesime garanzie assicurate ai diritti soggettivi quanto alla possibilità di farli valere davanti al giudice ed alla effettività della tutela che questi deve loro accordare.
Si è altresì precisato che, in presenza di tale opzione, il principio dell’unicità della giurisdizione – espresso dall’art. 102, con riguardo al giudice, e riflesso nell’art. 113, con riguardo alle forme di tutela garantite al cittadino – sta a significare che in nessun caso il legislatore ordinario può far sì che la pubblica amministrazione sia, in quanto tale, assoggettata ad una particolare giurisdizione, ovvero sottratta alla giurisdizione alla quale soggiace «qualsiasi litigante privato»: la specialità di un giudice può fondarsi esclusivamente sul fatto che questo sia chiamato ad assicurare la giustizia “nell’amministrazione” (da intendersi quindi come giustizia dell’attività amministrativa), e non mai sul mero fatto che parte in causa sia la pubblica amministrazione.
La Corte è poi giunta ad evidenziare i limiti che incontra il legislatore (quello ordinario, ovviamente) nel ripartire la giurisdizione tra i due ordini di giudici: Il legislatore ordinario ben può ampliare l’area della giurisdizione esclusiva purché lo faccia con riguardo a materie (in tal senso, particolari) che, in assenza di tale previsione, contemplerebbero pur sempre, in quanto vi opera la pubblica amministrazione-autorità, la giurisdizione generale di legittimità: con il che, da un lato, è escluso che la mera partecipazione della pubblica amministrazione al giudizio sia sufficiente perché si radichi la giurisdizione del giudice amministrativo (il quale davvero assumerebbe le sembianze di giudice “della” pubblica amministrazione: con violazione degli artt. 25 e 102, secondo comma, Cost.) e, dall’altro lato, è escluso che sia sufficiente il generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia perché questa possa essere devoluta al giudice amministrativo.
Inoltre, la materia dei pubblici servizi può essere oggetto di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo se in essa la pubblica amministrazione agisce esercitando il suo potere autoritativo ovvero, attesa la facoltà, riconosciutale dalla legge, di adottare strumenti negoziali in sostituzione del potere autoritativo, se si vale di tale facoltà (la quale, tuttavia, presuppone l’esistenza del potere autoritativo: art. 11 della legge n. 241 del 1990) [56].
I punti cardine della Sentenza 204 possono pertanto riassumersi nei seguenti, eccettuando l’aspetto principale della pronunzia, laddove, scegliendo per l’aggettivo “particolari” una funzione qualificativa e non solo determinativa, ha rilevato che il riparto di giurisdizione per blocchi di materie, così come delineato nella legge 205/2000, è parzialmente contrario alla Costituzione:
1- il diritto soggettivo e l’interesse legittimo hanno pari dignità e pari tutela, avendo conseguentemente pari dignità i giudici cui è demandata la loro tutela;
2- il giudice amministrativo è il giudice naturale dell’interesse legittimo e c’è, comunque, giurisdizione, di legittimità o esclusiva, del giudice amministrativo a fronte dell’esercizio di poteri autoritativi della pubblica amministrazione, siano essi discrezionali o vincolati [57];
3- c’è giurisdizione (legittimamente prevista anche come esclusiva) del giudice amministrativo, nel caso in cui la pubblica amministrazione, dotata in astratto del potere autoritativo, si trova pur sempre a costituire con il privato rapporti di diritto pubblico, e cioè anche quando essa agisce attraverso un accordo pubblico “sostitutivo”, ex articolo 11 della legge 241/1990.
Le affermazioni sub 1 e 2 devono essere considerate alla luce degli articoli 103 e 113 della Costituzione e degli articoli 2 e 4 della legge abolitrice del contenzioso amministrativo.
L’articolo 103 comma 1 ha riservato, inderogabilmente per il legislatore, ai giudici amministrativi la giurisdizione per la tutela degli interessi legittimi nei confronti della pubblica amministrazione, ed in ciò esso utilizza il criterio della causa petendi, desumibile del resto già dall’interpretazione che in quel tempo veniva fornita dell’articolo 2 e dell’articolo 3 della legge abolitrice del contenzioso amministrativo.
L’articolo 113 comma 3 demanda invece alla legge ordinaria l’individuazione degli organi di giurisdizione che possono annullare gli atti amministrativi, così introducendo la possibilità per il legislatore ordinario di derogare, purchè “ragionevolmente” (s’intende), al preesistente articolo 4 della legge 2248/1865 che, come noto, preclude al giudice ordinario di annullare gli atti amministrativi (e tale situazione è stata tenuta presente dal legislatore Costituente).
Tali norme, cioè l’articolo 103 e 113 della Costituzione, non sono affatto in contraddizione tra loro.
V’è in realtà un duplice criterio di riparto: quello della causa petendi, che è prospettato come inderogabile con riferimento all’attribuzione dell’interesse legittimo al giudice amministrativo [58] e che ricalca il disposto dell’articolo 2 e dell’articolo 3 della legge abolitrice del contenzioso; quello del petitum (pure accolto dalla giurisprudenza, all’indomani della legge 2248/1865, e specialmente dal Consiglio di Stato), che ricalca tendenzialmente l’articolo 4 della legge abolitrice del contenzioso.
Quest’ultimo criterio, però, per espressa previsione dell’articolo 113, non è vincolante per il legislatore ordinario, che è ammesso a derogarvi, purchè “ragionevolmente”, attribuendo al giudice ordinario il potere di annullare atti imperativi dell’amministrazione.
La deroga, secondo la prassi corrente e secondo l’interpretazione giurisprudenziale - entrambe derivanti, più o meno consapevolmente, dall’esigenza di rispettare il principio di ragionevolezza, contenuto nell’articolo 3 della Costituzione -, è ammissibile però solo per gli atti vincolati [59].
A fronte di atti non solo autoritativi ma anche discrezionali della pubblica amministrazione, la posizione privato è quella di interesse legittimo in senso più stretto (cioè che più si allontana dal diritto soggettivo, in termini di ampiezza della meritevolezza della spettanza nella struttura del rapporto), desumibile già dagli articoli 2 e 3 della legge abolitrice e ricavabile dal combinato disposto degli articoli 3, 24, 103 e 113 della Costituzione.
L’interpretazione che limita il potere del legislatore di demandare al giudice ordinario la tutela degli interessi legittimi in senso stretto, cioè quelli esistenti a fronte di un potere non solo autoritativo ma anche discrezionale della pubblica amministrazione, ha un chiaro fondamento nell’articolo 3 della Costituzione, che spesso viene poco considerato ai fini del riparto della giurisdizione[60].
L’esigenza di un giudice speciale e specializzato - e quindi da un lato più sensibile all’accertamento dei vizi della discrezionalità amministrativa e dall’altro più legittimato secondo il principio di divisione dei poteri a sindacare in modo ampio il potere pubblico (persino laddove manchi un provvedimento amministrativo) - non può che essere messa in crisi, minando così alle fondamenta l’intero sistema attuale di pluralità giurisdizionale, sia se si ritiene di potere rimettere al giudice ordinario anche la giurisdizione relativamente all’impugnazione di atti amministrativi non solo autoritativi ma anche discrezionali sia, soprattutto, se si ritiene di affidare al giudice ordinario la tutela dell’interesse legittimo anche in mancanza di un provvedimento amministrativo da annullare.
Dagli articoli 113 e 103 della Costituzione emerge una riserva costituzionale di giurisdizione al giudice amministrativo, in materia di tutela degli interessi legittimi nei confronti della pubblica amministrazione, ma anche che il potere di annullare gli atti autoritativi dell’amministrazione può essere attribuito, dalla legge, a qualsiasi giudice, pur sempre nei limiti del rispetto del principio di ragionevolezza.
Se le posizioni giuridiche hanno pari dignità e se pari dignità hanno i due ordini di giudici, ordinari e amministrativi, allora l’unica ragione del riparto è la divisione dei poteri, e proprio questa ragione deve funzionalizzare il controllo di ragionevolezza.
Per meglio comprendere quella che viceversa potrebbe apparire come una contraddizione, occorre liberarsi dal preconcetto, radicato nella prassi e quindi difficilissimo da eliminare, di una tutela dell’interesse legittimo solo di tipo impugnatoria.
L’interesse legittimo preesiste al provvedimento e si caratterizza per essere una posizione giuridica di vantaggio tesa alla conservazione o acquisizione di un bene della vita nell’ambito di un rapporto che coinvolge necessariamente un soggetto pubblico, astrattamente dotato del potere di regolare autoritativamente tale interesse privato, proprio perché esso risulta in qualche modo connesso con quello pubblico demandato alla cura dello stesso soggetto titolare del potere.
A liberare la definizione di interesse legittimo da quella di interesse all’impugnazione di un atto autoritativo, del resto, concorrono proprio gli articoli 103 e 113 della Costituzione.
L’articolo 103, difatti, attribuisce, inderogabilmente. al giudice amministrativo la tutela dell’interesse legittimo nei confronti dell’amministrazione, a prescindere dall’esistenza o meno di un atto annullabile da impugnare.
Ciò comporta che anche laddove vi sia un rapporto pubblico nell’ambito del quale l’amministrazione-autorità non ha adottato, pur avendone il potere, alcun atto imperativo annullabile e quindi impugnabile, la giurisdizione appartiene necessariamente al giudice amministrativo.
Che l’interesse legittimo, quale posizione giuridica correlativa ad una posizione di potere pubblico (benché non provvedimentalmente esplicata), sussista a prescindere dall’adozione di un atto autoritativo, lo si desume anche dall’interpretazione accolta dalla Corte Costituzionale nella sentenza 204/2004 [61], laddove l’articolo 11 della legge 241/1990 – quale ipotesi tipica di rapporto pubblico tra privato ed autorità non definito con un provvedimento ma con una convenzione - è considerato paradigmatico dell’esistenza di situazioni di interesse legittimo, come del resto già evidenziato da parte della dottrina [62].
A ben vedere, la Corte Costituzionale da un lato ha adeguato alla Costituzione il concetto di giurisdizione esclusiva dall’altro ha ampliato il concetto di interesse legittimo, conferendogli la giusta dimensione costituzionale espressa dagli articoli 103 e 24 della Carta fondamentale: c’è interesse legittimo a fronte del potere autoritativo in capo alla pubblica amministrazione, a prescindere dall’adozione di un provvedimento che su di esso incide.
Se l’amministrazione ha adottato un atto autoritativo vincolato, la giurisdizione appartiene di norma al giudice amministrativo, ex articolo 4 della legge abolitrice del contenzioso amministrativo, ma il legislatore, come visto, può attribuirla, ex articolo 113 della Costituzione, anche al giudice ordinario, senza che il limite rappresentato dal principio di ragionevolezza appaia ex ante insormontabile.
In mancanza di una deroga legislativa espressa, mantiene la propria operatività l’articolo 4 della legge abolitrice del contenzioso amministrativo, che, pur non avendo natura costituzionale, esprime comunque un limite alla cognizione del giudice ordinario nei confronti degli atti d’imperio della pubblica amministrazione[63].
Ne deriva che il giudice amministrativo è il giudice naturale, e pertanto ordinario, non solo degli interessi legittimi che non si trovano di fronte alla concreta adozione di un atto amministrativo autoritativo e di quelli che sussistono a fronte di un potere pubblico discrezionale– in entrambi i casi inderogabilmente ex articolo 103 della Cosituzione - [64] ma anche della tutela del privato nei confronti dell’atto amministrativo autoritativo, del potere pubblico, ex articolo 113 della Costituzione.
Perciò, solo in casi eccezionali, da valutare secondo il metro di cui all’articolo 3 della Costituzione[65], la legge, in virtù dell’articolo 113 citato, ma in deroga all’articolo 4 della legge abolitrice del contenzioso amministrativo, potrebbe affidare al giudice ordinario il potere di annullare atti amministrativi, ma solo se vincolati[66], cioè quelli a fronte dei quali può configurarsi una posizione di interesse legittimo più vicina al diritto soggettivo[67], avendo meno spazio di azione il potere pubblico.
Il fatto che la giurisdizione sul rapporto di diritto pubblico, in mancanza dell’adozione di un atto autoritativo, debba essere solo del giudice amministrativo ed invece, nel caso di adozione di un atto autoritativo vincolato, possa essere devoluta al giudice ordinario, è ragionevole proprio sotto il profilo della divisione dei poteri.
Se c’è un atto, per di più vincolato, il potere del giudice è più circoscritto e definito dal fatto che l’amministrazione ha già provveduto, e quindi l’accesso al fatto avverrà pur sempre attraverso le censure di parte in relazione all’atto stesso.
Sintetizzando, la giurisdizione sul rapporto pubblico, nel quale una delle parti è dotata di potere autoritativo ma non ha adottato alcun provvedimento amministrativo, spetta necessariamente al giudice amministrativo, ex articolo 103 della Costituzione.
Se invece v’è un provvedimento amministrativo autoritativo la giurisdizione è necessariamente del giudice amministrativo se l’atto è espressione di un potere discrezionale, è naturalmente del giudice amministrativo (con possibilità di deroga, ex articolo 113 e nel rispetto dell’articolo 3 della Costituzione, a favore del giudice ordinario, dal parte del legislatore) se è espressione di un potere vincolato.
Tale interpretazione, conforme alla lettera della Costituzione, è avvalorata anche dall’ordinanza n. 165/2001 della Corte Costituzionale[68].
Risulta così maggiormente delineato il duplice criterio di riparto vigente nel nostro ordinamento[69]: uno relativo al tipo di atto adottato e derogabile nel rispetto del principio di ragionevolezza (atti autoritativi al giudice amministrativo e atti di diritto privato comune al giudice ordinario), ed un altro relativo alle posizioni giuridiche ed inderogabile (interesse legittimo al giudice amministrativo).
Non necessariamente (occorre precisare) l’attribuzione al giudice ordinario del potere di annullare atti amministrativi[70] modifica le modalità di tutela dell’interesse sostanziale tanto da determinare la trasformazione dell’interesse legittimo (a fronte di atti amministrativi autoritativi e vincolati – si pensi alle sanzioni amministrative demandate al giudice ordinario -) in diritto soggettivo.
Ciò si verifica solo quando l’attribuzione alla giurisdizione del giudice ordinario di una serie di atti amministrativi si accompagna al mutare del loro regime, dal diritto pubblico al diritto privato, come è avvenuto nel caso della privatizzazione del pubblico impiego.
Qui il potere non è più funzionalizzato al pubblico interesse, ma è un potere di tipo datoriale, e quindi nel controllo di buona fede tale clausola generale è orientata dall’interesse particolare dell’apparato amministrativo e non più da quello pubblico generale.
L’impugnazione di atti autoritativi sanzionatori avanti al giudice ordinario conserva una peculiare procedura, con i relativi termini decadenziali, così come termini decadenziali sono previsti per l’impugnazione di atti amministrativi illegittimi di fronte al giudice amministrativo nel giudizio di legittimità.
V. LIMITI LEGALI ALLA MERITEVOLEZZA DI TUTELA DELL’INTERESSE LEGITTIMO NEL RAPPORTO GIURIDICO DI DIRITTO PUBBLICO.
Il giudizio impugnatorio non è una modalità tassativa ed esclusiva della tutela dell’interesse legittimo davanti al giudice amministrativo, ma è una modalità tipica di tutela giurisdizionale delle posizioni del privato a fronte di atti pubblici autoritativi ed annullabili della pubblica amministrazione.
Il termine decadenziale, inoltre, non è necessariamente l’elemento connaturale a tutte le modalità di tutela dell’interesse legittimo, e perciò distintivo e caratteristico di quest’ultima posizione giuridica soggettiva.
Difatti, il sistema espone ordinariamente solo la tutela costitutiva di annullamento degli atti autoritativi, discrezionali o vincolati, ai termini decadenziali, come corollario della necessaria stabilità degli effetti dell’agire provvedimentale dell’amministrazione.
In tali casi, cioè, nel giudizio di meritevolezza dell’interesse legittimo inserito nel rapporto di diritto pubblico, e quindi di spettanza del bene della vita ad esso sotteso, entra in gioco la contrapposta valutazione dell’esigenza di tutela della certezza dell’agire pubblico provvedimentale.
Questa ratio può giustificare l’applicazione del termine decadenziale anche per il risarcimento del danno da atti amministrativi illegittimi ma non impugnati, rinvenendo così anche nel diritto amministrativo un caso in cui un termine di decadenza, per identità di ratio, è comune a due azioni diverse (costitutiva e di condanna), così come avviene nel diritto privato, ad esempio, nel caso di azione redibitoria e di risarcimento danni per i vizi della cosa venduta.
La decadenza, dunque, è propria dell’azione di annullamento dell’atto autoritativo – anche con riguardo ad atti vincolati - e non della tutela, in generale, dell’interesse legittimo.
Del tutto artificiosamente, la giurisprudenza, in materia di silenzio, ha limitato la tutela degli interessi pretesivi allo stesso termine di decadenza fissato dalla legge per l’impugnazione dei provvedimenti autoritativi [71].
Anche le situazioni di interesse legittimo che più si avvicinano ai diritti soggettivi - poiché afferiscono a situazioni in cui viene conferito un potere autoritativo vincolato alla pubblica amministrazione - vengono tutelate, dinnanzi al giudice amministrativo, come tutti gli altri interessi legittimi, è ciò è particolarmente lampante laddove si tratti di dover impugnare un atto autoritativo annullabile nei termini perentori.
Invece le differenze di tutela avverso un atto vincolato o discrezionale sono evidenti con riferimento all’accertamento ed alla qualificazione del danno consequenziale al provvedimento illegittimo o in relazione alla tutela di condanna ad adempiere o risarcitoria avverso l’inerzia dell’amministrazione.
Tali differenze, tuttavia, non comportano una diversa natura dell’interesse legittimo, come posizione del privato tutelata a fronte del potere autoritativo (vincolato o discrezionale) di eteroregolamentazione pubblica, ma attengono semmai al differente contenuto ed ampiezza della pretesa sottesa alla posizione giuridica, che può essere correlata ad un potere più o meno ampio.
Oggi la differenza tra interesse legittimo e diritto soggettivo attiene al rapporto, privatistico o pubblicistico, nell’ambito del quale tali posizioni sorgono, ma non necessariamente alle modalità di tutela.
Precisando meglio ed avendo presente i referenti costituzionali appena indicati e le conclusioni cui è giunta la Corte Costituzionale con la sentenza 204/2004, possiamo affermare che la definizione di interesse legittimo o di diritto soggettivo non implica una preconcetta forma di tutela da accordare all’interesse sottostante[72].
Tale principio è espresso dalla Corte Costituzionale nella sentenza appena citata, laddove afferma la piena equiparazione della dignità delle due posizioni giuridiche entrambe tutelate dal principio di effettività della protezione degli interessi ad esse sottostanti, ex articolo 24 della Costituzione.
Tali interessi risultano diversamente conformati, a seconda che vengano in rilievo in un rapporto privatistico o pubblicistico (cioè ove opera una pubblica amministrazione, astrattamente dotata di poteri autoritativi ed in funzione del pubblico interesse), ed in tale ultimo caso ulteriori differenze risaltano a seconda che il potere sia o meno vincolato dalla legge.
Risultano diversamente conformati, inoltre, a seconda che, nell’ambito del rapporto pubblicistico, l’amministrazione adotti o meno un atto autoritativo annullabile.
In ogni caso, una volta accertato l’ambito di rilevanza e di meritevolezza di tutela dell’interesse sotteso al rapporto pubblicistico (interesse legittimo) o privatistico (diritto soggettivo), la tutela dovrà essere necessariamente piena ed effettiva tale da garantire una completa soddisfazione dell’interesse stesso.
E ciò vale, ex articolo 24 della Costituzione, sia per il diritto soggettivo che per l’interesse legittimo.
Un elemento caratteristico della tutela dell’interesse legittimo nei confronti dell’atto autoritativo è la tutela cassatoria nel termine decadenziale, e ciò è comune anche ai casi in cui la tutela avverso atti autoritativi vincolati della P.A. è stata affidata al giudice ordinario, senza privatizzare il rapporto.
La differente conformazione nel rapporto e quindi differente meritevolezza di tutela dell’interesse sottostante aumenta il proprio rilievo in materia di risarcimento del danno, laddove, di fronte al potere autoritativo e discrezionale dell’amministrazione, le modalità di risarcimento del danno, consequenziale all’annullamento o al ritardo, possono tendenzialmente seguire solo il procedimento di cui all’articolo 35 comma 2 del d.lgs. 80/1998.
Le differenze si vedono inoltre nella disciplina dell’azione di condanna dell’amministrazione in caso di inerzia nell’esercizio del potere, in cui il giudizio sulla fondatezza dell’istanza di cui all’articolo 2 della legge n.241 del 1990 non potrà essere identico nel caso di atti vincolati o discrezionali.
Si vedono anche nella valutazione della spettanza della pretesa costitutiva di annullamento che è diversa nel caso di atti vincolati o discrezionali, come si desume dal raffronto del comma 1 e 2 dell’articolo 21 octies.
A ben vedere, quindi, l’interesse legittimo, in ossequio all’articolo 24 della Costituzione, ha ottenuto dalla riforma della legge n.241 del 1990 una pienezza di tutela (costitutiva di accertamento e di condanna) in relazione alla meritevolezza di tutela di esso nel rapporto giuridico di diritto pubblico.
In ossequio al principio di divisione dei poteri, tale tutela si differenzia (in parallelo con la differenza di meritevolezza) a seconda che la pretesa riguardi l’esercizio di un potere discrezionale o vincolato, nel senso che, in caso di potere discrezionale, il giudice, salvo il caso di giudizio di ottemperanza (quindi di violazione di un giudicato, e cioè in attuazione di un potere giurisdizionale e non di amministrazione) non può sostituirsi all’amministrazione.
VI. LA TUTELA DELL’INTERESSE LEGIMITTIMO NON TROVA LIMITI ONTOLOGICI NEI POTERI DEL SUO GIUDICE: AZIONI COSTITUTIVA, DI CONDANNA E DI ACCERTAMENTO.
La dottrina[73] ha già ampiamente evidenziato che l’articolo 113 comma 3 della Costituzione costituisce la più rilevante interferenza del potere giudiziario sul potere amministrativo, laddove prevede la possibilità di una tutela costitutiva avverso i provvedimenti amministrativi.
Fatto sta che all’epoca dell’entrata in vigore della Costituzione, già esisteva l’articolo 26 del TU sul Consiglio di Stato che prevedeva sostanzialmente l’annullabilità virtuale del provvedimento ad opera del giudice amministrativo, e tale previsione si è conservata anche nella legge TAR n.1034 del 1971.
Sicchè, fino ad oggi, la disposizione costituzionale di cui all’articolo 113 comma 3 - che prevede che la legge individui non solo gli organi di giurisdizione ma anche i casi in cui possono essere annullati gli atti dell’amministrazione - non ha trovato compiuta attuazione [74].
L’articolo 21 octies, nel precisare il limiti al potere di annullamento del giudice amministrativo, di sicuro si colloca in tale direzione.
Resta comunque il fatto che pur dopo l’introduzione della Carta Costituzionale (che, come sopra evidenziato, con il combinato disposto degli articoli 24, 113 e 103, elimina la possibilità di configurare la tutela giurisdizionale amministrativa come meramente impugnatoria), soprattutto per inerzia, si è continuato a conservare le opinioni tradizionali di una tutela solo impugnatoria.
Queste opinioni tradizionali, come noto, hanno vari riferimenti testuali.
L’art. 45 del T. U. 26 giugno 1924, n. 1054, prevede che nel caso di accoglimento del ricorso la IV Sezione “annulla l’atto o provvedimento, salvo gli ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa”.
Con tale norma, secondo l’opinione tradizionale [75], si è inteso garantire la continuità dell’azione amministrativa, e quindi si è limitato l’effetto della sentenza a quello esclusivamente costitutivo.
Vi sono poi l’art. 65 n. 5 del regolamento di procedura 17 agosto 1907 n. 642, secondo cui la decisione deve contenere l’ordine “che la decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa”, e l’articolo 88 del regolamento di procedura , secondo cui “l’esecuzione delle decisioni si fa in via amministrativa, eccetto che per la parte relativa alle spese” .
Disposizioni che, peraltro, più che precludere in assoluto al giudice amministrativo il potere di emanare decisioni di condanna, mirano a escludere che l’esecuzione della condanna (con l’eccezione relativa alle spese) possa avvenire direttamente in via giudiziaria, cioè con gli strumenti previsti dal codice di procedura civile[76].
Del resto, già l’estensione del giudizio di ottemperanza anche alle decisioni del giudice amministrativo ha messo in crisi la concezione di una tutela meramente costitutiva, rivelando le potenzialità conformative del contenuto dichiarativo presente in qualsiasi statuizioni giurisdizionale.
Le azioni di accertamento e di condanna sono ormai pacificamente ammesse nel processo amministrativo, nell’ambito della giurisdizione esclusiva, facendosi proprio applicazione dell’articolo 24 della Costituzione.
Il vero problema è però quella dell’adozione di azioni di accertamento e di condanna che incidano su rapporti di diritto pubblico, cioè su situazioni in cui la PA è titolare di un potere pubblico funzionalizzato.
A tal fine, la dottrina aveva già individuato riferimenti normativi utili a sostenere che il giudice amministrativo può adottare anche sentenze diverse da quella di mero annullamento [77].
L’articolo 23, ultimo comma, della legge TAR n.1034 del 1971, in particolare, prevede che se l’amministrazione annulla o riforma l’atto impugnato in pendenza di giudizio, il giudice dichiara la cessata materia del contendere e provvede sulle spese, ma ciò solo se l’annullamento o la riforma risultino “in modo conforme all’istanza del ricorrente”.
In caso contrario il giudice, anziché dichiarare la cessazione della materia del contendere, può emanare una sentenza di mero accertamento [78].
Questa sentenza di accertamento, però, riguarda la sopravvenuta carenza d’interesse. E quindi ha carattere meramente processuale.
La prima vera breccia alle concezioni tradizionali, che vedevano l’azione di annullamento come l’unica tutela giurisdizionale possibile avverso l’esercizio del potere amministrativo si è prodotta non tanto con la sentenza n.500 del 1999 della Cassazione, che ha ricondotto pur sempre l’illecito provvedimentale alla violazione di norme di relazione, quanto con la sentenza n.204 del 2004 della Corte Costituzionale, che ha ricondotto la lesione dell’interesse legittimo pur sempre alla violazione di norme di azione, anche se di mero comportamento e non di validità.
Nel caso di azione di risarcimento del danno, quindi, è possibile la condanna dell’amministrazione, anche in forma specifica, incidendo nell’ambito di un rapporto giuridico di diritto pubblico.
Ha notevole rilievo, al fine di dimostrare l’inesistenza di limiti intrinseci di tutela dell’interesse legittimo connessi ai poteri del suo giudice, la nuova disciplina della tutela cautelare, desumibile dall’articolo 21 della legge 1034/1971, come modificato dalla legge 205/2000, secondo cui il giudice amministrativo può adottare tutte le misure cautelari che appaiano, secondo le circostanze, più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso.
Né tale dato può essere destituito di pregnanza rilevando che lo strumento cautelare può assicurare, interinalmente, utilità maggiori rispetto alla sentenza finale, poiché ha una funzione conservativa e non di tutela finale della pretesa azionata [79].
Tale visione sarebbe sicuramente riduttiva poichè si limiterebbe a considerare la rilevanza di tale norma solo con riguardo all’interesse azionato dal privato e non con riguardo ai poteri del giudice.
Il dato di maggior rilievo è invece che il giudice della cautela non è diverso dal giudice del giudizio principale, e pertanto, nei limiti della spettanza finale che il ricorrente può vantare, deve poter adottare i medesimi provvedimenti che può adottare in fase cautelare.
Ciò solo è sufficiente ad evidenziare che non è vero che il giudice amministrativo dispone solo del potere di annullare gli atti amministrativi illegittimi: in ogni caso il Giudice può (e deve) adottare, senza alcun limite interno con riguardo al tipo di pronunzia, il provvedimento giurisdizionale più idoneo alla realizzazione dell’interesse dedotto in giudizio, ovviamente nei limiti della domanda e della meritevolezza.
L’interesse legittimo preesiste al provvedimento ed è indipendente dalla sua esistenza: non si vede allora perché non possa ricevere ontologicamente anche una tutela autonoma rispetto alle vicende del provvedimento stesso.
L’interesse legittimo, pertanto, non è solo l’interesse all’annullamento dell’atto amministrativo, ma l’interesse meritevole di tutela nell’ambito del rapporto di diritto pubblico con l’amministrazione.
L’ampiezza ed il contenuto di tale meritevolezza, e quindi della pretesa sottesa alla posizione giuridica, sono desumibili dalle norme che regolano l’agire dell’amministrazione.
Ma una volta accertata la reale ampiezza del contenuto della pretesa, si violerebbe l’articolo 24 della Cosituzione, se non si ammettesse che il giudice amministrativo possa dare tutela piena ad essa, eventualmente servendosi, in via analogica, degli strumenti che il codice di procedura accorda al giudice ordinario.
Il Giudice amministrativo quindi deve poter adottare tutti i tipi di sentenze, anche di accertamento [80], in virtù dell’applicazione analogica delle norme del codice di procedura civile – quale legge processuale generale [81] - che, quando non si verte in tema di giudizio impugnatorio, non sono ontologicamente incompatibili con il giudizio innanzi al giudice amministrativo.
A tal proposito, occorre tenere ben distinte, quanto ai presupposti ed alla natura, l’azione costitutiva di annullamento e quella di condanna al risarcimento in forma specifica.
L’azione di risarcimento in forma specifica è funzionale alla riparazione del danno e inoltre presuppone la sussistenza degli ordinari criteri di imputazione, tra cui la colpa e il dolo.
Non si può confondere neanche l’azione di risarcimento in forma specifica con l’azione di condanna all’adempimento, poiché, anche in tal caso, i presupposti oggettivi e soggettivi sono diversi.
L’azione di adempimento, nel rapporto giuridico di diritto pubblico non regolato già con un accordo di cui all’articolo 11 della legge 241 del 1990, deve rispettare il paradigma di cui agli articoli 2 della medesima legge e 21 bis della legge n.1034 del 1971.
Se il rapporto è regolato da un accordo di diritto pubblico ex articolo 11, allora si potrà agire con le azioni di cui all’articolo 1453 codice civile.
In ogni caso, secondo i principi generali, le azioni di adempimento non richiedono i criteri di imputazione dell’illecito.
Non mancano tuttavia elementi comuni a tutte le azioni tese alla tutela dell’interesse legittimo, derivanti appunto dalla natura intrinseca e dalla meritevolezza dell’interesse legittimo stesso.
L’illecito nel rapporto giuridico di diritto pubblico, ad esempio, si ispira alle norme di diritto comune ma resta pur sempre caratterizzato dal proprio statuto pubblicistico.
La tutela risarcitoria incontra, quindi, i limiti insiti nella pretesa del privato a fronte di un potere autoritativo discrezionale, così come tali limiti incontra la tutela costitutiva.
Anche nell’azione di condanna di cui all’articolo 2 della legge n.241 del 1990, emerge la distinzione tra potere vincolato e potere discrezionale[82], coerentemente a quanto già si è illustrato a proposito del sistema evincibile dal combinato disposto degli articoli 2, 21 octies della legge n.241 del 1990 e 35 del dlgs 80 del 1998.
Anche se può valutare la fondatezza della istanza al fine di vincolare l’amministrazione nell’adozione del successivo provvedimento, cioè, il giudice incontra pur sempre lo stesso limite espresso dal paradigma di cui all’articolo 21 octies comma 2 in tema di azione costitutiva di annullamento, che è un fondamentale limite normativo di meritevolezza di tutela dell’interesse legittimo nel rapporto giuridico di diritto pubblico.
Se l’atto è vincolato, il giudice può procedere d’ufficio, pur sempre in virtù delle allegazioni del ricorrente, ma se è discrezionale e la fondatezza o l’infondatezza della domanda non risulta dalla partecipazione anche dell’amministrazione in giudizio, allora potrà solo adottare una condanna generica, istaurando così un procedimento modellato sulla falsa riga dell’ottemperanza, così come previsto, per il risarcimento danni, dall’articolo 35 del dlgs n.80 del 1998.
Le precedenti conclusioni devono essere valutate anche attraverso l’osservazione secondo cui il processo deve “far ottenere ai titolari delle situazioni di vantaggio gli stessi risultati (o, se questo impossibile, risultati equivalenti) che avrebbero dovuto ottenere attraverso la cooperazione spontanea da parte dei consociati”[83] e , nel caso in esame, da parte dell’amministrazione.
Ne conseguirebbe, ad un primo esame, che la crisi di cooperazione [84] dell’amministrazione si correla a pretese di diverso contenuto a seconda che il potere di cui è titolare l’amministrazione sia discrezionale o vincolato.
Nel sistema della riforma alla legge n.241 del 1990, però, a ben vedere, si rinvengono anche gli elementi per rendere piena e definitiva la tutela giurisdizionale, pur nel rispetto della discrezionalità amministrativa, fornendo agli interpreti gli strumenti per superare definitivamente la concezione di processo giurisdizionale amministrativo come parentesi dell’azione amministrativa.
Argomentando dall’articolo 10 bis, che obbliga l’amministrazione a fornire al richiedente le ragioni del diniego, si potrebbe anche rinvenire un potere/dovere istruttorio del giudice, eventualmente su istanza di parte, di interpellare l’amministrazione affinché comunichi tutte le ragioni dell’infondatezza dell’istanza [85].
L’accoglimento di questa interpretazione renderebbe effettivamente piena la tutela giurisdizionale, nel rispetto della discrezionalità dell’amministrazione, e del principio di diritto processuale secondo cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile.
Principio imprescindibile nell’ispirazione paritaria che connota il nuovo diritto amministrativo.
Quest’ultimo principio non può essere posto in dubbio da quanto previsto dall’articolo 45 del T. U. 26 giugno 1924, n. 1054, che fa salvi gli ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativi, poiché si tratta di una norma che si riferisce solo ai limiti cronologici del giudicato[86], che non può tenere conto di fatti sopravvenuti.
In conclusione, così come nel codice civile e di procedura civile, anche nelle norme che riguardano direttamente o indirettamente il processo amministrativo si rinvengono numerosi elementi che depongono nel senso dell’atipicità delle azioni esperibili davanti al giudice amministrativo.
VII. UN CASO PARTICOLARE DI AZIONE DI ACCERTAMENTO: L’AZIONE DI NULLITA’.
1. Atto nullo e risarcimento del danno. Precisazioni preliminari.
Il riparto di giurisdizione in tema di provvedimento nullo può apparire ancora incerto negli esiti[87], ma le precedenti considerazioni sullo stato attuale della giurisdizione amministrativa consentano ora di affrontare, ed attualizzare, con maggiore certezza l’interpretazione dell’articolo 21 septies, ai fini del riparto di giurisdizione.
La chiave di volta del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, in materia di nullità del provvedimento, è apparentemente contenuta nel secondo comma dell’articolo 21 septies, il quale precisa che le questioni di nullità dipendenti dalla violazione o dall’elusione del giudicato sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Il testo del disegno di legge n. 1281 del Senato della Repubblica, all’articolo 13 quinques comma 2, prevedeva che, per le questioni inerenti alla nullità dei provvedimenti amministrativi in violazione o elusione del giudicato, la giurisdizione del giudice amministrativo fosse esclusiva e di merito.
In uno dei primissimi commenti, si è quindi subito rilevato un pericolo insito nella disposizione approvata, la cui gravità sarebbe sfuggita al legislatore: se i provvedimenti sono nulli quando violano o eludono il giudicato, e devono essere censurati in sede di giurisdizione esclusiva, questo significa che è stato cancellato il giudizio di ottemperanza ex art. 27 n. 4 t.u. Cons. Stato, per il quale era data la giurisdizione di merito [88].
Proprio tale considerazione, tuttavia, deve avvertire l’interprete che la strada interpretativa percorsa non è quella giusta.
La disposizione si giustifica poiché la nullità per violazione o elusione del giudicato ha una propria peculiarità, che la distingue nettamente dalle altre ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo, contemplate dal primo comma dell’articolo in commento.
E’ giurisprudenza pacifica che a fronte di un giudicato favorevole alla parte privata la posizione giuridica vantata verso la pubblica amministrazione, anche in veste di autorità, è quella del diritto soggettivo e non dell’interesse legittimo [89].
Mentre nelle ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo previste dall’articolo 21 septies comma 1 la posizione del privato è di interesse legittimo, nel caso di violazione o elusione del giudicato a sé direttamente favorevole egli vanta un vero e proprio diritto soggettivo all’esatto adempimento alla statuizione giurisdizionale[90] e pertanto la giurisdizione amministrativa, in materia di dichiarazione di nullità del provvedimento in contrasto con il giudicato, non può essere quella ordinaria di legittimità, ma deve essere necessariamente quella esclusiva.
L’articolo 21 septies comma 2, quindi, si riferisce all’azione per la dichiarazione di nullità e per il risarcimento del danno esercitati da chi ha ottenuto un giudicato favorevole.
L’articolo 21 septies comma 1, invece, tra le altre ipotesi, contempla l’azione di nullità per contrasto con un precedente giudicato, esercitata da chi non è stato parte del giudizio.
L’azione di nullità vera e propria (anche per elusione o violazione del giudicato) deve essere tenuta distinta da quella per l’ottemperanza, cioè quella tesa a far valere giudizialmente, nel termine di prescrizione decennale, l’obbligo dell’amministrazione di adempiere al giudicato (azione che, a differenza di quella di nullità, spetta solo a chi ha partecipato al giudizio di ottemperanza).
Il comma secondo in commento, laddove prevede la giurisdizione esclusiva, si riferisce solo all’azione dichiarativa della nullità del provvedimento amministrativo, adottato in violazione o elusione del giudicato ed alle azioni di risarcimento del danno, e non modifica affatto la disciplina del giudizio di ottemperanza, quale giudizio teso all’esecuzione della sentenza giurisdizionale, disciplinato dall’articolo 27 n. 4 t.u. Cons. Stato con la prescrizione decennale dell’azione e la giurisdizione esclusiva e di merito del giudice amministrativo.
In effetti, la giurisdizione di merito ha una propria giustificazione solo con riferimento all’azione tesa ad ottenere l’adempimento al giudicato e non per quelle tese ad una mera dichiarazione di nullità o al risarcimento del danno (con riguardo a quest’ultima, però, resta salva la speciale procedura di liquidazione di cui all’articolo 35 del d.lgs. n.80 del 1998).
L’aver previsto la giurisdizione esclusiva in materia di nullità del provvedimento amministrativo sia nel caso di violazione che di elusione del giudicato è innovativa ed esprime un favore verso la giurisdizione del giudice amministrativo in tutti i momenti dell’azione amministrativa.
E’ innovativa perché la violazione del giudicato amministrativo veniva ritenuta normalmente un’ipotesi di inesistenza del potere amministrativo e pertanto ove si fosse agito solo per l’accertamento di tale inesistenza e non per l’azione di ottemperanza, probabilmente la giurisdizione sarebbe potuta essere del giudice ordinario, sulla base della qualificazione in termini di carenza di potere.
La violazione del giudicato, inoltre, viene ora accomunata all’elusione quanto all’effetto invalidante dell’atto amministrativo, mentre prima non si riteneva che determinasse la nullità ma solo l’annullabilità[91].
In tal senso deve essere intesa la precisazione del legislatore, e non certo come una presunta volontà – tacita – di eliminazione del giudizio di ottemperanza.
Quindi, il rapporto tra il secondo ed il primo comma dell’articolo 21 septies non è in termini di eccezione alla regola, poiché essi si riferiscono alla disciplina della tutela di due differenti posizioni giuridiche di fronte all’adozione di provvedimenti amministrativi nulli: il primo si riferisce solo a posizioni di interesse legittimo, e quindi era superflua la specificazione della giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo, derivante direttamente dall’articolo 103 della Costituzione; il secondo si riferisce a ipotesi che possono coinvolgere posizioni di diritto soggettivo, e pertanto il legislatore ha ritenuto opportuna una precisazione.
2.La giurisdizione in materia di risarcimento per violazione del giudicato.
Ad una lettura attenta della norma, consegue l’ulteriore rilievo che il secondo comma dell’articolo 21 septies comma secondo non limita la giurisdizione esclusiva alla cognizione dell’atto nullo: demanda alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le questioni - di nullità - dipendenti dalla violazione o dall’elusione del giudicato.
Demanda cioè al giudice amministrativo, oltre che la giurisdizione - come visto esclusiva - relativa all’accertamento della nullità del provvedimento amministrativo, anche la cognizione delle altre questioni consequenziali all’adozione, da parte dell’amministrazione, di un atto nullo, poiché adottato in violazione del giudicato, e s’intende di qualsiasi autorità giurisdizionale.
E’ evidente l’importanza della disposizione in esame, che se così interpretata consente, non solo in sede di ottemperanza, al privato leso dall’attività amministrativa in contrasto con un giudicato di qualsiasi autorità giurisdizionale, di chiedere al giudice amministrativo anche il risarcimento del danno.
Dato che, pacificamente, la giurisprudenza e la dottrina[92] qualificano la violazione o elusione del giudicato come lesione di un diritto soggettivo (al rispetto in via amministrativa di quanto statuito in sede giurisdizionale), appare corretta la qualificazione della giurisdizione di cui all’articolo 21 septies comma 2 come esclusiva, anche con riferimento alla condanna al risarcimento del danno conseguente all’adozione di un atto nullo.
Inoltre, l’attribuzione espressa di tale giurisdizione al giudice amministrativo, benché non riguardi solo il giudizio d’ottemperanza sembra favorire anche l’interpretazione giurisprudenziale, che ammette la richiesta, in quella sede, del risarcimento del danno per inadempimento dell’obbligo[93] dell’autorità amministrativa di conformarsi per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato del giudice amministrativo[94] (vds. articolo 37 legge TAR e 27 TU CdS).
Perde quindi terreno la dottrina[95] che, invece, si era manifestata più incerta.
Anche per quanto riguarda il giudicato dei giudici speciali, nonostante le innovazioni normative che hanno introdotto la possibilità di esperire l’actio iudicati innanzi il medesimo giudice del giudicato [96] (vds. l’articolo 70 del d.lgs. 546/1992 per le commissioni tributarie e l’articolo 10 commi 2 e 3 della legge 205/2000 per la Corte dei Conti), l’azione di risarcimento del danno da atto amministrativo nullo perchè in violazione o elusione del giudicato di qualsiasi autorità giurisdizionale, per l’espressa disposizione di cui al comma 2 dell’articolo 21 septies della legge in commento, è ora riservato alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Così come per il giudicato del giudice ordinario, anche per quello degli altri giudici speciali, oggi potrebbe anche essere rivista la possibilità di una giurisdizione concorrente del giudice amministrativo in materia di esecuzione del giudicato, nei confronti della pubblica amministrazione [97].
Fermo restando che la giurisdizione esclusiva di cui al comma 2 dell’articolo 21 septies potrà prescindere dall’instaurazione di un giudizio d’ottemperanza, tuttavia, avendo già il giudice amministrativo competenza funzionale per l’ottemperanza, è del tutto ragionevole che tale competenza sia stata implicitamente estesa parallelamente a quella esclusiva per l’accertamento della nullità e del conseguente obbligo di risarcimento del danno per l’adozione di provvedimenti nulli perché in violazione o elusione del giudicato [98].
Anche il risarcimento del danno postula l’accertamento della violazione dell’obbligo di conformazione al giudicato e pertanto le due domande sono tra loro tendenzialmente connesse sotto il profilo oggettivo da un nesso di pregiudizialità logica[99].
Che la sede più appropriata per il risarcimento del danno da inattuazione dei giudicati giurisdizionali [100] sia quella del giudizio amministrativo, si rileva anche nella considerazione che il giudice amministrativo, nel caso residuassero profili di discrezionalità amministrativa nell’attuazione [101] - avendo anche giurisdizione di merito riguardo all’azione di adempimento del giudicato e disponendo, con riferimento al risarcimento del danno, del potere di cui all’articolo 35 d.lgs. 80/1998, che pur sempre conduce ad una valutazione piena del rapporto privato-pubblica amministrazione – è dotato di maggiori strumenti per l’esatta quantificazione del danno e per la realizzazione combinata (esecutiva e risarcitoria) dell’interesse vantato [102].
3.L’azione di nullità. Questioni di giurisdizione.
Secondo alcune opinioni, la nullità del provvedimento amministrativo, oltre a costituire un vizio del provvedimento stesso (il più grave), desumibile a seguito della valutazione della non conformità del dato reale alla fattispecie astratta legale, rappresenta anche un limite alla giurisdizione del giudice amministrativo, con conseguente attribuzione di essa a favore del giudice ordinario [103].
Tali concezioni adducono varie motivazioni.
Innanzitutto hanno ritenuto che il giudice amministrativo non possa adottare sentenze di mero accertamento.
In particolare, tali tesi partono dalla considerazione che la prevalente giurisprudenza e parte minoritaria della dottrina [104] hanno per lo più negato l’esperibilità dell’azione di accertamento in materia di interessi legittimi.
La concezione che riconduce necessariamente la tutela dell’interesse del privato ad una tutela di tipo impugnatorio, ripropone, forse inconsapevolmente, una formula che invece meritoriamente il GA ha elaborato per accordare al privato una tutela cautelare propulsiva a fronte del silenzio dell’amministrazione, quando però il dato normativo prevedeva solo ordinanze sospensive del provvedimento impugnato, ex articolo 21 della legge Tar nella precedente formulazione.
Come tutti ben ricordano, allora si dovette elaborare una sorta di equiparazione dell’atto negativo al silenzio[105].
Ma ora la legislazione è cambiata e tutto depone, come abbiamo visto, nel segno di più concrete attuazioni dell’articolo 103 della Costituzione, per il quale il giudice amministrativo non è solo il giudice dell’annullamento dell’atto, secondo il paradigma contemplato dall’articolo 113 della Costituzione, ma è il giudice del rapporto e della spettanza dell’interesse sostanziale sotteso alla posizione giuridica di interesse legittimo.
Per l’evidenziata preferenza accordata allo strumento consensuale, l’agire della PA sarà per la maggior parte dei casi sottoposto al vaglio del G.a. non mediante l’impugnazione di un atto ma attraverso azioni che mirino all’esatto accertamento del rapporto come convenzionalmente istaurato.
La tutela dell’interesse legittimo attraverso l’azione di nullità o annullamento di un provvedimento avrà pertanto carattere residuale e ciò dovrebbe fare meditare sull’inattualità di opzioni interpretative affezionate ad un giudizio sull’atto.
La preferenza normativa per l’agire consensuale della PA, ex articolo 11 della legge 241/1990, priva di centralità la tutela impugnatoria, e quindi sposta l’asse della giustizia amministrativa dal controllo dell’atto, nei termini perentori, all’analisi del rapporto secondo moduli d’ispirazione privatistica.
Il giudice amministrativo, quindi, dovrà essere chiamato più a giudicare della nullità degli accordi di diritto pubblico, e quindi ad applicare norme di tipo privatistico, che della nullità di provvedimenti unilaterali.
Non v’è chi non veda l’irrazionalità di un sistema in cui, sussistendo in astratto il potere in capo all’amministrazione, se questa operasse con uno strumento convenzionale, ex articolo 11 della legge 241/1990, vi sarebbe giurisdizione del giudice amministrativo (anche per l’eventuale dichiarazione di nullità dell’accordo), mentre se adottasse un provvedimento radicalmente viziato, e quindi nullo, vi sarebbe invece giurisdizione del giudice ordinario, con una singolare inversione delle norme solitamente demandate alla interpretazione dei due diversi plessi giurisdizionali.
Al punto che, se dovesse prevalere la tesi della giurisdizione ordinaria in materia di provvedimenti amministrativi nulli, sarebbe auspicabile un serio ripensamento dell’intero sistema di riparto in tema di tutela nei confronti della pubblica amministrazione, ormai eccessivamente trasversale quanto alle competenze giurisdizionali, da renderne evidentemente irrazionale la sopravvivenza - come alternativa all’unità della giurisdizione – anche per i riflessi negativi in termini di effettività e certezza delle posizioni giuridiche.
Ed ecco che è più coerente l’attribuzione al giudice amministrativo della giurisdizione in materia di provvedimenti nulli, purchè essi vengano adottati nell’ambito di un rapporto giuridico di diritto pubblico, come sopra inteso, cioè purchè la PA che adotta il provvedimento nullo sia astrattamente dotata del potere di regolare autoritativamente l’interesse pubblico dedotto nel provvedimento stesso.
Né si può sostenere che appare troppo difficile distinguere i casi in cui l’interesse pubblico perseguito dall’amministrazione abbia una “copertura autoritativa”, nel senso che la Pa è astrattamente dotata del potere di perseguirlo autoritativamente.
Una tale verifica è ritenuta possibile dallo stesso sistema, come si evince dalla stessa previsione dell’articolo 11 della legge 241/1990, nel cui ambito tale valutazione è funzionale alla qualificazione degli accordi, anche atipici, come sostitutivi di un provvedimento, da cui discendono le note conseguenze in termini di giurisdizione e di disciplina applicabile.
Non appare più condivisibile l’opinione che limita la giurisdizione del giudice amministrativo nei confronti dei provvedimenti nulli, solo laddove ci si trovi in presenza di interessi legittimi pretesivi [106].
In particolare, alcuni Autori, pur partendo da una corretta premessa, secondo cui dare rilievo alla nullità del provvedimento vorrebbe dire rievocare indebitamente la teoria dell’affievolimento, poi però, contraddicendo le premesse, giungono ad affermare che v’è giurisdizione del giudice amministrativo, solo laddove venga adottato un provvedimento nullo a fronte di interessi pretesivi, e che vi è invece giurisdizione ordinaria nel caso di interessi legittimi oppositivi [107].
Allo stato attuale, il criterio di riparto della giurisdizione, il quale emerge anche dalla sentenza 204/2004 della Corte Costituzionale, è quello basato sull’esistenza del potere dell’amministrazione di realizzare il proprio interesse anche attraverso un atto autoritativo.
Ed allora, in via più generale, non è necessaria l’adozione di un provvedimento amministrativo per rinvenire posizioni di interesse legittimo: basta che nel rapporto l’amministrazione sia comunque astrattamente dotata del potere autoritativo, anche se poi non lo esercita (inerzia) o se agisce secondo un modulo convenzionale.
Se l’amministrazione ha la capacità di diritto pubblico, con riferimento alla cura di quell’interesse dedotto nel rapporto, allora la giurisdizione è giocoforza del giudice amministrativo, sia se l’amministrazione agisca mediante un provvedimento nullo sia se essa agisca mediante un strumento convenzionale in sostituzione del provvedimento amministrativo.
L’interpretazione della Corte Costituzionale, che imposta la soluzione al problema del riparto sull’esistenza del potere pubblico nel rapporto (presenza che anche se inespressa comunque influisce sulla disciplina del rapporto e conforma verso lo statuto pubblico le posizioni giuridiche, come nel caso degli accordi di cui all’articolo 11 della legge 241/1990) presenta anche collegamenti con la nota tesi, sostenuta dalla Corte di Cassazione, a partire dalla ricordata sentenza del 1949, della cd. carenza di potere[108].
Con la nota sentenza delle sezioni unite del 4 luglio 1949 n. 1657, che sicuramente appare destinata a rinnovata importanza a seguito delle recenti vicende normative in commento, la Corte di Cassazione ha consapevolmente[109] rotto il concordato giurisprudenziale del 1930 tra Cassazione e Consiglio di Stato, che sulla base del criterio combinato del petitum e della causa petendi [110], creando un nuovo vizio dell’atto amministrativo, cioè quello della carenza di potere.
Successivamente, inoltre, la Cassazione ha ampliato il vizio in esame anche alle ipotesi cd. di carenza di potere in concreto, cioè di carenza di potere collegata non solo alla mancanza di una norma attributiva in astratto del potere all’amministrazione, ma anche alla mancanza di presupposti o all’inosservanza di precisi limiti particolarmente pregnanti per il suo esercizio[111], cioè, in fin dei conti, in tutti i casi di illegittimità di provvedimenti vincolati.
Gran parte delle conclusioni cui è giunta la Cassazione, specie con riferimento alla carenza di potere in concreto, però, oggi, nel mutato contesto in esame, non sono più ammissibili, e ciò, nonostante i tentativi, anche recenti, di parte della dottrina[112], tesi a cercare giustificazioni dogmatiche ad una soluzione prettamente empirica e soggettiva quale, appunto, quella della nullità per carenza di potere in concreto.
Riguardo alla carenza di potere in concreto, per espressa previsione dell’articolo 21 opties comma 2, infatti, il provvedimento vincolato, anche se adottato in violazione di legge è solo annullabile e non nullo.
E da ciò si desume da un lato che la violazione dei limiti legali all’esercizio del potere, per quanto vincolanti, produce in via generale solo l’annullabilità dell’atto e non la nullità o l’inesistenza dall’altro che il legislatore, tenendo ovviamente presente l’articolo 4 della legge abolitrice del contenzioso amministrativo e l’articolo 113 della Costituzione non può che aver scelto che la giurisdizione, anche in materia di atti autoritativi vincolati, siccome annullabili, spetti al giudice amministrativo.
La tesi della carenza di potere sia in astratto che in concreto, come ipotesi di nullità, incontra oggi precisi limiti anche nell’articolo 21 septies .
Difatti, come si legge nell’articolo 21-septies, comma 1, della legge 241/1990, è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che e` viziato da difetto assoluto di attribuzione, che e` stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonche´ negli altri casi espressamente previsti dalla legge.
Poiché la norma parla di casi espressamente previsti dalla legge, si desume innanzitutto che nel nostro ordinamento non sussistono casi di nullità virtuale del provvedimento amministrativo, alla quale è sicuramente riconducibile la carenza di potere, sia in astratto che in concreto [113].
Nessuno dei vizi, oggi elencati nell’articolo in esame, come ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo, inoltre, può essere interpretato come fattispecie di carenza di potere.
La carenza di potere impedisce la stessa qualificazione di provvedimento amministrativo, cioè di un provvedimento proveniente da un pubblico potere [114].
A ciò si aggiunga che il legislatore non ha accolto la tesi pubblicistica della nullità, basata sulla carenza di potere ed elaborata dalla Cassazione per il riparto di giurisdizione, ma quella civilistica, fino ad ora preferita dal Consiglio di Stato[115], che invece è incentrata sull’atto e non influisce sul riparto di giurisdizione.
Nell’articolo 21 septies, è stato accolto un paradigma di ispirazione privatistica della nullità, con riferimento però solo alla nullità testuale e strutturale[116], e già solo per questo ne risulta contraddetta l’impostazione della Cassazione ed il conseguente rilievo del vizio di nullità in termini di esistenza/inesistenza del potere e pertanto in termini di riparto di giurisdizione[117].
Solo la tesi pubblicistica, infatti, accorda rilievo in termini di riparto di giurisdizione ai vizi del provvedimento: nullità o inesistenza al giudice ordinario e annullabilità al giudice amministrativo[118].
Bene ha fatto il legislatore a ripudiarla, visto che essa conduce al risultato irrazionale di invertire l’ordine logico del processo, anteponendo un accertamento di merito (sui vizi dell’atto) come antecedente logico di quello di rito, ed inoltre produce una scissione arbitraria della posizione giuridica coinvolta nel rapporto pubblico, caratterizzato dalla presenza di un pubblico potere.
Se c’è il potere pubblico c’è l’interesse legittimo e c’è anche, se adottato, un provvedimento amministrativo, pur se nullo.
Scindere la giurisdizione sulla nullità vuol dire scinderla con riferimento alla medesima posizione giuridica di interesse legittimo, con risultati evidentemente inaccettabili, per la loro patente irrazionalità.
In tutti i casi elencati dall’articolo 21 septies come ipotesi di nullità, l’amministrazione è astrattamente dotata del potere di provvedere, ed i vizi riguardano solo la struttura del provvedimento con il quale il potere è stato esercitato o violazioni particolarmente gravi delle regole di esercizio del potere stesso[119].
L’unica ipotesi problematica, in cui potrebbe anche prospettarsi una carenza di potere in astratto, rilevabile già ex ante, è quella di difetto assoluto di attribuzione, in cui l’amministrazione esercita un potere che non le spetta, anche se esso pur sempre appartenga ad un’amministrazione diversa[120].
Però, in realtà, l’inclusione di siffatto vizio tra le altre fattispecie di nullità del provvedimento amministrativo, operata espressamente dall’articolo 21 septies, postula che ad esse lo leghi un’identità di disciplina anche sotto il profilo della giurisdizione, altrimenti il legislatore avrebbe dovuto necessariamente dire qualcosa in merito, al fine di distinguere lo statuto di alcune ipotesi rispetto ad altre.
In realtà l’ipotesi di difetto assoluto di attribuzione (dove il potere esiste ma appartiene ad un differente apparato o ente territoriale) non rappresenta più un’ipotesi di carenza di potere, sufficiente a scongiurare la stessa configurabilità in termini pubblicistici del rapporto con il privato.
Restano ipotesi di carenza di potere solo i casi in cui il potere adottato da un organo amministrativo, in realtà, non spetti ad alcun organo dotato di poteri autoritativi, e non, invece, il caso in cui un’autorità adotti un atto incidente su una materia totalmente estranea al suo settore, ma appartenente al settore di altra autorità (cd. incompetenza assoluta) [121].
Distinguere l’incompetenza assoluta dalla carenza di potere in astratto contribuisce molto a dare certezza al riparto di giurisdizione, ed in ultima analisi a garantire una tutela effettiva delle posizioni giuridiche.
Spesso esistono casi limite in cui la distinzione tra incompetenza assoluta e relativa non è di agevole soluzione, così come il vizio di incompetenza assoluta viene spesso prospettato, anche in via subordinata e residuale, nell’ambito di altre censure che postulano l’esistenza di un rapporto pubblico autoritativo (incompetenza relativa, eccesso di potere, violazione di legge).
In ultima analisi, anche nel caso di incompetenza assoluta un potere esiste, anche se esercitato da un’autorità diversa, e tale elemento caratterizza questo vizio rispetto a quello di carenza di potere in astratto.
La scelta positiva contenuta implicitamente nell’articolo 21 septies, che vincola ovviamente il giudice, di attribuire alla giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo la cognizione in materia di difetto assoluto di attribuzione, da intendersi, come chiarito, nel senso di incompetenza assoluta, ha quindi una propria ragionevolezza, visto che normalmente si tratta di ipotesi dove l’esatta determinazione del vizio è spesso problematica ed in situazione di confine con il vizio di incompetenza relativa.
Di frequente solo la pronunzia nel merito può sancire la correttezza della scelta operata riguardo all’individuazione del giudice competente, tanto che bene ha fatto il legislatore a sventare la commistione tra questioni di merito e di giurisdizione, a tutto vantaggio della certezza ed effettività della tutela giurisdizionale.
Spesso, inoltre, uno stesso provvedimento amministrativo invalido può essere affetto da nullità parziale e per il resto essere semplicemente annullabile, e quindi non v’è chi non veda quali eccessive destrezze processuali si finirebbe per chiedere in tal caso ad un soggetto, per ottenere tutela, dovendo egli necessariamente agire davanti a due giudici, a seconda dei vizi lamentati, pur essendo unica la posizione giuridica azionata.
Si pensi al caso di impugnazione, da parte di un controinteressato, di una concessione edilizia rilasciata da un Comune sia in violazione delle NTA del proprio PRG sia pro parte su territorio appartenente ad altro Comune: è evidente che tale provvedimento si presenta prima facie annullabile per violazione del PRG, ma anche parzialmente nullo per difetto assoluto di attribuzione (che potrebbe anche intendersi come impossibilità giuridica parziale dell’oggetto, per ricorrere a categorie civilistiche, come ci suggerisce il legislatore)[122].
Su tale esempio si potrebbero fare tantissime ipotesi di scelte processuali della parte, ma v’è la costante che se il vizio di nullità radicasse la giurisdizione del giudice ordinario, una tutela piena della posizione sostanziale sarebbe oltremodo aggravata e resa incerta dal combinarsi delle regole e soluzioni processuali dei due giudizi (ordinario ed amministrativo).
Oltre al problema della nullità parziale e della concorrenza di vizi anche di mera annullabilità sullo stesso provvedimento, è evidente che definire il riparto di giurisdizione non in maniera astratta, cioè sulla base dell’esistenza - rilevabile ex ante prima del suo esercizio - del potere di provvedere autoritativamente, ma in concreto, cioè sulla base dei vizi di cui il provvedimento risulta ex post effettivamente affetto, comporterebbe una singolare inversione logica dei normali canoni processuali.
Difatti occorrerebbe prima decidere il merito della controversia e poi determinare il giudice competente a decidere su di essa.
A meno di non voler reintrodurre in modo molto radicale il principio della prospettazione, che come noto è ritenuto contrario al disposto dell’articolo 386 del cpc[123], e che comunque non eviterebbe l’aporia che ogni sentenza di rigetto nel merito avrebbe un implicito valore processuale relativo all’individuazione del giudice competente.
Si pensi, inoltre, a quanti contrasti di giudicati potrebbe condurre la necessità dei privati di impugnare lo stesso provvedimento, per vizi diversi, di fronte a due giudici (denunciando la nullità al giudice ordinario e l’annullabilità a quello amministrativo).
In questi casi potrebbe operare il criterio della prevenzione ex articolo 295 c.p.c., ma comunque si alimenterebbero le questioni in materia di giurisdizione, si duplicherebbero i processi, anche al solo fine di evitare decadenze nell’incertezza sul giudice realmente competente, ed i privati non potrebbero mai seriamente conoscere il proprio giudice naturale prima del giudicato di merito.
Gli interpreti dovranno porsi seriamente tali problemi e considerare i risvolti sugli interessi tutelati dall’articolo 24 della Costituzione oltre che sulla razionalità di un simile sistema di tutela giurisdizionale.
In effetti, i valori espressi dagli articoli 24 e 3 della Costituzione dovrebbero prevalere ed orientare l’interpretazione degli articoli 103 e 113 della stessa norma fondamentale, in materia di riparto di giurisdizione.
Per essere rispondente al principio della precostituzione del giudice per legge, di cui all’articolo 25 della Costituzione il criterio di determinazione del giudice competente dovrebbe essere il più astratto possibile e non rimesso, in concreto, al giudice adito, sia esso quello della giurisdizione o quello del merito.
D’altro canto si dovrebbe convenire che vi è giurisdizione del giudice ordinario nel caso di assoluta inesistenza del potere dell’amministrazione di provvedere autoritativamente.
In tal caso, però, per il disposto dell’articolo 21 septies, non può più parlarsi di nullità del provvedimento, ma si deve ritenere di essere di fronte a casi di totale inesistenza del provvedimento autoritativo, meri comportamenti[124], come tali coerentemente affidati alla tutela del giudice ordinario dei rapporti di diritto comune.
Difatti non vi può essere provvedimento autoritativo se manca il potere in via assoluta ed astratta.
4.Inesistenza ed inefficacia. Profili di giurisdizione.
Stranamente, con riferimento all’inefficacia del provvedimento amministrativo, a differenza della nullità, la giurisprudenza non ha mai avuto seri dubbi in ordine alla giurisdizione del giudice amministrativo.
Tuttavia, le pronunzie che si sono occupate di tale condizione del provvedimento sono solo indirettamente dichiarative, poiché in via diretta esse decidono su questioni di rito, ed in particolare sulla mancanza, sopravvenuta od originaria, dell’interesse del ricorrente al ricorso teso all’annullamento dell’atto impugnato[125].
Ancora una volta, la concezione che arbitrariamente limita la tutela dell’interesse legittimo alla sola possibilità di impugnare gli atti autoritativi su esso incidenti, comporta il risultato paradossale che il giudice amministrativo si senta nel potere di dichiarare l’inefficacia di un atto impugnato solo per rilevare l’improcedibilità o l’inammissibilità del ricorso di impugnazione per carenza d’interesse.
Con la conseguenza che se un privato ha l’interesse a far dichiarare l’inefficacia di un provvedimento amministrativo incidente su un suo interesse legittimo, deve impugnarlo nei termini di decadenza, per vizi di legittimità, anche con un ricorso consapevolmente infondato, al fine di ottenere una pronunzia di rigetto in rito.
Spesso sussiste un simile interesse ad una sentenza dichiarativa dell’inefficacia del provvedimento amministrativo.
Si pensi al caso in cui un privato abbia ricevuto la notifica di un provvedimento di demolizione e presenti successivamente un’istanza di permesso di costruire in sanatoria, ex articolo 36 del dpr 380/2001.
In tali casi, come noto, parte della giurisprudenza amministrativa ha sancito che la successiva presentazione dell’istanza di permesso di costruire in sanatoria determina la sopravvenuta inefficacia del provvedimento di demolizione [126].
Mancando una sentenza dichiarativa dell’inefficacia della demolizione, tuttavia, nulla impedirebbe in concreto all’amministrazione di procedere alla demolizione del manufatto.
Stranamente, però, il GA concede la tutela all’interesse sostanziale azionato, solo indirettamente, attraverso una pronunzia dichiarativa della carenza d’interesse all’annullamento e purchè sia stato impugnato (per lo più infondatamente, visto che il tema controverso concerne l’efficacia e non la validità) il provvedimento legittimo ma inefficace, nei termini di decadenza [127].
Una volta convenuto che la tutela dell’interesse legittimo non può essere meramente impugnatoria, specie laddove non v’è alcun provvedimento autoritativo efficace ed annullabile, si deve anche affermare che è inconcepibile obbligare l’interessato ad impugnare nei termini di decadenza un provvedimento inefficace, contestandone pretestuosamente l’illegittimità, solo al fine di ottenere un pronuncia di rito, che contenga un indiretto accertamento dell’inefficacia originaria o sopravvenuta del provvedimento stesso.
Se v’è contestazione da parte dell’amministrazione, non v’è dubbio che il privato può avere interesse processuale, ex articolo 100 c.p.c., ad una sentenza dichiarativa dell’inefficacia di un provvedimento che incide sul suo interesse legittimo.
La giurisdizione, in tal caso, per quanto sopra evidenziato, spetta necessariamente al giudice amministrativo, ex articolo 103 della Costituzione e non ex articolo 113, vertendosi in materia di interessi legittimi e non di impugnazione di atti autoritativi ai fini dell’annullamento.
Con riguardo all’inesistenza, invece, il problema appare più complesso, dato che, dopo aver attualizzato i criteri di riparto, alla luce dell’intervento della Corte Costituzionale e delle recenti modifiche normative in commento, che hanno, tra l’altro, espressamente elencato i casi di nullità del provvedimento, occorre una preventiva delimitazione dei casi in cui oggi può effettivamente parlarsi di inesistenza del provvedimento amministrativo [128].
Data l’ampiezza con cui l’articolo 21 septies della legge 241/1990 ha elencato i casi di nullità del provvedimento amministrativo, nonché la rilevata inammissibilità di ipotesi di nullità virtuale, residuano, come ipotesi di inesistenza, solo alcune di quelle ipotesi di carenza di potere in astratto che vengono riconosciute in giurisprudenza, sulla scorta della più volte citata sentenza della Corte di Cassazione del 1949.
La distinzione tra nullità ed inesistenza si presenta nuovamente interessante per gli interpreti, dato che essa segnerà il limite tra tutela davanti al giudice ordinario e quella davanti al giudice amministrativo.
A tal fine abbiamo già visto che si deve restringere il concetto di inesistenza all’ipotesi di carenza di potere in astratto - e con esclusione delle ipotesi di difetto assoluto di competenza - cioè solo alle ipotesi in cui il potere che lede la posizione del privato (diritto) non è riferibile ad alcuna amministrazione.
Sarebbe più appropriato distinguere la giurisdizione sulla base del criterio esistenza/inesistenza del potere amministrativo, più che su quello di esistenza/inesistenza dell’atto amministrativo.
I comportamenti dell’amministrazione, allorché quest’ultima sia però dotata in astratto di provvedere autoritativamente, dovrebbero essere in realtà preventivamente valutati come ipotesi di provvedimenti di attuazione del potere [129], con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo.
In tal caso, difatti, non si tratterebbe comunque di meri comportamenti di diritto privato, ma di modalità di realizzazione del potere pubblico seppure secondo moduli non conformi alla previsione normativa.
5.L’azione di nullità. Altre questioni processuali.
Volendo applicare coerentemente i principi sopra illustrati, e ritenendo quindi che la tutela dell’interesse legittimo - quale posizione di vario contenuto ma caratterizzata per essere necessariamente inserita in un rapporto di diritto pubblico con un soggetto astrattamente dotato di pubblica potestà - debba essere piena ed effettiva, in virtù dell’articolo 24 della Costituzione e della conseguente piena equiparazione del giudice amministrativo al giudice ordinario giustamente sottolineata dalla Corte Costituzionale, si deve costatare che, con riferimento all’azione di nullità, il legislatore non ha previsto nulla di specifico per il processo innanzi al giudice amministrativo, con ciò perdendo un’ulteriore occasione per dare piena attuazione agli articoli 103 comma 1 e 24 comma 1 della Costituzione.
Peraltro, tuttavia, proprio in virtù degli articoli appena menzionati, occorre colmare tale vuoto di tutela ed a tal fine è necessaria l’applicazione analogica delle norme relative all’azione di accertamento dinnanzi al giudice ordinario [130], ovviamente nei limiti della compatibilità con i principi, più specifici, desumibili dalle uniche leggi che regolano il solo processo d’impugnazione innanzi al giudice amministrativo.
A ciò dovranno sommarsi anche le regole di diritto comune sostanziale in materia di nullità, anch’esse analogicamente applicabili, nei limiti in cui siano espressione di principi generali in materia di nullità di atti di volontà [131].
5.1.Legittimazione ad agire e rilevabilità d’ufficio.
Dovendo far riferimento alle categorie civilistiche, anche con riguardo al processo amministrativo di legittimità, si può affermare che l'azione di nullità è un'azione di accertamento, poichè diretta ad acclarare che il provvedimento adottato è appunto nullo e pertanto inidoneo a produrre gli effetti giuridici programmati.
La sentenza che definisce il giudizio, essendo dichiarativa, ha conseguentemente effetto retroattivo [132].
In dottrina, con riferimento alla legittimazione ad agire per la dichiarazione di nullità davanti al GA, si è sostanzialmente affermato che essa spetti a tutti i soggetti che vi abbiano un interesse pratico, indipendentemente dalla qualifica formale di destinatari del provvedimento ed a prescindere dall’essere tali soggetti coinvolti in un rapporto diretto con l’amministrazione [133].
La dottrina [134] è giunta a sostenere che, quindi, hanno legittimazione ad agire non solo i portatori di diritti soggettivi o interessi legittimi, ma tutti i portatori di qualsiasi interesse leso dal risultato del provvedimento, trovando conferma a tali affermazioni nella previsione della rilevabilità d’ufficio della nullità contenuta nella normativa di diritto comune, che dovrebbe trovare applicazione anche per la nullità dei provvedimenti amministrativi.
Nell’ambito del diritto civile, la giurisprudenza qualifica l’azione di nullità come azione a legittimazione assoluta, e limita la propria indagine alla sussistenza dell’interesse ad agire di cui all’articolo 100 c.p.c. [135].
A questo punto però occorre mantenere coerenza con le considerazioni che abbiamo sin qui svolto, ed in particolare con la conclusione secondo cui l’azione per l’accertamento della nullità di provvedimenti amministrativi, esperita in virtù dell’articolo 21 septies, consiste pur sempre nell’esercizio giudiziale di un interesse legittimo, emerso nell’ambito di un rapporto pubblicistico tra privato e pubblica amministrazione, che presuppone da parte dell’amministrazione la titolarità astratta di una potestà pubblica.
L’interesse legittimo prescinde dall’adozione di un provvedimento amministrativo, ma conserva pur sempre i propri indici identificativi relativi alla qualificazione e differenziazione della posizione giuridica stessa, anche se tali caratteristiche, nel caso di mancanza di provvedimenti da impugnare, possono essere rintracciate nell’ambito del rapporto e non nell’ambito del provvedimento.
E ciò vale per l’azione avverso il silenzio, così come per l’azione in materia di accordi sostitutivi, così quindi anche in materia di azione di accertamento della nullità del provvedimento.
Coerentemente a tutte queste considerazioni, la legittimazione ad agire per la nullità del provvedimento amministrativo deve essere pur sempre basata sulla titolarità di un interesse legittimo, e ciò vale sia a radicare sempre la giurisdizione del giudice amministrativo sia a connotare in termini di specialità l’azione rispetto a quella di diritto comune, quantomeno con riferimento alla legittimazione ad agire.
Per la dichiarazione di nullità di un provvedimento amministrativo, nell’ambito del giudizio amministrativo, pertanto non può agire chiunque vi abbia interesse, ma solo chi è titolare di un interesse legittimo.
C’è da dire, comunque, che quantomeno le nullità testuali (quindi non quelle strutturali, pur previste dal nuovo articolo 21 septies) sono espressione di contrarietà dell’azione amministrativa autoritativa a norme la cui violazione, essendo sanzionata così gravemente, sicuramente esprime un disvalore massimo nei confronti dell’agire amministrativo, tanto che gli atti affetti da tali vizi sono privi ab origine di qualsiasi effetto, e può apparire pertanto contrario al principio di buon andamento e di certezza dell’azione amministrativa, di cui all’articolo 97 della Costituzione, rimettere all’esclusiva iniziativa di parte l’azione per l’accertamento giurisdizionale di un vizio così radicale, come appunto la nullità.
In tal caso, v’è pur sempre la possibilità che la legittimazione ad agire sussista in capo ad associazione portatrici di interessi diffusi, secondo i parametri di legittimazione ormai consolidati nella giurisprudenza amministrativa in merito all’impugnazione di atti annullabili.
De iure condendo, invece, si potrebbe anche pensare ad ipotesi di azione pubblica, da parte di uffici di Pubblico Ministero (per il principio di unicità degli uffici del Pubblico Ministero, si potrebbe anche riflettere circa l’attuale possibilità di un’azione da parte del Pubblico Ministero ordinario o contabile, nei casi in cui, rispettivamente, la violazione della norma di azione che determina la nullità del provvedimento sia anche parte della fattispecie di illecito penale o erariale).
Quanto alla rilevabilità d’ufficio, questa è per lo più ammessa sia dalla giurisprudenza [136] che dalla dottrina [137] di diritto amministrativo.
Sotto questo profilo non si ritiene che la natura della posizione giuridica azionata davanti al giudice amministrativo, cioè quella di interesse legittimo, possa precludere in senso assoluto una rilevabilità d’ufficio del vizio di nullità, purchè il giudizio sia regolarmente istaurato da parte di chi è titolare di un interesse legittimo (ad es. limitandosi a chiedere l’annullabilità del provvedimento).
Abbiamo visto già che all’interesse legittimo non è connaturata una tutela meramente impugnatoria e pertanto, nel caso dell’azione tesa alla dichiarazione di nullità del provvedimento, non è pensabile che l’iniziativa debba avvenire necessariamente nel termine decadenziale, sicchè non vi possono essere ostacoli alla rilevabilità d’ufficio neanche in ragione del trascorrere del tempo [138].
Potrebbero invece essere fatte proprie dalla giurisprudenza amministrativa alcune conclusioni maturate nell’ambito della dottrina civilistica in tema di compatibilità tra il principio della domanda di parte e quello della rilevabilità d’ufficio.
A tal proposito, la giurisprudenza ordinaria ha costantemente affermato che la rilevabilità d'ufficio da parte del giudice deve essere coordinata con il principio della domanda fissato dagli artt. 99 e 112 c.p.c.[139], e che conseguentemente la nullità non può essere affermata sulla base di motivi diversi da quelli addotti dalla parte[140], anche se ultimamente tale indirizzo viene anche applicato meno rigidamente [141].
La giurisprudenza ordinaria, inoltre, sempre per esigenze di coordinamento con il divieto di pronunziarsi ultra petita, afferma costantemente che il giudice è tenuto a rilevare d’ufficio la nullità dell'atto, indipendentemente dall'attività assertiva delle parti, solo quando venga in contestazione l'applicazione o l'esecuzione di un atto la cui validità rappresenti un elemento costitutivo della domanda e non invece se la domanda sia ad esempio diretta a far dichiarare la risoluzione per inadempimento [142].
Sulle questioni appena enunciate, sarebbe forse preferibile aderire alle indicazioni provenienti dalla dottrina civilistica, maggiormente aderente al dato testuale della rilevabilità d’ufficio della nullità.
Nel caso di ricorso per l’annullamento di un atto amministrativo basato su motivi infondati e comunque non espressione di vizi di nullità, pertanto, sarebbe più corretto pronunciarsi comunque d’ufficio nel caso si riscontrasse per altri motivi la nullità del provvedimento, tuttavia non in termini di accoglimento della domanda di parte, che non c’è stata in tal senso[143], ma preliminarmente, rilevando la inammissibilità del ricorso per carenza d’interesse, dato che il provvedimento è già nullo e quindi inefficace.
5.2.Imprescrittibilità dell’azione.
In dottrina [144] si è posta una triplice alternativa, con riferimento al regime dei termini dell’azione di nullità nei confronti del provvedimento amministrativo: il rispetto del termine di decadenza previsto per l’azione di annullamento; l’imprescrittibilità in analogia alla disciplina di diritto comune; l’applicabilità di un termine di prescrizione.
In particolare, taluni hanno ritenuto che l’azione di nullità debba essere fatta valere nel termine di 60 giorni dato che anche la nullità, al pari dell’annullabilità, rientrerebbe nel genus dell’illegittimità del provvedimento amministrativo (una variante a tale teoria invece collega il termine di 60 giorni direttamente alla tutela dell’interesse legittimo [145]), mentre altri hanno invece incentrato la soluzione interpretativa sull’azione di nullità e non sull’atto, rilevando che tale azione ha un proprio statuto evincibile dalle regole di diritto comune [146].
La giurisprudenza, inoltre, ha fatto registrare un primo orientamento nel senso della imprescrittibilità [147], ed ha finito per affermare la prescrizione decennale dell’azione di nullità del provvedimento adottato in violazione o elusione del giudicato[148].
L’azione di nullità del provvedimento amministrativo, per i vizi introdotti dall’articolo 21 septies, è esercizio giudiziale di una posizione di interesse legittimo.
Si è già ampiamente esposto che la tutela impugnatoria, nel termine di decadenza, è solo una delle modalità di tutela dell’interesse legittimo, la quale non può ritenersi così connaturale all’interesse legittimo stesso da imporre tale termine di decadenza anche ad azioni che hanno ad oggetto rapporti di diritto pubblico non incisi dal alcun atto amministrativo annullabile, o comunque nel caso in cui non si miri all’annullamento di un atto amministrativo.
Il termine decadenziale di 60 giorni pertanto non ha alcun referente normativo o dogmatico, nei giudizi non impugnatori.
Riguardo al termine decennale di proposizione dell’azione di nullità per atti adottati in violazione o elusione del giudicato, il termine di prescrizione viene desunto dall’actio iudicati, che come noto configura l’esercizio giudiziale di un diritto soggettivo, all’adempimento del giudicato, prescrittibile pertanto nel termine ordinario decennale[149].
Lo stesso legislatore, nell’articolo 21 septies, al comma 2 ha distinto l’azione di nullità per violazione o elusione del giudicato, esercitata da parte di chi abbia un diritto soggettivo alla esecuzione della sentenza a sé direttamente favorevole, da quella ordinaria di nullità di cui al comma 1, qualificandola come ipotesi di giurisdizione esclusiva, proprio perché afferente ad una modalità di tutela del diritto soggettivo all’adempimento del giudicato, diversa dalla azione di ottemperanza.
Ciò, se depone sicuramente per un riconoscimento della rilevanza delle posizioni giuridiche sottostanti, ai fini della disciplina delle questioni afferenti la nullità del provvedimento, non vale però necessariamente a caratterizzare l’azione di nullità come esercizio dell’azione di adempimento del giudicato.
Il legislazione ha ben fatto ad affidare le questioni afferenti la nullità del provvedimento adottato in violazione o elusione di un giudicato alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Esse coinvolgono anche il problema del risarcimento del danno derivante, appunto, da inadempimento del giudicato stesso, e afferiscono pur sempre alla tutela del diritto soggettivo all’esatto adempimento del giudicato.
Tuttavia, però, l’azione di dichiarazione della nullità è distinta da quella di ottemperanza, poiché non mira a chiedere un’esecuzione coattiva della sentenza giurisdizionale, bensì a far dichiarare l’esistenza di un vizio genetico che affligge il provvedimento ab origine, e che non è suscettibile di sanatoria per decorso del tempo, in difetto di disposizioni espresse in tal senso.
Pertanto anche l’azione di nullità di cui al secondo comma dell’articolo 21 septies non soggiace ad alcun termine di prescrizione, trovando piena applicazione l’articolo 1422 del codice civile, che ha una propria ratio nella tutela di interessi generali sottesi all’azione stessa, e che non può essere arbitrariamente ricondotta entro lo schema di adempimento al giudicato, che trova invece fondamento principale nell’interesse del singolo.
5.3.Contraddittorio, mezzi di prova e motivi aggiunti.
Con riferimento al problema del contraddittorio, si è posta l’alternativa [150] dell’applicazione delle regole del codice di procedura civile – dove la ricerca delle parti necessarie non è addossata all’attore ma al giudice – o quelle del giudizio amministrativo di impugnazione – con l’onere del ricorrente di notificare il ricorso al controinteressato, nel termine decadenziale –.
In dottrina [151] si è ritenuto di non poter applicare le regole relative al giudizio sull’atto, visto che l’azione di nullità prescinde dall’avvenuta adozione di un atto da impugnare nei termini di decadenza ed introduce invece un giudizio sul rapporto, con la conseguenza di ritenersi applicabili le regole del codice di procedura civile in materia di litisconsorzio ed intervento.
Tali considerazioni sono condivisibili fino ad un certo punto, nel senso che bisogna tenere in debito conto che il rapporto di diritto pubblico tra privato ed amministrazione, nel quale coesistono le posizioni giuridiche potestative pubbliche dell’amministrazione e di interesse legittimo del privato, ha proprie peculiarità proprio in virtù degli interessi in esso coinvolti, e tali peculiarità sono proprie del rapporto e quindi insensibili alla natura degli atti che producono effetti costitutivi o dichiarativi sul rapporto stesso [152].
Con ciò si vuole ribadire che anche quando si agisce per la dichiarazione di nullità di un provvedimento, nell’ambito di un rapporto di diritto pubblico, resta immutata la natura di pubblico rilievo degli interessi coinvolti in tale rapporto, e che giustificano anche l’applicazione delle regole del procedimento amministrativo di cui appunto alla legge 241/1990.
La posizione del privato nell’ambito del rapporto resta quella di interesse legittimo, poiché si verte pur sempre in materia di esercizio del potere amministrativo, e pertanto, ferma restando la rilevata imprescrittibilità dell’azione e l’ampiezza della cognizione sul rapporto stesso e non sull’atto, i principi generali applicabili dovranno essere quelli fondamentali del processo amministrativo, per quanto riguarda l’iniziativa, il contraddittorio ed i mezzi di prova (ma anche altri istituti del processo di legittimità, ove compatibili con l’azione di nullità, come ad esempio la proposizione di motivi aggiunti), che sono e restano quelli desumibili dal giudizio di legittimità sull’azione amministrativa, senza però l’applicazione delle norme relative ai termini di decadenza, connesse necessariamente all’impugnazione di un atto annullabile, che nel caso in esame manca, ma pur nel rispetto delle scadenze processuali.
5.4.Risarcimento del danno.
L’aver collocato l’azione di nullità nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità, anche se non impugnatoria (così come l’azione in materia di silenzio-inadempimento), e l’aver riconosciuto la giurisdizione del giudice amministrativo, sul rilievo che la situazione correlativa al potere pubblico, sebbene esercitato mediante atti nulli, è pur sempre quella di interesse legittimo, rende agevole trarre l’ulteriore conseguenza della giurisdizione amministrativa di legittimità pur in materia di risarcimento del danno, a fronte di atti amministrativi nulli, in applicazione diretta del primo periodo dell’articolo 7 comma terzo della legge 1034/1071, nella sua nuova formulazione, secondo cui “Il tribunale amministrativo regionale, nell'ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali.”.
Ovviamente, essendo l’atto adottato nullo e la relativa azione imprescrittibile, oltre che di mero accertamento, non avrà alcun senso prospettare questioni tese a frapporre azioni pregiudiziali alla domanda di risarcimento del danno, salvo doversi ritenere che la statuizione di accertamento di nullità dell’atto, avendo valenza erga omnes, per i ricordati principi generali in materia di processo amministrativo, dovrà necessariamente avere carattere principale e non incidentale.
In tali casi, comunque, il fatto che ci si trovi di fronte a provvedimenti nulli e non annullabili, non cambierà niente in termini di qualificazione e quantificazione del danno, che resta agganciata alla situazione giuridica sottostante sulla quale era destinato ad incidere il potere.
Di modo che, trattandosi ad esempio di un interesse legittimo a fronte di un potere non vincolato ma discrezionale, il criterio di liquidazione del danno (anche da ritardo) dovrà preferibilmente seguire, come abbiamo visto in precedenza, il paradigma di cui all’articolo 35 del d.lgs 80/1998.
Il danno dovrà essere determinato con riferimento al rapporto amministrativo e quindi alle posizioni giuridiche del privato e dell’amministrazione in esso correlate, sicché l’adozione di un atto nullo sarà per l’amministrazione fonte di risarcimento di tutti i danni che siano conseguenza immediata e diretta della lesione dell’interesse tutelato dalla posizione di interesse legittimo conformata nel rapporto pubblico (quindi a tutela variabile a seconda, ad esempio, della natura vincolata o discrezionale del potere dedotto nel rapporto).
Poiché, inoltre, come visto nei paragrafi precedenti, il danno consegue pur sempre alla violazione di norme di azione, allora le regole della prova dell’illiceità seguiranno il principio generale, nel processo amministrativo, del principio di prova.
* Magistrato TAR.
[1] Il presente lavoro è stato scritto in occasione della relazione al Convegno “La riforma della legge n.241 del 1990”, presso la Sala dei Marmi della Provincia di Pescara, il 3 dicembre 2005.
[2] Cfr. M. Clarich, Tipicità delle azioni e azione di adempimento nel processo amministrativo, in www.judicium.it
[3] Sull’aspirazione alla diritto amministrativo paritario, presente già in Benvenuti, cfr. M. Clarich, Tipicità delle azioni e azione di adempimento nel processo amministrativo, in www.judicium.it
[4] Cfr. Bianca, Diritto civile, III, Milano, 2000, p. 459 e seg., il quale, collegando l’articolo 1322 all'art. 41 Cost., sostiene che la meritevolezza non può prescindere dalla scelta costituzionale, nel senso che l'iniziativa privata non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale.
[5] Sull’incompatibilità tra dritto privato e perseguimento del fine pubblico assegnato all’amministrazione, cfr. E. Ferrari, I principi dell’azione amministrativa nel ddl Senato XIV – 1281, in Dal procedimento amministrativo all’azione amministrativa, a cura di Civitarese e Gardini, Atti dell’incontro di studio “L’azione amministrativa nel progetto di revisione della legge n.241/1990”, Pescara 20 maggio 2003, Bologna, 2004, in particolare a pag.6.
[6] Negli esatti termini esposti nel testo, si veda il Resoconto della I Commissione permanente (Affari costituzionali, della Presidenza del Consiglio e Interni), del 10 maggio 2000, a cura del relatore Franco Frattini.
[7] Cfr., tra le prime, T.A.R. Liguria, sez. I, 1 aprile 2005, n. 413
[8] Cfr. T.A.R. Lazio, sez. III, 13 settembre 2004, n. 9006; Cassazione civile, sez. un., 25 ottobre 2004, n. 20645.
[9] Cfr. M. Clarich, Tipicità delle azioni e azione di adempimento nel processo amministrativo, in www.judicium.it
[10] Cfr. Corte Costituzionale, sentenza n.204 del 2004: Il legislatore ordinario ben può ampliare l'area della giurisdizione esclusiva purché lo faccia con riguardo a materie (in tal senso, particolari) che, in assenza di tale previsione, contemplerebbero pur sempre, in quanto vi opera la pubblica amministrazione-autorità, la giurisdizione generale di legittimità: con il che, da un lato, è escluso che la mera partecipazione della pubblica amministrazione al giudizio sia sufficiente perché si radichi la giurisdizione del giudice amministrativo (il quale davvero assumerebbe le sembianze di giudice "della" pubblica amministrazione: con violazione degli artt. 25 e 102, secondo comma, Cost.) e, dall'altro lato, è escluso che sia sufficiente il generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia perché questa possa essere devoluta al giudice amministrativo.
[11] Cfr. TAR Campania Napoli, Sez. I, 20 maggio 2003, n. 5868: “Dopo l'art. 6 L.205/2000, valevole sia dal punto di vista processuale che sostanziale, deve ritenersi che il legislatore abbia affidato all'adito giudice amministrativo in via esclusiva la cognizione delle controversie relative anche agli appalti indetti da soggetti privati equiparati a enti pubblici, con ciò intendendo che tali soggetti sono considerati come pubbliche amministrazione in senso pieno, e i relativi atti devono rispettare le regole dell'agere amministrativo”.
[12] Cfr. da ultimo ad.pl. del Consiglio di Stato, sentenza n.9 del 2005, secondo la quale, spettano alla cognizione degl giudice ordinario solo quei “comportamenti” della P.A. che prefigurano attività materiali (tra cui anche la manifestazione abnorme del pubblico potere) non sorrette dall’esplicazione di un potere amministrativo.
[13] Soluzione che non merita una confutazione propria, poiché risulta in contrasto con tutto ciò che si dirà nel testo.
[14] In tal senso la Cassazione ha un orientamento consolidato.
Si vedano, da ultimo, Sez. U, Sentenza n. 383 del 12/01/2005, sulla ratio della diversa giurisdizione in materia di diniego di permesso di soggiorno adottato ai sensi dell’articolo 5 e di quello (atto dovuto perché non discrezionale) adottato ai sensi dell’articolo 30 del dlgs 286/1998; Sez. U, Sentenza n. 384 del 12/01/2005, sulla ratio della giurisdizione del giudice ordinario in materia di espulsione disposta dal Prefetto, proprio in ragione della natura vincolata e quindi dovuta di tale atto; Sez. U, Ordinanza n.730 del 2005 che riconduce sotto la giurisdizione del giudice ordinario le domande proposte in sede possessoria, se non risultano collegabili a provvedimenti amministrativi - emessi nell'ambito e nell'esercizio di poteri autoritativi e discrezionali spettanti alla P.A.. Sul potere autoritativo in senso stretto ed in senso lato, cfr. R. Frasca e S. Evangelista, Relazione dell’ufficio del massimario, 2005, in Lexitalia.it.
[15] Infatti, ai fini della conversione del contratto nullo - secondo la corrente interpretazione dell’articolo 1424 codice civile - l'indagine del giudice deve essere diretta a verificare se gli effetti giuridici realizzabili con il contratto "diverso" sono idonei a soddisfare gli interessi delle parti che il contratto nullo era diretto ad attuare.
Si veda D'Antonio, La modificazione legislativa del regolamento negoziale , Padova, 1974, 270 e seguenti.
[16] Si veda de Lise, Testo dell’intervento svolto il 20 ottobre 2004 alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi Roma Tre, in occasione dell’incontro di studio promosso dalla prof.ssa Maria Alessandra Sandulli sul tema “Le nuove frontiere del giudice amministrativo tra tutela ante causam e confini della giurisdizione esclusiva”, pubblicato anche sul sito ufficiale della giustizia amministrativa.
[17] Pres. Calabrò, Discorso in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2005, presso il TAR Lazio.
[18] Il 7 maggio 1880, come noto, Silvio Spaventa (ex ministro dei Lavori pubblici nell’ultimo governo della Destra, consigliere di Stato dal 1868) pronunciò a Bergamo il suo celebre discorso sulla giustizia nell’amministrazione.
S. Spaventa, Giustizia nell’amministrazione, in La politica della Destra. Scritti e discorsi raccolti da Benedetto Croce, Bari, Laterza, 1910.
[19] Il collegamento tra pregiudiziale di annullamento ed anacronistica concezione della giurisdizione come di tipo oggettivo e non soggettivo è fin troppo evidente.
Cfr. C. Taglienti, Il risarcimento del danno nel diritto amministrativo, T.A.R., 2003, 12, 592: la giurisprudenza non si è convinta della possibilità di operare un sindacato dell’atto a fini meramente soggettivi, a prescindere dalla ordinaria e tipica valutazione sull’esercizio del potere pubblico.
Sono note le varie ragioni addotte dalla giurisprudenza dominante a sostegno della pregiudiziale di annullamento.
Cfr. E. Follieri, La tutela del diritto privato nel nuovo riparto della giurisdizione negli scritti minori del prof. lucio Valerio Moscarini, Tar, 2003-3, 158: …la certezza dell’azione amministrativa che non può lasciare sospesa per cinque anni la situazione regolata dall’atto amministrativo, dovendo il termine di decadenza valere sia per l’annullamento che per il risarcimento; gli effetti dell’atto amministrativo non annullato (e non impugnato tempestivamente) paralizzano l’azione risarcitoria perché il giudice amministrativo non può disapplicare l’atto autoritativo; il giudizio sulla illegittimità dell’atto amministrativo costituisce un elemento essenziale del thema decidendum perché riguarda l’ingiustizia del danno e non è possibile condannare al risarcimento se non si accerta l’ingiustizia e si annulla l’atto, non potendo il giudice disapplicarlo; l’accoglimento della domanda risarcitoria, senza l’annullamento dell’atto, mantiene in vita provvedimenti illegittimi, dichiarati tali ai fini del risarcimento, con la conseguenza che la P.A. dovrebbe dare esecuzione a degli atti illegittimi; il rischio di possibili contrasti con la giurisdizione del giudice ordinario.
Lo stesso impianto della legge in commento che consente ora, con la modifica dell’articolo 11, in via generale, all’Amministrazione di agire secondo rapporti pubblici consensuali in luogo dell’adozione di atti autoritativi, fa venir meno, in via generale quell’esigenza di certezza sulla legittimità degli atti amministrativi che era alla base del concetto di pregiudiziale di annullamento, finendo per spostare il paradigma della giustizia amministrativa dal controllo sull’atto al giudizio di responsabilità.
In merito alla pregiudiziale di annullamento, si rinvia alla nota sentenza della IV Sezione del Consiglio di Stato, del 15 febbraio 2002 n. 952, e poi alla sentenza 18 giugno 2002 n. 3338 della VI Sezione.
Quest’ultima ha affermato chiaramente che “l’assenza di un potere di disapplicazione in capo al giudice amministrativo, che può solo conoscere in via principale atti amministrativi di natura non regolamentare e non anche disapplicarli, non costituisce argomento di carattere puramente processuale, ma assume una valenza sostanziale, in quanto è strettamente collegato con il principio della certezza delle situazioni giuridiche di diritto pubblico, al cui presidio è posto il breve termine decadenziale d’impugnazione dei provvedimenti amministrativi”.
E’ noto che poi è intervenuta la sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, del 26 marzo 2003 n. 4, la quale ha ribadito tale orientamento, relativamente a posizioni di interesse legittimo, sia nell’ambito della giurisdizione di legittimità sia in quella esclusiva.
[20] Vedasi anche Ad Plenaria 1/2003.
[21] La responsabilità per risarcimento del danno da lesione dell’interesse legittimo non può che essere di tipo contrattuale, e ciò avvicina ulteriormente l’interesse legittimo al diritto di credito, avente ad oggetto, spesso, non un’attività vincolata, ma discrezionale, e quindi causalmente orientata, cioè finalizzata (in entrambi i casi la posizione giuridica non cambia aspetto).
Un’attività obbligatoria non vincolata ma solo causalmente orientata non è nuova al diritto delle obbligazioni, come si rileva ad esempio a proposito dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede, a tutela di interessi coinvolti di fatto nel rapporto pur se non dedotti nel contratto.
[22] Cfr. Bigliazzi Geri, Contributo ad una teoria dell'interesse legittimo nel diritto privato, Milano, 1967.
Tale teoria, però, per quanto visto sopra, non può essere ammissibile, dato che normalmente la cura degli interessi legittimi è affidata al giudice amministrativo, poiché essi presuppongono una correlazione con potestà pubbliche e non private.
Cfr. anche Cannada-Bartoli, voce Interesse (dir. amm.), EdD, XXII, 1972 (in particolare al paragrafo 19): L'estensione dello schema in esame al diritto privato è stata motivata come conseguenza dell'accoglimento, in tale diritto, della nozione di discrezionalità, preoccupandosi di far seguire alla teoria proposta un'attenta esegesi di norme, dal diritto di famiglia a quello delle obbligazioni, delle società, ecc. (…)Il punto debole di queste varie formulazioni generali è il seguente: definito che in una certa situazione privatistica si tratti d'interesse legittimo, ciò crea complicazioni, in teoria, per i casi in cui la pubblica amministrazione sia uno dei soggetti di quella situazione, stante che la tutela di siffatti interessi, nei confronti dell'amministrazione pubblica, è devoluta al giudice amministrativo.
[23] Consiglio di Stato, sentenza n. 209 del 1994 "in sede di esecuzione di una sentenza del giudice amministrativo è possibile, da parte del giudice investito del ricorso per l'ottemperanza, esercitare cumulativamente, ove ne ricorrano i presupposti, sia i poteri sostitutivi attribuitigli in sede di ottemperanza, sia i poteri cassatori e ordinatori che gli competono in sede di giurisdizione generale di legittimità, mediante l'integrazione dell'originario disposto della sentenza con statuizioni che ne costituiscano non mera esecuzione, ma attuazione in senso stretto, dando così luogo al noto fenomeno del giudicato a formazione progressiva".
[24] Consiglio di stato, Sez. V, 06 febbraio 1999, n. 134: Quando, dopo un annullamento giurisdizionale, l'autorità amministrativa debba riesaminare la vicenda, essa è tenuta a far ciò con un'attenzione tutta particolare.
Non deve apparire negativamente prevenuta nei confronti dei privati che hanno dovuto rivolgersi al giudice; e dunque non deve esporli alla prospettiva di una pluralità d'altri giudizi ulteriori. Né deve ingombrare per troppe volte, rispetto al medesimo rapporto, gli uffici giudiziari.
Risultati, questi, che possono realizzarsi richiedendosi all'amministrazione - dopo un giudicato di annullamento da cui derivi il dovere o la facoltà di provvedere di nuovo - d'esaminare l'affare nella sua interezza, sollevando tutte le questioni che ritenga rilevanti, dopo di ciò non potendo tornare a decidere sfavorevolmente neppure in relazione a profili ancora non esaminati.
[25] In tal senso, invece, cfr. ad esempio Consiglio Stato, sez. IV, 30 maggio 2002, n. 3023: Nel giudizio amministrativo di impugnazione favorevolmente conclusosi per il ricorrente il giudicato si forma con esclusivo riferimento ai vizi dell'atto ritenuti dal giudice sussistenti alla stregua dei motivi dedotti nel ricorso, essendo in definitiva inapplicabile "in toto" alla giurisdizione degli interessi il principio secondo il quale la pronuncia definitiva del giudice copre il dedotto ed il deducibile in via di azione o eccezione. Ne consegue che la sede per sindacare la legittimità dell'atto adottato dall'amministrazione in fase di esecuzione del giudicato, sotto profili che non abbiano formato oggetto delle statuizioni contenute nella sentenza, non è quella dell'ottemperanza ma quella ordinaria della cognizione, non potendo lo strumento dell'ottemperanza essere utilizzato per introdurre in giudizio questioni indipendenti dal giudicato, ossia tali da costituire oggetto di un'autonoma controversia.
[26] T.A.R. Campania Salerno, sez. I, 8 luglio 2004, n. 1722: Una volta ammesso in termini generali, con la l. n. 21 luglio 2000 n. 205, che anche dall'esercizio dell'attività provvedimentale della p.a. possono scaturire illeciti risarcibili ai sensi dell'art. 2043 c.c., si impone un ripensamento del tradizionale divieto di integrazione della motivazione dell'atto impugnato e, più in generale, di interventi di sanatoria in pendenza di giudizio , al fine di consentire all'amministrazione di esercitare un ampio "jus poenitendi" in autotutela, in applicazione del principio della parità tra le parti del processo: la citata l. n. 205 (modificando l'art. 21 l. 6 dicembre 1971 n. 1034), con la previsione dei " motivi aggiunti ", comporta che l'adozione di un ulteriore provvedimento inteso ad emendare un vizio dell'atto, oggetto del gravame, non pone più fine automaticamente al relativo giudizio (oggi strutturato come giudizio sul rapporto), ma abilita l'interessato ad integrare la sua originaria impugnativa.
[27] La disposizione del d.d.l. originario così disponeva: “E' annullabile il provvedimento viziato per incompetenza, adottato in violazione di norme imperative, o viziato per eccesso di potere” … “Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma il cui contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”…“Resta salva la facoltà di regolarizzazione, anche in pendenza di ricorso giurisdizionale”.
E’ rimasta, tuttavia, quell’idea di fondo che possa esservi un provvedimento amministrativo che, pur essendo viziato nella forma o nel procedimento, non debba essere comunque annullato poiché il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso “da quello in concreto adottato”. Cfr. in tal senso D.U. Galetta, Notazioni critiche sul nuovo art. 21-octies della legge n. 241/90, in www.giustamm.it, 2005, 2, la quale però non riconduce tali previsioni al concetto di irregolarità ma alla regola del raggiungimento dello scopo, intesa qui come raggiungimento dell’interesse pubblico finale.
[28] Per un’applicabilità, anche nel giudizio amministrativo, delle disposizioni di cui all’articolo 2967 comma 2, vedasi Consiglio di stato, Sez. VI, 25 marzo 1998, n. 378: Tali principi, validi per il processo civile, trovano applicazione, a maggior ragione, nel processo amministrativo, in cui si ritiene più attenuato l'onere della prova a carico del ricorrente.
[29] Cfr. Consiglio Stato, sez. V, 17 maggio 1996, n. 565, secondo cui non sussiste alcun difetto di motivazione nel provvedimento, se la p.a. deposita in giudizio la documentazione che indica chiaramente le ragioni del diniego e contro le quali l'interessato può proporre motivi aggiunti, soprattutto qualora quest'ultimo dimostra di essere perfettamente consapevole dei motivi dell'impugnato diniego .
[30] Cfr. anche A. Romano Tassone, Prime osservazioni sulla legge di riforma della L. n. 241/1990, in giustamm.it: Una breve riflessione (necessariamente più tecnica) merita, in questa prospettiva, la controversa disposizione dell’art. 21 - octies della L. n.241/90, ed in particolare il suo 2° comma, che è stato oggetto di vivaci polemiche, e che sembra più radicalmente contrastare con la tradizionale impostazione del regime dell’invalidità del provvedimento amministrativo. (…) A mio avviso, il principio in questione - ancorchè apparentemente espresso e messo in atto attraverso una duplice tecnica: una qualificazione sostanziale di "non-annullabilità" (irregolarità?) per i provvedimenti vincolati, ed una eccezione processuale per quelli discrezionali - è infatti destinato, in realtà, ad operare sempre e comunque nel giudizio ed ope exceptionis . Un argomento testuale a favore di questa tesi può trovarsi nella successiva disposizione sull'annullamento d'ufficio, che contempla tutte e senza eccezione alcuna le ipotesi di cui all'articolo precedente; un argomento sistematico - se si vuole- si può dedurre dalla circostanza che in entrambi i casi la valutazione va' effettuata in concreto e non in astratto, come invece dovrebbe accadere se tali congegni reagissero sulla qualificazione giuridica del provvedimento in termini di invalidità. La nuova disposizione, pertanto, non comporta, a mio avviso, alcuna eccezione alla qualificazione sostanziale del provvedimento non conforme a legge, che è e rimane invalido, ma opera sul piano degli istituti di sanatoria, potenziando e razionalizzando un'ipotesi generale già presente nel nostro ordinamento: la c.d. "regola del raggiungimento dello scopo", cui attribuisce però un significato più ampio di quello tradizionale. (…) In effetti, tecniche di valorizzazione della irrilevanza del vizio denunciato sul contenuto dispositivo del provvedimento, al fine di negare l’annullamento richiesto in giudizio, non erano affatto sconosciute al nostro ordinamento: la giurisprudenza amministrativa, per esempio, se ne avvaleva (e se ne avvale) pacificamente ai fini della valutazione dell’interesse a ricorrere, che viene frequentemente negato ove il ricorrente non possa attendersi, dalla rinnovazione del procedimento, una decisione diversa da quella già adottata.
[31] Cfr. D.U. Galetta, Notazioni critiche sul nuovo art. 21-octies della legge n. 241/90, in giust-amm.it, 2005, passim, la quale critica la legittimità costituzionale di norme procedimentali che prevedano solo un’irregolarità, senza alcuna sanzione per la loro inosservanza, oltre ai pericoli per uno sconfinamento costante del giudice nel merito amministrativo.
[32] Cfr. A. Orsi Battaglini, Alla ricerca dello Stato di diritto, Milano, 2005, p.46 e seg.
[33] E. Gabrielli, Mercato, contratto ed operazione economica, in Rass. dir. civ., 4, 2004, p. 1044 e seg., porta numerosi esempi. Oltre alla vendita di beni di consumo, l’autore cita gli altri esempi di contratti del consumatore, tra cui i contratti di viaggio e la disciplina delle clausole vessatorie.. ed evidenzia che la considerazione del contratto come operazione economica è utile per favorire l’armonizzazione europea del mercato e del diritto dei contratti, poiché adotta un approccio funzionale che consente di superare le diversità formali tra istituti giuridici che regolano fenomeni economici che nella sostanza sono simili.
[34] Si veda, tra le prime applicazioni giurisprudenziali di tali principi, Tar Puglia, sez. di Lecce, Sentenza n.4184/2005 del 26 maggio 2005 (Pres. Speranza, rel. Balloriani), in www.personaedanno.it, in cui si afferma testualmente: “…la lesione dell’interesse legittimo ha la propria peculiarità nell’essere un illecito maturato nell’ambito di un rapporto di diritto pubblico (cui corrispondono le posizioni correlate di potere-interesse legittimo), per violazione di norme di azione amministrativa.
Solo analogicamente quindi possono applicarsi i principi in materia di illecito nell’ambito del rapporto obbligatorio di diritto comune, così come al contratto di diritto pubblico (in cui l’esercizio di tale potere è negoziato) possono applicarsi i principi in materia di inadempimento delle obbligazioni (cfr. l’articolo 11 della legge n.241/1990).
Ciò premesso, con riferimento all’interesse legittimo, in difetto di limitazioni espresse alla generale e piena tutelabilità della posizione giuridica (cfr. art. 24 della Costituzione), non v’è ragione alcuna di applicare limitazioni o classificazioni di sorta, con riferimento alla possibilità di accordare tutela risarcitoria agli interessi sostanziali ad essa sottesi.
Tali interessi possono anche essere non patrimoniali (cfr. il principio contenuto nell’art. 1174 codice civile e quanto già affermato dalla giurisprudenza: Consiglio Stato, sez. V, 10 ottobre 1989, n. 623).
Nell’ambito dell’interesse legittimo, esistono altre e diverse distinzioni, che possono avere conseguenze sul profilo risarcitorio.
Si pensi ai cd. interessi legittimi pretesivi a fronte di potere vincolato o discrezionale e che in quest’ultimo caso sarà necessario per il giudice ricorrere allo speciale procedimento di liquidazione di cui all’articolo 35 del dlgs n.80 del 1998.
Per quanto sopra, può affermarsi la risarcibilità in via generale dell’interesse legittimo, senza alcun limite, con la precisazione però che ai fini dell’accertamento del danno occorre verificare se, effettivamente, la violazione delle regole di agire di diritto pubblico, e quindi la violazione dell’interesse legittimo, abbia poi effettivamente prodotto un danno patrimoniale o non patrimoniale a carico del soggetto titolare dell’interesse legittimo.
Nel caso in esame, il ricorrente non chiede il risarcimento del danno patrimoniale, ma solo di quello non patrimoniale.
Con riferimento a quest’ultimo allora, si osserva che l’interesse sostanziale ad ottenere il tempestivo riconoscimento dell’equo indennizzo, se ha un rilievo socialmente apprezzabile sotto il profilo economico, non produce invece apprezzabili conseguenze sotto il profilo non patrimoniale, neanche come semplice sofferenza causata dall’illecito.
Invero non si tratta di somme di rilevanza tale che possono avere anche rilievo indiretto sotto il profilo non patrimoniale, né il riconoscimento dell’equo indennizzo, nel concreto caso in esame, comporta la considerazione o comunque il coinvolgimento di valori non patrimoniali della persona umana.
La domanda di risarcimento deve essere quindi respinta per mancanza di danno.
Non si vede quale sofferenza o offesa a valori personali si possa subire a fronte del ritardo nel riconoscimento dell’equo indennizzo”.
Questa impostazione sembra affermarsi, sia pure allo stato in misura minoritaria, nella giurisprudenza del Consiglio di Stato.
Cfr. la Sentenza n.1047 del 2005, Pres. Varrone, est. Maruotti, secondo cui: “…nel diritto pubblico e per il caso di lesione arrecata all’interesse legittimo, si è in presenza di una peculiare figura di illecito, qualificato dall’illegittimo esercizio del potere autoritativo (il che preclude che possa essere senz’altro trasposta la summa divisio tra la responsabilità contrattuale e quella extracontrattuale, storicamente affermatasi nel diritto privato).
Infatti, per ragioni ontologiche, storiche, normative e istituzionali, l’esercizio del potere autoritativo:
- non è assimilabile alla condotta delle parti di un rapporto contrattuale, caratterizzato da diritti, obblighi o altre posizioni tutelate dal diritto privato (la cui tutela è prevista dagli articoli 1218 e ss. del codice civile);
- non è assimilabile alla condotta di chi – con un comportamento materiale o di natura negoziale – cagioni un danno ingiusto a cose, a persone, a diritti, posizioni di fatto o altre posizioni tutelate ai fini risarcitori erga omnes dal diritto privato (e la cui tutela è prevista dagli articoli 2043 e ss. del codice civile).
Per tali ragioni, i commi 1 e 4 del novellato art. 35 del decreto legislativo n. 80 del 1998 non hanno richiamato alcuna disposizione del codice civile (poiché l’illecito cagionato con illegittimi atti autoritativi non è riconducibile alle fattispecie disciplinate dai codici del 1865 e del 1942) e neppure hanno richiamato le fondamentali nozioni (diligenza, dolo, colpa, ecc.) su cui si basano i sistemi della responsabilità civile (contrattuale o extracontrattuale).
Essi hanno attribuito al giudice amministrativo il potere di determinare in concreto se e quali conseguenze dannose vi siano nella sfera giuridica del soggetto legittimato all’impugnazione, quando vi è l’illegittimo esercizio del potere autoritativo, verificando anche se – nel caso al suo esame – un principio affermatosi nel diritto privato risulti compatibile con quello da applicare nel diritto pubblico (in ragione delle regole organizzative, sostanziali e procedimentali che l’Amministrazione è tenuta a rispettare, nonché delle regole che caratterizzano il processo amministrativo)”.
[35] L’articolo 35 comma 2 prevede una forma di risarcimento a tappe: prima il giudice fissa i criteri cui l’amministrazione deve attenersi nella ricerca di un accordo con il soggetto leso, per addivenire alla liquidazione del danno; b) qualora non si raggiungesse tale accordo, è prevista una sorta di giudizio d’ottemperanza.
Cfr. A. Romano, Comm. breve alle leggi sulla Giustizia Amministrativa, Padova, 2001, 621.
[36] Ed pertanto si rileva come il criterio prognostico proposto nella sentenza 500/1999 della Cassazione, basato su una ragionevole probabilità, per il cittadino, di ottenere il provvedimento amministrativo negatogli dall’amministrazione, non sia affatto idoneo al corretto risarcimento del danno da lesione dell’interesse legittimo.
[37] Cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 14 giugno 2001, n. 3169, seguito da Cassazione civile, sez. I, 10 gennaio 2003, n. 157, che oggi sembrano trarre nuova linfa dalla recente sentenza della Corte di Giustizia CE che, con la decisione C-275/03 del 14 ottobre 2004 ha condannato lo Stato portoghese per infrazione al diritto comunitario per le norme nazionali che subordinano il risarcimento del danno in materia di pubblici appalti alla prova del dolo o della colpa.
[38] La Corte afferma testualmente: “La materia dei pubblici servizi può essere oggetto di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo se in essa la pubblica amministrazione agisce esercitando il suo potere autoritativo ovvero, attesa la facoltà, riconosciutale dalla legge, di adottare strumenti negoziali in sostituzione del potere autoritativo, se si vale di tale facoltà (la quale, tuttavia, presuppone l’esistenza del potere autoritativo: art. 11 della legge n. 241 del 1990)”.
[39] Cfr. Corte Cost. sentenza 204 del 2004: Le censure che si sono sinteticamente riferite (sub 2.1.) colgono nel segno nella parte in cui denunciano l'adozione, da parte del legislatore ordinario del 1998-2000, di un'idea di giurisdizione esclusiva ancorata alla pura e semplice presenza, in un certo settore dell'ordinamento, di un rilevante pubblico interesse; un'idea - come osservano i rimettenti - che presuppone l'approvazione (mai avvenuta) di quel progetto di riforma (Atto Camera 7465 XIII Legislatura) dell'art. 103 Cost. secondo il quale «la giurisdizione amministrativa ha ad oggetto le controversie con la pubblica amministrazione nelle materie indicate dalla legge».
[40] Cfr. E. Sticchi Damiani, La nozione di appalto pubblico, Milano, 1999, 96 e 136: E invero nelle vicende consensualistiche le situazioni giuridiche dell’Amministrazione, in presenza di attività funzionalizzata, sono riconducibili al pubblico potere, trovano collocazione nella dicotomia potestà-interesse legittimo e si traducono in accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento tipicamente discrezionali, mentre, in presenza di attività soltanto funzionale, si collegano all’autonomia negoziale, si strutturano come reciproci diritti ed obblighi delle parti e si traducono in atti di natura privatistica…
…Laddove rilevanza disciplinare dell’interesse pubblico non significa rilevanza dell’interesse pubblico in quanto tale, che può, considerando il problema, per così dire, in termini quantitativistici, trovare adeguata disciplina anche in moduli privatistici, ma appunto rilevanza disciplinare nel senso della necessità “qualitativa” di talune fattispecie di interesse pubblico e non di altre di trovare una specifica rispondenza nella disciplina del procedimento..
[41] Sul rapporto tra articolo 11 della legge 241/1990 e servizi pubblici si veda anche V. Cerulli Irelli, Corso di diritto amministrativo, Torino, 1997, 658: “In materia di opere o di servizi pubblici, lo strumento della concessione amministrativa e quello del contratto di appalto sono del tutto sostituibili l’uno con l’altro. Il servizio pubblico può essere dato in concessione a privati, attraverso un provvedimento autoritativo, ovvero può essere affidato in appalto, attraverso un contratto di diritto comune. E lo stesso servizio può essere affidato a società commerciale al cui capitale l’ente pubblico partecipa in quota maggioritaria o minoritaria…”
[42] Cfr. M. Rubulotta, Sulla giurisdizione esclusiva in materia di servizi pubblici farmaceutici, nota a Tar Catania, sentenza 21 marzo 2005, n. 466, in giurisprudenza.it.:
A detta dei giudici amministrativi, non risulterebbe chiaro se la Consulta abbia voluto limitare tale esclusione alla sola materia delle “concessioni” di pubblico servizio, ovvero abbia voluto riferirla a tutte le ipotesi in cui viene, comunque, in rilievo, un servizio pubblico. Infatti, nel nuovo comma 1 dell’art. 33, come riformulato dalla Consulta, l’esclusione dalla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo – e la conseguente devoluzione alla giurisdizione del giudice ordinario – delle controversie in materia di pubblici servizi concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi sembrerebbe, in base ad una lettura testuale della norma, essere espressamente affermata soltanto per le concessioni di pubblici servizi; ciò in quanto il periodo incidentale “escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi” è inserito soltanto dopo la locuzione “relative a concessioni di pubblici servizi” e non, invece, prima di tutto l’elenco specifico delle materie che la Corte ritiene costituzionalmente attribuibili al giudice amministrativo, come sarebbe stato invece necessario se si fosse voluto estendere tale esclusione a tutte le ipotesi ivi indicate.
[43] Che nei servizi pubblici sia ontologicamente presente il momento autoritativo è desumibile dalla stessa definizione giurisprudenziale di essi.
Il Consiglio di Stato (Cfr. Cons. Stato Ag. 12 marzo 1998 n. 30 e Ap. 3 marzo 2001 n. 1) ha ricompreso nella nozione di servizio pubblico “tutte le attività svolte da qualsivoglia soggetto, riconducibili ad un ordinamento di settore, sottoposte cioè a controllo, vigilanza o mera autorizzazione da parte di un’amministrazione pubblica” e la Cassazione (Cfr. Cass. civ., SS.UU., 30 marzo 2000 nn. 71 e 72), ancora più espressamente, ha affermato che il “servizio pubblico corrisponde a quella prestazione resa alla generalità, da parte di un soggetto, anche privato, che sia inserito nel sistema dei pubblici poteri o sia a questo collegato, e che sia sottoposto ad un regime giuridico derogatorio di diritto comune”.
Cfr. M. Rubulotta, Sulla giurisdizione esclusiva in materia di servizi pubblici farmaceutici, nota a Tar Catania, sentenza 21 marzo 2005, n. 466, in giurisprudenza.it.
[44] Sui servizi pubblici come accordi ex articolo 11 della legge 241/1990, si veda e. Sticchi Damiani, La nozione di appalto pubblico, Milano, 1999, passim.
[45] Cfr. Giannini M.S., Diritto amministrativo, II, Milano, 1993, 13 e seg.
Si veda inoltre V. Cerulli Irelli, Corso di diritto amministrativo, Torino, 1997, 51 e seg., le cui considerazioni appaiono giocoforza suscitare maggiore interesse, visto il ruolo ricoperto nell’ambito della riforma in commento: Sono funzioni in senso proprio e tecnico le attività di cura concreta di interessi pubblici poste in essere nell’esercizio di poteri amministrativi…non tutte le attività giuridiche dell’Amministrazione sono funzioni: non tutte cioè, si estrinsecano nell’esercizio di poteri amministrativi e nell’ambito di rapporti giuridici di diritto pubblico. Infatti, l’Amministrazione agisce anche, e in determinati settori esclusivamente, mediante attività di giuridica di diritto comune: nell’esercizio di diritti, anziché di poteri amministrativi, nell’ambito dell’autonomia negoziale (si è già ripetutamente accennato che i pubblici poteri sono anche soggetti di diritto comune). Queste attività di diritto privato dell’Amministrazione, o comunque di natura convenzionale o negoziale, possono a loro volta distinguersi in due categorie, In alcuni casi, l’attività di diritto privato in luogo di quella pubblicistica consistente nell’esercizio di poteri amministrativi (funzione in senso tecnico), è strumento di cura di interessi pubblici, è amministrazione in senso stretto … Ciò avviene laddove l’Amministrazione, nella cura concreta di un determinato interesse pubblico sceglie di usare lo strumento privatistico, di agire secondo un modulo di diritto comune anzichè mediante esercizio del potere che è stato attribuito per la cura dell’interesse…nei limiti in cui questa facoltà di scelta si in concreto ammissibile.
[E cioè quasi sempre, possiamo oggi affermare, alla luce della modifica dell’articolo 11 della legge 241/1990].
…in altri casi l’attività di diritto privato posta in essere dall’Amministrazione è attività, possiamo dire, meramente patrimoniale, intesa cioè alla gestione del patrimonio privato che anche i pubblici poteri (come soggetti di diritto comune) possiedono…si parla in tali casi di attività privata dell’Amministrazione. Ad essa secondo alcuni vanno ascritte le attività cosiddette di azienda (peraltro recessive nell’organizzazione amministrativa contemporanea) cioè dirette alla produzione o all’acquisto di beni e servizi necessari al funzionamento delle strutture amministrative e del personale.
[46] Mutuando l’espressione da un’altra branca del diritto, nella quale ha pur sempre rilievo autonomo l’attività, quale insieme di atti coordinati o unificati sul piano funzionale dalla unicità dello scopo (cfr. G.Auletta, voce Attività (dir. privato), EdD, 1958, 982), ed in cui ha del pari utilità la distinzione tra contratti d’azienda e contratti d’impresa (la dottrina distingue i contratti inerenti all'esercizio dell'azienda in contratti aziendali in senso stretto, aventi per oggetto il godimento di beni aziendali, e in contratti d'impresa - Galgano, Diritto commerciale , I, L'imprenditore , Bologna, 1996, 79 - : i primi sono contratti miranti all'acquisizione dei beni o servizi necessari al funzionamento del complesso aziendale - Martorano, in AA.VV., Manuale di diritto commerciale , Torino, 1997, 557 -), effettivamente, la nozione di servizio pubblico, come l’attivita` idonea a soddisfare in via immediata le necessita` di una numero indifferenziato di utenti, può essere utilmente distinta dalla categoria dei c.d. servizi di azienda (di cui agli artt. 6, l. n.205/2000 e 33, comma 2, lett. b, d.lgs. 80/1998 cit.), cioe` dalle prestazioni che l’Amministrazione acquisisce da parte di terzi (mediante contratti di appalto) per esigenze connesse della propria organizzazione (Cerulli Irelli, La giurisdizione esclusiva e i servizi pubblici, in L’evoluzione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, Atti del xlix convegno di studi di scienza dell’amministrazione, Varenna-Villa Monastero - 18-20 Settembre 2003, Milano, 2003, 286).
[47] Cfr. T.A.R. Puglia Bari, sez. II, 10 maggio 2004, n. 2124: Il contratto di affidamento del servizio di vigilanza di un edificio pubblico è riconducibile alla categoria degli appalti pubblici di servizi e non degli appalti di servizi pubblici, pertanto la controversia recante ad oggetto prestazioni di natura patrimoniale rese in favore dell'appaltante, soggetto pubblico direttamente beneficiario del servizio, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario.
[48] Consiglio di stato, Sez. V, 13 marzo 2000, n. 1327: la disposizione generale dell'articolo 11 della legge n. 241/1990, secondo la quale gli accordi sostitutivi di provvedimenti sono assoggettati alla disciplina sostanziale ricavata dai principi generali in materia di obbligazioni e contratti pienamente operante anche in relazione alle convenzioni relative all'affidamento di servizi pubblici, nonostante le specifiche norme contenute nell'articolo 5 della legge n. 1034/1971 e negli articoli 33 e seguenti del decreto n. 80/1998, codifica la regola, già espressa da un consistente indirizzo interpretativo, secondo cui i contratti ad oggetto pubblico sono attratti, in larga misura, nella sfera di operatività del diritto privato.
[49] Sul concetto ampio, non enfatico, di funzione amministrativa e sulle funzioni pubbliche episodiche, si veda Giannini M.S., Diritto amministrativo, II, Milano, 1993, 13 e seg.
[50]T.A.R. Piemonte, sez. II, 3 giugno 2003, n. 815: L'attribuzione alla giurisdizione amministrativa della controversia avente origine da una convenzione stipulata tra pubbliche amministrazioni per la gestione di servizi amministrativi non è tanto da ascriversi alla riconducibilità alla materia di servizi pubblici , quanto all'espressa devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, da parte degli art. 11 e 15 l. n. 241 del 1990, delle controversie in tema di formazione, conclusione ed esecuzione di accordi tra amministrazioni per lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune.
[51] Tale ultima espressione è di G. Tulumello, Il nuovo regime di atipicità degli accordi sostitutivi: forma di Stato e limiti all’amministrazione per accordi, in giust-ammm.it, 2005, 8, il quale evidenzia anche alcuni risvolti problematici degli accordi sostitutivi con particolare riferimento alla disciplina comunitaria in materia di concorrenza.
[52] Cfr. G.De Marzo, P.Grauso, G.Fabbrizi, L’attività amministrativa alla ricerca del consenso, in Le nuove regole dell’azione amministrativa dopo le leggi n.15/2005 e n.80/2005, AAVV, a cura di Caringella, De Carolis e De Marzo, Milano, 2005, p. 103.
[53] Cfr., da ultimo, L.Monteferrante, La nuova disciplina degli accordi procedimentali: profili di tutela giurisdizionale, Intervento al seminario di studi organizzato dall’Università Bocconi di Milano il 25.5.2005.
[54] Cfr. Cfr. G.De Marzo, P.Grauso, G.Fabbrizi, L’attività amministrativa cit, p. 103.
[55] L’attribuzione di tale dignità sarebbe strettamente connessa con l’indipendenza dell’apparato, tanto che la Corte Costituzionale non manca di evidenziare l’apprezzamento, più volte espresso nell’Assemblea costituente, per l’indipendenza con la quale il Consiglio di Stato aveva operato durante il regime fascista.
Queste affermazioni, purtroppo, rilevano il carattere di compromesso tra poteri, insito nella sentenza della Corte.
[56] Come vedremo, quest’ultimo passaggio appare rivelatore dell’impostazione di fondo della sentenza in esame nella definizione di interesse legittimo, come situazione giuridica nell’ambito di un rapporto di natura pubblicistica, che si rivela per l’astratta presenza di poteri autoritativi funzionali al pubblico interesse in capo alla pubblica amministrazione.
La Corte giunge a sostenere che anche nella fattispecie di cui all’articolo 11 della legge 241/1990, cui sono ricollegabili, in ultima analisi, i servizi pubblici, sono rinvenibili i tratti dell’interesse legittimo e ciò ne giustifica l’assoggettamento alla giurisdizione esclusiva, pur nell’accezione da essa riferita.
Nel senso della riconduzione del contratto di pubblico servizio alla fattispecie di cui all’articolo 11 della legge 241/1990 e della configurazione, in tali ipotesi, di situazioni di interesse legittimo per la rilevanza del potere sulla disciplina, si veda E. Sticchi Damiani, La nozione di appalto pubblico, Milano, 1999, 95 e seg.
[57] Tale impostazione è affermata apertamente dal Giudice Cosituzionale.
Del resto è il criterio di riparto che si evinceva già dall’interpretazione che si era data agli articoli 2, 3 e 4 della legge 2248/1865.
Su un interessante analisi dei criteri di riparto della giurisdizione contenuti nella Costituzione, si veda D. Pallottino, Osservazioni sulla legittimità costituzionale del nuovo sistema di riparto delle giurisdizioni, in Foro amm. TAR 2003, 4, 1461 e seg. L’Autore giunge a conclusioni condivise nel testo, ovvero che il criterio di riparto contenuto nella Costituzione non è solo quello relativo alla posizione giuridica.
Egli inoltre evidenzia correttamente come il sistema delineato dalla Costituzione sia un sistema di pluralità delle giurisdizioni (prevalso infine nell’assemblea costituente poiché ritenuto capace di garantire maggiore tutela contro i poteri pubblici, a differenza del fallimento riscontrato con la giurisdizione unica, delineata dalla legge 2248/1865, anche se capace di assicurare minori garanzie in termini di certezza del diritto) e non di unicità della giurisdizione, e che quindi ciò postula necessariamente la possibilità di contrasti di interpretazioni giurisprudenziali su identici istituti.
Tali conclusioni sembrano condivise anche dalla Corte Costituzionale, nella sentenza 204/2004, laddove ha riconosciuto anche al giudice amministrativo la piena dignità di giudice ordinario degli interessi legittimi ed ha posto come unico limite alla ripartizione per blocchi di materie l’astratta esistenza del potere autoritativo dell’amministrazione.
[58] E’ pertanto palesemente incostituzionale la proposta di legge n. 5471, presentata il 2 dicembre 2004 alla Camera dei Deputati d’iniziativa degli Onorevoli Finocchiaro, Leoni, Bonito, Carboni, Kessler, Grillini, Magnolfi, Lucidi, Mussi, Mancini, Siniscalchi, avente ad oggetto “Nuove norme in materia di impugnazione dei provvedimenti adottati dal Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa”. Il testo infatti prevede espressamente la devoluzione al giudice ordinario della giurisdizione in materia di interessi legittimi non solo a fronte di atti vincolati (quali quelli applicativi di sanzioni amministrative):
1. Avverso gli atti del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa concernenti lo status dei giudici amministrativi è ammesso ricorso in unico grado avanti alla corte d’appello di Roma. Ai sensi dell’articolo 113, terzo comma, della Costituzione, la corte d’appello conosce anche della lesione di interessi legittimi e può disporre l’annullamento degli atti impugnati.
2. Le sentenze
pronunciate sui ricorsi di cui al comma 1 possono essere impugnate
avanti alla Corte di cassazione per i
motivi enunciati nell’articolo 360 del codice di procedura civile.
3. Avverso gli atti di cui al comma 1 non è ammesso il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica previsto all’articolo 8 del decreto del Presidente della Repubblica 24 novembre 1971, n. 1199.
[59] Cfr. A. Camozzi, L’interesse legittimo alla luce della riforma della giustizia amministrativa, Relazione presentata al convegno svoltosi a Matera il 12 aprile 2002 sul tema «L’innovazione istituzionale: grandi disegni o vere riforme? Parte seconda, in TAR, 2002-02, 81 e seg.: Per la verità parte della dottrina — Sandulli, La giustizia amministrativa — dubita che la Costituzione, e segnatamente l’art. 103, contenga una riserva assoluta della materia degli interessi legittimi alla giurisdizione amministrativa, e cita a conferma la competenza della Corte di appello di Roma per le sanzioni irrogate dal Ministro del tesoro, previste dalla legge bancaria; la competenza dei tribunali in materia di sanzioni alle imprese di assicurazione, previste dalla relativa legislazione e irrogate dal Ministro delle attività produttive, ed altre. In generale si può richiamare la L. 24 novembre 1981 n. 689 e successive modificazioni in tema di sanzioni amministrative pecuniarie concernente tutte le sanzioni di questa specie, anche quelle che non derivano da depenalizzazione di reati — v. art. 12 —. Detta legge assegna al giudice ordinario la competenza a decidere della opposizione avverso l’ordinanza-ingiunzione di pagamento della sanzione. Mi sembra peraltro di poter sommessamente obiettare che l’individuazione di questa come di altre leggi che attribuiscano competenza al giudice ordinario per questioni ritenute di interesse legittimo potrebbe al più abilitare a concludere che il precetto costituzionale sul riparto di giurisdizione è stato violato. E peraltro, nel caso delle sanzioni amministrative pecuniarie della legge n. 689 non appare del tutto peregrina una ricostruzione del rapporto in termini di diritto-obbligo esulando la materia dal campo della discrezionalità amministrativa. L’obbligo di pagare la sanzione sarebbe in sostanza un debito, di natura non molto diversa da quella del debito d’imposta.
[60] E ciò, probabilmente, tradisce la natura di continuo compromesso - spesso palese - tra i vari plessi giurisdizionali, che sottende le varie soluzioni in tema di riparto, le quali pertanto non appaiono purtroppo mai finalizzate alla mera razionalizzazione del sistema.
[61] Cfr. Consiglio di Stato, IV Sez., sentenza n. 1109 del 17 marzo 2005: Il riferimento - contenuto nella sentenza n. 204/2004 - alla necessità di un collegamento con l’esercizio del potere per poter giustificare una previsione di giurisdizione esclusiva non può che essere inteso - ad avviso del Collegio - come indicativo della volontà del giudice costituzionale di ricondurre nell’alveo dell’attività provvedimentale in senso ampio anche l’attività materiale esecutiva dei provvedimenti amministrativi (ancorché illegittimi), limitando la declaratoria di incostituzionalità alle sole ipotesi di giurisdizione esclusiva in cui il comportamento materiale della pubblica amministrazione è assunto in totale carenza di potere e cioè con modalità del tutto estranee all’esercizio del potere autoritativo.
[62] Cfr. Sticchi Damiani, La nozione di appalto pubblico, Milano, 1999, 95 e seg.
[63] Si veda ad esempio C. cost., sent. n. 225/2001, secondo cui il relativo limite ai poteri del giudice ordinario, di cui all’articolo 4 LAC, non costituiscono una regola di valore costituzionale, che il legislatore ordinario sarebbe tenuto ad osservare in ogni caso.
[64] Si veda, tra le tante, Consiglio Stato, sez. IV, 2 novembre 2004, n. 7088, che ha escluso che sia una giurisdizione esclusiva la giurisdizione in materia di silenzio inadempimento dell’amministrazione all’adozione di un atto autoritativo.
[65]In tal senso si veda, dopo la sentenza 204/2004 della Corte Costituzionale, l’ordinanza 1300 dell’11 novembre 2004 del T.A.R. Lecce, secondo cui non è manifestamente infondata, con riferimento agli artt. 3 e 103 comma 1 Cost., la questione di costituzionalità dell'art. 13 comma 8 T.U. 25 luglio 1998 n. 286, come modificato dall'art. 1 comma 2 D.L. 14 settembre 2004 n. 241, nella parte in cui prevede che "avverso il decreto di espulsione può essere presentato unicamente il ricorso al Giudice di pace del luogo in cui ha sede l'autorità che ha disposto l'espulsione. Il termine è di sessanta giorni dalla data del provvedimento di espulsione.
Analogamente, dubbi di legittimità cositituzionale potrebbero avanzarsi, con riguardo alla disposizione dell’articolo 1 comma 2 del dlgs n.5 del 17.1.2003, secondo cui “Restano ferme tutte le norme sulla giurisdizione. Spettano esclusivamente alla Corte d’Appello tutte le controversie di cui agli articoli 145 del dlgs 1.9.1993 n.385, e 195 del dlgs 24.2.1998 n.58”.
Ciò, poiché si è derogato ad un criterio generale di riparto (che, ex articoli 103 comma 3, e 4 della L.A.C. n. 2248/1865, attribuisce, in via generale al giudice amministrativo la tutela dei privati avverso l’attività d’imperio della pubblica amministrazione), in modo del tutto irragionevole, scindendo arbitrariamente l’unità funzionale dell’attività di vigilanza e sanzionatoria.
L’illegitimità deriva inoltre dall’eccesso di delega laddove, in assenza di delega specifica [La legge di delegazione del 03/10/2001, n. 366, all’articolo 1 ha previsto espressamente che “il Governo è inoltre delegato ad emanare norme che, senza modifiche della competenza per territorio e per materia, siano dirette ad assicurare una più rapida ed efficace definizione di procedimenti”. Inoltre, nella stessa relazione governativa al dlgs n.5/2003, per spiegare l’affermazione contenuta nel comma 2 dell’articolo 1 secondo cui “Restano ferme le norme sulla giurisdizione”, si espone chiaramente che, nel dettare la disciplina normativa di attuazione della delega, si è operato “nel rispetto della competenza per territorio e per materia (e, a maggior ragione, dei diversi criteri discriminanti tra le diverse giurisdizioni: cfr.art.1, comma 2), immodificabile per espessa disposizione di legge (punto 1) tanto da consigliare l’esplicazione del significato (in parte qua) conservativo della nuova disciplina”] ed in contrasto con l’articolo 7 della legge 205/2000, ribadisce la generica competenza della Corte d’Appello in tutte le controversie di cui all’articolo 145 del dlgs 385/1993 (probabilmente per una svista del legislatore delegato, che infatti nella relazione non contempla affatto l’articolo 7 legge 205/2000, ed inoltre si riferisce genericamente alla Corte d’Appello e non alla Corte d’Appello di Roma, come sarebbe stato più corretto).
[66]Come è avvenuto in più occasioni, ad esempio, in materia di irrogazione di sanzioni amministrative.
Sul difficile coordinamento degli articoli 103 e 113 della Costituzione, Cfr. L. Mazzarolli, Giustizia amministrativa, in Diritto amministrativo, AAVV, Bologna, 1998., p. 1779.
[67] Benché comunque esposto all’esercizio di un potere autoritativo e pertanto tutelato in modo simile all’interesse legittimo. Cioè i diritti che in passato veniva chiamati come diritti affievoliti o condizionati dal potere pubblico. Cfr. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, I, 7^ ed., Milano, 1953, 189; Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, 13^ ed., Napoli, 1982, 105; Landi e Potenza, Manuale di diritto amministrativo, 8^ ed., Milano, 1987, 165.
Ma oggi ci si è accorti che tale definizione non è dogamaticamente corretta.
Cfr. V. Cerulli Irelli, Corso di diritto amministrativo, Torino, 1997, 611, il quale evidenzia che la teoria della degradazione ha il difetto di modificare la natura della posizione giuridica in virtù di alcune modalità di tutela che ad essa sono invece proprie, ed evidenzia inoltre che tale teoria è nata proprio all’indomani della legge del 1865, lasciando inizialmente senza tutela i diritti soggettivi lesi dall’agire autoritativo della PA, poi rimessi alla giurisdizione del GA, ma spesso reclamati dalla Cassazione con la nota teoria della carenza di potere.
[68] Secondo la quale: “…rientra nella discrezionalità del legislatore l'attribuzione ad un giudice (sia amministrativo, sia ordinario; nella fattispecie, la normativa si riferisce, a seconda delle ipotesi di espulsione, ad entrambi), in sede di decisione di ricorso giurisdizionale, del potere di annullare (nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa: art. 113, terzo comma, Costituzione) un atto amministrativo - e l'annullamento può essere anche parziale -, affidandogli (ove ritenuto rispondente ad esigenze di speditezza), anche il potere di determinare il contenuto di durata di una prescrizione (nella specie effetto interdittivo), fissando alcuni criteri di legittimità, pur lasciando spazio ad una valutazione discrezionale;
… tale scelta non appare manifestamente irragionevole, quando - come nella fattispecie - lo stesso legislatore ritenga che detti strumenti processuali rispondano alla esigenza di rafforzare la effettività, la tempestività e l'ampiezza della tutela giurisdizionale, specie se questa tutela coinvolga diritti della persona;
… non spetta al giudice, investito di un potere giurisdizionale, di compiere una diversa valutazione di scelte di politica legislativa, avendo il legislatore effettuato una opzione - che non può ritenersi manifestamente irragionevole o palesemente arbitraria o in contrasto con il principio del buon andamento dell'amministrazione
[69] Ed in effetti ciò è coerente anche con una pur sommaria ricostruzione dei criteri di riparto adottati storicamente dalla giurisprudenza.
E’ noto difatti che la più risalente giurisprudenza amministrativa, già dal secolo scorso, ha fondato la propria competenza giurisdizionale sulla base del criterio del petitum, cioè sulla circostanza che il ricorrente abbia richiesto l’annullamento dell’atto autoritativo dell’amministrazione. La Corte di Cassazione, invece, divenuta giudice dei conflitti giurisdizionali, individuava il criterio nella causa pretendi, cioè nella natura della situazione giuridica dedotta in giudizio (Cfr. Cass. Roma, sez. un., 24 luglio 1891 e sez. un.24 giugno 1897).
Il Consiglio di Stato, in particolare, ha per lo più coerentemente affermato che anche la lesione di un diritto soggettivo, se causata da un atto autoritativo dell’amministrazione possa ottenere tutela davanti al giudice amministrativo (Consiglio di Stato, sezione V, 29 novembre 1929, n. 648).
Nel 1930, come noto, si è avuto il famoso concordato (all’indomani del più famoso concordato lateranense) tra Cassazione e Consiglio di Stato (Cass., sez. unite, 15 luglio 1930 e Consiglio di Stato, ad. Plen. 14 giugno 1930, n.1), ed il criterio di riparto è divenuto quello combinato del petitum e della causa petendi che si integrano a vicenda.
Questo concordato, però, è durato poco, poiché ben presto nella giurisprudenza ordinaria ed amministrativa sono emerse altre soluzione: la teoria della prospettazione (che sostanzialmente rimette al ricorrente la scelta del giudice), quella del petitum sostanziale (una riedizione della causa petendi).
Il duplice criterio della posizione giuridica e dell’atto autoritativo quindi ha sempre caratterizzato il riparto di giurisdizione.
Difatti la sussistenza della giurisdizione amministrativa a fronte dell’atto amministrativo di esercizio del potere, a prescindere dalla posizione giuridica del privato, è il fondamento reale, a prescindere dalle giustificazioni teoriche, della cd. teoria dei diritti affievoliti (Consiglio di Stato, ad. Plen. 14 giugno 1929, n.2).
In tal senso, coerentemente, il Consiglio di Stato ha sempre sostenuto che sia a fronte di atti autoritativi discrezionali sia a fronte di atti autoritativi vincolati sussiste comunque la giurisdizione del giudice amministrativo (Consiglio di Stato, sez.V, 7 febbraio 1948, n.94; Consiglio di Stato, sez. IV, 23 aprile 1947, n.121).
Il criterio di riparto in base al potere autoritativo è presente anche nell’elaborazione della figura della carenza di potere, ad opera della Cassazione (Cassazione, sez. unite, 4 luglio 1949, n. 1657).
Per una completa ricostruzione, vedasi A. Patroni Griffi, Commento a Consiglio di Stato, ad. Plen. 14 giugno 1930, n.1, in Le grandi decisioni del Consiglio di Stato, a cura di Pasquini e Sandulli, Milano, 2001, 169 e seg.
[70] Come appena visto, tale attribuzione deve essere espressa, ed essendo in deroga ad un principio generale non può essere arbitraria ma deve rispondere a precisi criteri di ragionevolezza.
Pertanto, non appare affatto conforme al sistema di riparto il criterio più volte adottato dalla Corte di Cassazione (già da Cass. civ., SS.UU., 27 luglio 1899), secondo cui rientrerebbe nella giurisdizione del giudice ordinario l’attività dell’amministrazione vincolata a criteri predisposti dalla legge a tutela diretta ed immediata delle posizioni giuridiche dei singoli danneggiati, che hanno pertanto la natura di diritti soggettivi.
Invece, risulta più coerente la diversa impostazione, sempre della Cassazione (Cassazione civile, sezioni unite, 18 novembre 1997, n. 11438), secondo la quale, rievocando la nota distinzione tra norme di azione (che vedono la Pa agire come potere pubblico) e norme di relazione (che regolano l’agire privatistico della Pa), è consentito affermare che: l'Autorità Giudiziaria Ordinaria non ha giurisdizione sulla domanda di risarcimento del danno proposto contro l'Amministrazione pubblica da colui che, sostenendo di avere subito un pregiudizio economico (…) in forza di un provvedimento autoritativo, abbia di questo eccepito l'illegittimità per qualsiasi causa.
Si è ritenuto, infatti, che, in tale ipotesi (…) non essendosi in presenza di una situazione di mancanza assoluta di potere, resta sempre ferma, in conseguenza dell'atto emanato dall'Autorità pubblica, la degradazione del diritto soggettivo a interesse legittimo (sent. n. 8987 del 1990).
Nè può ritenersi consentito al Giudice Ordinario d'indagare se il provvedimento amministrativo sia o no legittimo al solo fine della sua disapplicazione e della deliberazione sulla domanda risarcitoria, in quanto l'accertamento dei vizi dai quali esso è eventualmente affetto, necessario per la perdita della sua esecutività, è devoluto alla competenza del Giudice amministrativo.
Tale ultima impostazione tuttavia non può essere condivisa laddove postula un’inammissibile rievocazione dell’atavica e non più attuale teoria della degradazione del diritto ad interesse legittimo.
Difatti, anche a fronte del potere amministrativo, non vi sono diritti soggettivi che degradano ma vi sono ex ante interessi legittimi, pretesivi o oppositivi, che esistono già prima dell’adozione dell’atto.
La posizione giuridica deve esistere prima della lesione, per potersi affermare che è stata lesa.
Sulla infondatezza della teoria della degradazione e sulla tutela dei diritti come interessi legittimi, cfr. anche V. Cerulli Irelli, Corso di diritto amministrativo, Torino, 1997, 379.
[71] Cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 1 ottobre 2003, n. 5711.
Si veda ora, infatti, l’articolo 2 comma 4 bis della legge 241/1990, introdotto dall’articolo 2 comma 1 della legge 15 febbraio 2005, n.15, il quale dispone che decorsi i termini di conclusione del procedimento, il ricorso avverso il silenzio può essere esercitato, senza la previa diffida all’amministrazione, finchè dura l’adempimento, anche se non oltre un anno dalla secadenza dei termini predetti.
Tale nuova disposizione, evidentemente, rende ragione della pienezza dell’interesse legittimo e dell’erroneità di quelle tesi ataviche che hanno sempre limitato la tutela di tale posizione giuridica all’impugnazione di un qualcosa di equiparabile ad un atto amministrativo.
Su tale nuova disposizione, cfr. M. Occhiena, Riforma della l. 241/1990 e “nuovo” silenzio-rifiuto: del diritto v’è certezza, in giust-amm.it, 2005, 2: La norma ha il sapore dell’interpretazione autentica. È evidente che con essa il legislatore ha inteso impedire alla giurisprudenza di continuare a richiedere, ai fini della proposizione del ricorso avverso il silenzio amministrativo, l’attivazione del complesso iter procedurale previsto dall’art. 25, t.u. 10 gennaio 1957 n. 3. È noto, infatti, che anche dopo l’entrata in vigore della l. 241/1990 e, successivamente, della l. 21 luglio 2000 n. 205, T.A.R. e Consiglio di Stato hanno sempre seguito l’interpretazione enunciata nella sentenza dell’Adunanza plenaria n. 10 del 1978, che recepì la nota teoria di Sandulli, ancor più risalente nel tempo.
[72] Cfr. C. Rossano, Interesse sostanziale tra diritto soggettivo ed interesse legittimo, in Consiglio di Stato, 10-2004, in particolare 2074 e seg, il quale giunge a conclusioni in parte differenti.
[73] E’ sufficiente rinviare a M.Clarich, Tipicità delle azioni e azione di adempimento nel processo amministrativo, cit., passim.
[74]Cfr. M.Clarich, Tipicità delle azioni, cit.: La tipicità dell’azione di annullamento, costituzionalmente necessitata, corrisponde, finanche sul piano lessicale (“nei casi previsti dalla legge”), alla tipicità dell’azione costitutiva, da proporsi innanzi al giudice ordinario, prevista in termini generali dall’art. 2908 del codice civile. Occorre dunque interrogarsi sulle ragioni sottostanti una siffatta limitazione.
La tutela costitutiva è resa tipica nell’ambito del processo civile in ragione del fatto che essa determina un’ingerenza nell’autonomia privata perché comporta una sostituzione del giudice nella produzione di un effetto giuridico che l’ordinamento rimette, in prima battuta, a una dichiarazione di volontà di un soggetto privato resa a titolo di adempimento di un obbligo assunto nei confronti di un altro soggetto privato. Ciò vale specificamente per le cosiddette azioni costitutive c.d. non necessarie, cioè una tipologia di sentenze che hanno appunto per oggetto un obbligo di facere giuridico sorto da un contratto o direttamente dalla legge consistente in una dichiarazione di volontà da parte del soggetto obbligato (obbligo di concludere un contratto ex art. 2932 cod. civ., riconoscimento della paternità o maternità naturale ex art. 269 cod. civ., costituzione di una servitù ex art. 1031 cod. civ.). La crisi di cooperazione consiste nel rifiuto di emanare una dichiarazione di volontà alla quale si è tenuti e ad essa si pone rimedio attraverso la sostituzione della volontà del soggetto obbligato con la volontà del giudice.
La tipicità dell’azione di annullamento nel processo amministrativo può trovare una spiegazione nell’analoga esigenza di salvaguardare la sfera del potere attribuito alla pubblica amministrazione. Risalendo all’origine del sistema della giustizia amministrativa, l’art. 4, secondo comma, della legge del 1965 poneva al giudice ordinario un divieto espresso, coerentemente con una visione rigorosa del principio della separazione dei poteri, di revocare o modificare l’atto amministrativo. Nel 1889 quel divieto venne mantenuto, ma, con disposizione simmetrica di segno contrario, venne attribuito in via generale alla IV Sezione del Consiglio di Stato il potere di annullamento degli atti illegittimi. Una scelta siffatta non apparve all’inizio come un vulnus a tale principio proprio perché si riteneva che la IV Sezione non avesse natura giurisdizionale. Acquisita anche sul piano della qualificazione formale (con la legge 7 marzo 1907 n. 62) la natura giurisdizionale delle decisioni del Consiglio di Stato, la necessità di fondamento legislativo espresso dell’azione di annullamento deriva dalla logica stessa della separazione dei poteri: spetta al legislatore definire i punti di contatto e di possibile ingerenza tra poteri in linea di principio separati specie là dove si opera una sostituzione diretta della volontà della pubblica amministrazione con la volontà del giudice espressa nella sentenza.
[75] Per la quale cfr. M.Clarich, Tipicità delle azioni e azione di adempimento nel processo amministrativo, cit., passim.
[76] Cfr. M.Clarich, Tipicità, cit.
[77] Cfr. M.Clarich, Tipicità, cit.
[78] Cfr. G. Abbamonte, Sentenze di accertamento ed oggetto del giudizio amministrativo di legittimità e di ottemperanza, in Scritti in onore di Massimo Severo Giannini, Milano, 1988, p. 31
[79] Su tale funzione della tutela cautelare cfr. A. Romano, Comm. Breve alle leggi sulla Giustizia Amministrativa, Padova, 2001, 771.
[80] Sulla possibilità per il giudice amministrativo di adottare sentenze dichiarative della nullità, ma argomentando sul diverso profilo della natura non meramente accertativa di tali sentenza, che in ultima analisi comunque produrrebbero effetti costitutivi di risultati utili, si rinvia a A. Bartolini, La nullità del provvedimento nel rapporto amministrativo, Torino, 2002, 348.
[81] Consiglio Stato, sez. V, 15 dicembre 1978, n. 161; T.A.R. Abruzzo L'Aquila, 8 gennaio 1999, n. 7; T.A.R. Abruzzo Pescara, 22 febbraio 2002, n. 271
[82] Cfr. R.Giovagnoli, Il tempo dell’azione amministrativa, in Le nuove regole dell’azione amministrativa dopo le leggi n.15/2005 e n.80/2005, AAVV, a cura di Caringella, De Carolis e De Marzo, Milano, 2005, p. 207, per un’ampia disamina sui limiti del sindacato del giudice sulla fondatezza dell’istanza, alla luce del principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, della possibile configurazione come giurisdizione di merito, della rilevanza degli autovincoli e della discrezionalità tecnica e amministrativa.
[83] Cfr. A. Proto Pisani, Appunti preliminari su rapporti tra diritto sostanziale e processo, in Diritto e giurisprudenza, 1978, p. 25.
[84] L’espressione è utilizzata da M.Clarich, Tipicità, cit.
[85] Portando ad estreme conseguenze le opinioni di M.Clarich, Tipicità, cit, secondo cui “la violazione dell’obbligo (di cui all’articolo 10 bis) determini una preclusione assoluta al potere dell’amministrazione di opporre un ulteriore motivo di diniego, una volta che sia giudizialmente accertata l’illegittimità del motivo o dei motivi di diniego contenuti nel provvedimento, conseguenza forse troppo severa poiché potenzialmente lesiva di interessi pubblici rilevanti”…“l’amministrazione possa, rectius debba, procedere all’integrazione della motivazione in sede processuale, peraltro con il necessario recupero nella medesima sede della garanzia del contraddittorio sui nuovi motivi di diniego e con il corollario anch’esso necessario dell’applicazione del principio secondo il quale il giudicato copre il dedotto e il deducibile”
[86] Cfr. M.Clarich, Tipicità, cit.
[87] Si riporta, infatti, un passo della relazione del Presidente del Consiglio di Stato, A. de Roberto, sullo stato della Giustizia Amministrativa nel 2004: Resta, naturalmente, il dilemma circa la giurisdizione competente a conoscere dei diritti soggettivi lesi da atti nulli. Si tratta, in questo caso, di comportamenti di spettanza del giudice ordinario o di interventi riconducibili, invece, all’esercizio della potestà pubblica e, perciò, ricadenti nella giurisdizione del giudice amministrativo?
Sarà la futura giurisprudenza (e, in chiusura, con il suo responso finale, il giudice regolatore della giurisdizione) a sciogliere questo nodo.
[88] F. Satta, in La riforma della legge 241/1990: dubbi e perplessità, in www.giustamm.it, il quale afferma chiaramente: Con queste parolette, sfuggite dalla penna del legislatore, insomma, uno strumento essenziale per garantire l’effettività della tutela giurisdizionale è stato dimidiato.
[89] Cfr. V. Cerulli-Irelli, Osservazioni generali sulla legge di modifica della l. n. 241/90 – 5. puntata, in giust-amm, 2005, 5: Sul punto, per nulla viene a incidere la già commentata disposizione del 2° co., la quale limitatamente alle azioni di nullità per violazione o elusione di giudicato, ne attribuisce la cognizione al giudice amministrativo, anche nel caso in cui esse siano promosse a tutela di diritti soggettivi. Essa deroga perciò non alla competenza giurisdizionale del giudice amministrativo a tutela di interessi legittimi, che negli altri casi perciò rimane ferma, ma alla competenza giurisdizionale del giudice ordinario a tutela di diritti soggettivi (come sempre in caso di norme attributive di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo).
[90] Cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 26 giugno 1998, n. 992, il quale mette chiaramente in evidenza che il “petitum” sostanziale del ricorso di ottemperanza temde a far valere non già la difformità dell'atto sopravvenuto rispetto al diritto sostanziale (dovendosi in tal caso esperire l'ordinaria azione di annullamento), bensì la difformità specifica dell'atto rispetto all'obbligo processuale di attenersi esattamente all'accertamento contenuto nella sentenza da eseguire.
[91] Su entrambi i profili appena citati, la giurisprudenza è stata abbastanza pacifica a partire dalla sentenza dell’11 marzo 1984 n. 6 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.
[92]Cfr. Villata, L’esecuzione del giudicato amministrativo, Milano, 1968; L.Mancini, La responsabilità della pubblica amministrazione per inottemperanza al giudicato amministrativo d’annullamento, in Foro amministrativo - Consiglio di Stato, 2003, 3708.
[93] Si tratterà, nella maggior parte dei casi, di un danno da ritardo (ma anche da perdita definitiva del bene, conseguente all’inadempimento) nell’adempimento della statuizione contenuta nel giudicato, e la cui fonte di responsabilità è di tipo contrattuale, per violazione dell’obbligo scaturente dal giudicato stesso.
Cfr. anche L.Mancini, La responsabilità della pubblica amministrazione per inottemperanza al giudicato amministrativo d’annullamento, in Foro amministrativo: Consiglio di Stato, 2003, 3709.
Cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 6 ottobre 2003, n. 5820.
[94] Consiglio Stato, sez. VI, 8 marzo 2004, n. 1080, secondo cui una domanda di risarcimento dei danni è proponibile in sede di ottemperanza solo per i danni da violazione di giudicato ossia per i danni maturatisi dopo l'annullamento, mentre, quanto ai danni già subiti (per perdita di chance) per effetto dell'attività amministrativa oggetto del giudizio di annullamento, non può dubitarsi circa la necessità di un'apposita domanda da spiegarsi nel processo di primo grado.
Su quest’ultimo diverso aspetto, relativo alla proponibilità della domanda di risarcimento del danno per la prima volta nel giudizio di ottemperanza, si veda C. Taglienti, Il risarcimento del danno nel diritto amministrativo, T.A.R., 2003, 12, 595: …il comma 2 del citato art. 35 prevede un diretto collegamento tra giudizio di cognizione e giudizio di ottemperanza, nel caso in cui sia necessario determinare la somma dovuta a titolo di risarcimento, stante il disaccordo delle parti sull’applicazione dei principi stabiliti dal giudice per la quantificazione del danno. Proprio da tale disposizione un primo orientamento ha tratto spunto per affermare l’inammissibilità della domanda risarcitoria per la prima volta in sede di ottemperanza . Ma in primo luogo è necessario fare chiarezza su quale sia il giudizio di ottemperanza sul quale si discute: quello previsto dal citato art. 35 comma 2 è uno specifico giudizio di ottemperanza in relazione alla domanda di risarcimento del danno; altra questione è il giudizio di ottemperanza relativo al giudicato formatosi sulla domanda principale, (ed anche il giudizio di ottemperanza «ordinario» sulla sentenza di condanna al risarcimento con quantificazione del danno). In ogni caso tuttavia è sempre necessario un previo giudizio di cognizione sull’an, sia perché nella speciale procedura dell’art. 35 comma 2 il giudice deve dettare i criteri in base ai quali operare la quantificazione in sede di ottemperanza, oltre evidentemente ad aver effettuato un giudizio sul diritto al risarcimento, sia perché il giudicato deve contenere anche una pronuncia sul risarcimento per poter operare una esecuzione anche sotto tale profilo. L’orientamento opposto si basa sul fatto che la domanda di risarcimento (per equivalente) è necessariamente subordinata alla verifica, in sede di ottemperanza, di una esecuzione del giudicato più ampiamente satisfattiva degli interessi del ricorrente tramite una tutela ripristinatoria che escluderebbe alla radice la produzione di un danno patrimoniale; del resto, si dice, anche il giudizio di ottemperanza è connotato da una fase di cognizione e nella fattispecie si realizzerebbe una sorta di giudicato a formazione progressiva. Una posizione intermedia è stata recentemente espressa dal Consiglio di Stato (allude a V Sez. 6 agosto 2001 n. 4239; VI Sez. 18 giugno 2002 n. 3332; IV Sez. 7 novembre 2002 n. 6078, in Cons. Stato 2001, I, 1761; 2002, I, 1316; 2002, I, 2450) che ammette la proposizione della domanda risarcitoria per la prima volta in sede di ottemperanza, purché in primo grado, onde sia rispettato il principio del doppio grado, e nel rispetto del contraddittorio. In sostanza si ammette una domanda cumulativa che investa il giudice sia della questione cognitoria sul risarcimento del danno che quella di esecuzione della sentenza sulla domanda principale; ma i principi processuali sul ricorso di cognizione devono essere rispettati: doppio grado e contraddittorio. In definitiva il problema è di compatibilità tra due riti diversi, in quanto il ricorso per risarcimento è giudizio ordinario, con sue regole processuali che non si riscontrano nel processo per ottemperanza; ma che spesso il risarcimento non possa che venir dopo la verifica di una parziale o impossibile ottemperanza è pure innegabile. I passaggi processuali ordinari: giudizio di annullamento-ottemperanza-giudizio risarcitorio-ottemperanza vengono dalla giurisprudenza accorciati, unificando nell’ambito di un unico giudizio di ottemperanza anche la cognizione sul risarcimento; ciò, in definitiva, è stato ritenuto possibile, purché vengano rispettate in tale processo le maggiori garanzie dettate per il giudizio di cognizione. Cosa che, tuttavia, non rende il giudizio sul risarcimento del danno un giudizio di esecuzione.
[95] Cfr.Trimarchi Banfi, Tutela specifica e tutela risarcitoria degli interessi legittimi, Torino Giappichelli, 2000.
Tuttavia, più recentemente anche la dottrina si è manifestata dello stesso avviso della giurisprudenza.
Vedasi L.Mancini, La responsabilità della pubblica amministrazione per inottemperanza al giudicato amministrativo d’annullamento, in Foro amministrativo: Consiglio di Stato, 2003, 3714.
[96] Sull’unitarietà della giurisdizione del giudice amministrativo sui ricorsi per l’ottemperanza ai giudicati di qualsiasi giudice, anche speciale, vedasi Consiglio di Stato, ad. Plenaria, n.11/1990 (precedentemente già nella ad. Plenaria n. 43/1980) secondo cui l'esecuzione del giudicato dei giudici diversi dal giudice amministrativo è di competenza dei T.A.R. quando l'autorità chiamata a conformarsi al giudicato medesimo sia ad attività infraregionale, del Consiglio di Stato negli altri casi
[97] Cosa che fino ad oggi sembrava esclusa dalla giurisprudenza.
Si veda Consiglio Stato, sez. IV, 3 aprile 2001, n. 1949, secondo cui, per effetto della norma introdotta dal comma 2 dell'art. 10 l. 21 luglio 2000 n. 205, il giudizio di ottemperanza al giudicato della Corte dei Conti deve essere proposto innanzi allo stesso giudice contabile che ha emesso la sentenza.
[98] L.Mancini, La responsabilità, cit., 3714; Caringella, Corso di diritto processuale amministrativo, Milano, 2003, 769.
[99] L.Mancini, La responsabilità, cit., 3719.
[100] Diverso è il problema relativo alla possibilità di chiedere per la prima volta in sede di ottemperanza il risarcimento del danno consequenziale all’attività amministrativa provvedimentale ante causam.
Anche su tale profilo, ultimamente, tuttavia, vi sono aperture della giurisprudenza in ordine all’ammissibilità di tali azioni in sede di ottemperanza.
[101] Sulle differenti intensità che può assumere l’obbligo di conformazione, L. Mancini, La responsabilità della pubblica amministrazione per inottemperanza al giudicato amministrativo d’annullamento, in Foro amministrativo: Consiglio di Stato, 2003, 3711.
[102] Sullo stretto legame tra effetto di ripristinazione e risarcimento del danno nella fase dell’ottemperanza, cfr. Travi, l’esecuzione della sentenza, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di Cassese, Milano, 2003, 4620
[103] Sulle varie tesi si rinvia a Caringella, Corso di diritto amministrativo, Milano, 2004, 1733 e seg.; A. Bartolini, La nullità del provvedimento nel rapporto amministrativo, Torino, 2002, 345 e seg,
[104] Per una rassegna è sufficiente rinviare a A. Bartolini, La nullità del provvedimento nel rapporto amministrativo, Torino, 2002, 356.
Si veda anche V. Cerulli-Irelli, Osservazioni generali sulla legge di modifica della l. n. 241/90 – 5. puntata, in giust-amm, 2005, 5: Invero, questa posizione, già da molto tempo criticata in dottrina, non appare più condivisibile; e la nuova norma d’altra parte la supera positivamente, laddove espressamente prevede la fattispecie della nullità degli atti amministrativi senza spostare il riparto della giurisdizione. Che azioni di nullità davanti al giudice amministrativo, almeno da questo momento, siano senz’altro esperibili è perciò da ritenere un dato pacifico.
[105] Su tale giurisprudenza e sugli interventi della Corte Costituzionale che hanno ricondotto ai principi costituzionali di effettività della tutela anche gli strumenti cautelari del GA, si rinvia a Landi e Potenza, Manuale di diritto amministrativo, 8^ ed., Milano, 1987, 858.
[106] Tale opinione è invece sostenuta da A. Bartolini, La nullità del provvedimento nel rapporto amministrativo, Torino, 2002, 360 e seg.; e da Caringella, Corso di diritto amministrativo, Milano, 2004, 1733 e seg.; in tal senso anche V. Cerulli-Irelli, Osservazioni generali sulla legge di modifica della l. n. 241/90 – 5. puntata, in giust-amm, 2005, 5: Sul punto, si debbono distinguere i casi in cui il provvedimento amministrativo affetto da nullità sia lesivo di situazioni di diritto soggettivo, nei quali casi, come sopra s’è accennato, la tutela resta in capo al giudice ordinario (non producendosi l’effetto di degradazione); dai casi in cui il provvedimento affetto da nullità sia lesivo di situazioni di interesse legittimo. Chè, in tali casi, la giurisdizione, in assenza di specifica norma modificativa del sistema di riparto, non può che spettare al giudice amministrativo.
[107] Cfr. Caringella, Corso di diritto amministrativo, Milano, 2004, 1733 e 1734.
[108] Il criterio di riparto in base all’esistenza del potere autoritativo è presente difatti nell’elaborazione della figura della carenza di potere, ad opera della Cassazione , sin dal leading case di Cassazione, sez. unite, 4 luglio 1949, n. 1657. Cfr. A. Patroni Griffi, Commento a Consiglio di Stato, ad. Plen. 14 giugno 1930, n.1, in Le grandi decisioni del Consiglio di Stato, a cura di Pasquini e Sandulli, Milano, 2001, 169 e seg.
La forza conformativa del potere pubblico verso le posizioni giuridiche, poi, è anche fondamento della cd. teoria dei diritti affievoliti (Consiglio di Stato, ad. Plen. 14 giugno 1929, n.2) e dell’orientamento del Consiglio di Stato, secondo cui, sia a fronte di atti autoritativi discrezionali sia a fronte di atti autoritativi vincolati, sussiste comunque la giurisdizione del giudice amministrativo (Consiglio di Stato, sez.V, 7 febbraio 1948, n.94; Consiglio di Stato, sez. IV, 23 aprile 1947, n.121).
Si sono già ricordati i motivi per cui la teoria dell’affievolimento non è ammissibile.
[109] La sentenza risulta autorevolmente estesa dal Primo Presidente.
[110] Di fatto, con il concordato, il giudice ordinario aveva definitivamente perso il potere di disapplicare gli atti amministrativi, anche se incidenti direttamente sulla posizione giuridica di diritto soggettivo, che pure poteva probabilmente ricavarsi dalla lettera dell’articolo 4 della legge abolitrice del contenzioso. Si è anche avuta l’impressione che il giudice della giurisdizione possa essere mosso da fini di politica giudiziaria, teso cioè a non perdere potere in merito alle vicende amministrative. Cfr. R. Caranta, L’inesistenza dell’atto amministrativo, Milano, 1990, 178 e seg.; A. Bartolini, La nullità del provvedimento nel rapporto amministrativo, Torino, 2002, 21.
E’ certo comunque che un giudice della giurisdizione a composizione mista, come in ordinamenti simili al nostro, darebbe maggiore stabilità alle decisioni in materia.
[111] Landi e Potenza, Manuale di diritto amministrativo, 8^ ed., Milano, 1987, 658.
[112] A. Bartolini, La nullità del provvedimento nel rapporto amministrativo, Torino, 2002, 180 e seg, ci prova attraverso l’elaborazione della distinzione tra norme imperative categoriche ed ipotetiche, che sostanzialmente presenta gli stessi pregi e difetti della distinzione tra norme di azione e norme di relazione di Gucciardi , Norme di relazione e norme d' azione : giudice ordinario e giudice amministrativo, in Giur. it., 1951, III, 55
[113] Caringella, Corso di diritto amministrativo, Milano, 2004, 1712.
[114] Per le varie ipotesi collocabili nell’ambito della figura della carenza di potere, vds Caringella, Corso di diritto amministrativo, Milano, 2004, 1682 e seg.
[115] Vedasi V. Cerulli-Irelli, Osservazioni generali sulla legge di modifica della l. n. 241/90 – 5. puntata, in giust-amm, 2005, 2: A partire da una serie di decisioni assai note del 1992 (Cons. St., ad. pl. n. 1, 2, e altre del 1992) la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha iniziato una nuova fase, secondo la quale, almeno in alcuni casi, le prescrizioni legislative circa la nullità di atti amministrativi vadano intese come ipotesi di vera e propria nullità “intesa in senso civilistico e pertanto imprescrittibile, insanabile e rilevabile d’ufficio”. A questa ipotesi sicuramente si ascrive quella già menzionata di cui all’art. 3 del T.U. (“l’assunzione agli impieghi senza il concorso prescritto per le singole carriere è nulla di diritto e non produce alcun effetto a carico dell’amministrazione”); e di recente, sicuramente vanno ascritte alla categoria le ipotesi previste dalla L. prorogatio (D.l.vo n. 444/1994). E ipotesi di nullità, a prescindere da singole disposizioni di legge, vengono riscontrate dalla giurisprudenza, negli anni più recenti, a proposito di atti adottati in elusione del giudicato (ad esempio, Cons. St., IV, n. 1001/2000; V, n. 1231/1996). Tale nullità, che la giurisprudenza estende anche agli atti elusivi delle sentenze di primo grado non sospese, opera nei casi in cui, come dice la giurisprudenza “l’atto si pone integralmente in contrasto con il precedente giudicato, e non anche quando l’atto si sorregge su una pluralità di ragioni giustificatrici” (ad esempio, Cons. St, V, n. 494/1993); segnatamente laddove secondo le statuizioni della sentenza da eseguire, “residui all’amministrazione un potere discrezionale”. Possiamo dunque affermare, che pur nel silenzio delle leggi, a parte le ipotesi singolari sopra ricordate, la categoria della nullità degli atti amministrativi sia già entrata da tempo nel contesto del nostro ordinamento; per la via, come di consueto, dell’interpretazione giurisprudenziale. La nuova norma recepisce nella sostanza questi orientamenti, trasformandoli in prescrizioni legislative; e perciò dando luogo a molteplici conseguenze di ordine positivo.
[116] Sulla differenza tra la tesi pubblicistica e quella privatistica della nullità e su quella tra nullità strutturale, testuale e virtuale, vedasi Caringella, Corso di diritto amministrativo, Milano, passim.
[117] Solo la tesi pubblicistica, infatti, accorda rilievo in termini di riparto di giurisdizione ai vizi del provvedimento: nullità o inesistenza al giudice ordinario e annullabilità al giudice amministrativo.
[118] Cfr. R. Galli, Corso di diritto amministrativo, Padova, 1994, 511.
[119] Vedasi V. Cerulli-Irelli, Osservazioni generali sulla legge di modifica della l. n. 241/90 – 5. puntata, in giust-amm, 2005, 3: Circa le specie di vizi che producono la nullità, la prima di esse (mancanza di elementi essenziali) ricalca ovviamente il codice civile che, come noto, all’art. 1418, 2° comma, stabilisce la nullità del contratto per la mancanza di uno dei requisiti stabiliti dal codice all’art. 1325. Questo richiamo è da intendere del tutto condivisibile e vorrei dire anche pacificamente ammesso (v. ad esempio, Cons. St., VI, n. 948/99); nel senso che il provvedimento privo di oggetto o privo di forma, quando essa è prescritta, è sicuramente una fattispecie ascrivibile alla categoria degli atti giuridici affetti da nullità. Anche se si tratta di patologia del tutto trascurata dalla nostra dottrina e quasi priva di riscontri in giurisprudenza (si potrebbe dire, casi di scuola).
[120] Caringella, Corso di diritto amministrativo, Milano, 2004, 1714.
[121] Queste due ipotesi erano prima entrambe accomunate nella figura giurisprudenziale della carenza di potere.
Cfr. R. Galli, Corso di diritto amministrativo, Padova, 1994, 510 e seg.: …la carenza di potere…rileva allorquando il provvedimento è emesso sulla base di un potere che l’ordinamento legislativo non ha attribuito a nessun organo nonché nell’ipotesi in cui l’autorità emani un atto inerente ad una materia totalmente estranea al suo settore.
[122] Che il difetto di attribuzione sia stato inteso dalla legge come difetto assoluto di competenza, lo si desume anche dai lavori preparatori.
Cfr. l’intervento di Giacomo Garra nelle dichiarazioni di voto finale al progetto A.C. 6844: Notevoli le innovazioni che vengono dettate in tema di nullità (mi riferisco all'articolo 8). Una particolare sottolineatura desidero dare alla fattispecie prevista dalla lettera b) dell'articolo 8; mai finora era stata prevista una ipotesi di nullità per il caso di atto amministrativo adottato da un ente pubblico locale incompetente per territorio. Tale innovazione rispecchia un orientamento giurisprudenziale che nasce in un certo senso ad una mia sentenza emessa nei lontani anni ottanta.
Tutto ciò per evitare, ad esempio, che un sindaco di un comune viciniore (è accaduto in tema di concessioni edilizie) rilasci furbescamente una concessione per un terreno che magari è al confine ma che sicuramente va anche oltre.
Conclusivamente, in Commissione affari costituzionali l'iter della proposta di legge al nostro esame è stato caratterizzato da uno spirito costruttivo. L'opposizione ha potuto dare il massimo apporto alla formulazione del testo, quale risulta anche dagli emendamenti a suo tempo votati in Commissione.
È doveroso che si esprima al presentatore della proposta di legge, onorevole Cerulli Irelli, un convinto apprezzamento per la sua iniziativa legislativa.
[123] Cassazione civile , sez. un., 18 marzo 2004, n. 5536, secondo cui, in virtù dell’articolo 386 c.p.c., la giurisdizione del giudice si determina in base alla domanda e, ai fini del suo riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo, rileva non già la prospettazione delle parti, bensì il “petitum” sostanziale, che va identificato non solo e non tanto in funzione della concreta statuizione richiesta al giudice, ma anche e soprattutto in funzione della “causa petendi”, ossia della intrinseca natura della posizione soggettiva dedotta in giudizio e individuata dal giudice stesso con riguardo ai fatti indicati a sostegno della pretesa avanzata in giudizio. Cfr. A. Romano, Comm. breve alle leggi sulla Giustizia Amministrativa, Padova, 2001, 30 e seg.
[124] In tal senso giova richiamare ulteriormente le affermazioni contenute in Consiglio di Stato, IV Sez., sentenza n. 1109 del 17 marzo 2005: Il riferimento - contenuto nella sentenza n. 204/2004 - alla necessità di un collegamento con l’esercizio del potere per poter giustificare una previsione di giurisdizione esclusiva non può che essere inteso - ad avviso del Collegio - come indicativo della volontà del giudice costituzionale di ricondurre nell’alveo dell’attività provvedimentale in senso ampio anche l’attività materiale esecutiva dei provvedimenti amministrativi (ancorché illegittimi), limitando la declaratoria di incostituzionalità alle sole ipotesi di giurisdizione esclusiva in cui il comportamento materiale della pubblica amministrazione è assunto in totale carenza di potere e cioè con modalità del tutto estranee all’esercizio del potere autoritativo.
[125] T.A.R. Puglia Bari, sez. II, 30 ottobre 2003, n. 4007; T.A.R. Puglia Bari, sez. II, 4 luglio 2003, n. 2760; T.A.R. Puglia Bari, sez. I, 5 maggio 2003, n. 1886.
[126] Ad es., T.A.R. Campania Salerno, sez. II, 12 giugno 2001, n. 865.
[127] Per una condivisibile critica a tali escamotages, anche se con riferimento alle sentenze dichiarative della nullità del provvedimento amministrativo, vedasi A. Bartolini, La nullità del provvedimento nel rapporto amministrativo, Torino, 2002, 362 e seg,
[128] Vedasi V. Cerulli-Irelli, Osservazioni generali sulla legge di modifica della l. n. 241/90 – 5. puntata, in giust-amm, 2005, 3: l’inesistenza non è una categoria positiva, ma è una categoria di teoria generale; ed indica i casi in cui in un determinato fatto o fenomeno della realtà non è ravvisabile un atto giuridico o quantomeno un atto giuridico ascrivibile alle categorie di cui si tratta (salvo che non si tratti di casi di possibile conversione, ai sensi dell’art. 1424, cod. civ.). L’atto, com’è stato detto dalla dottrina, in tali casi non è riconoscibile come tale anche nella sua apparenza esteriore e perciò resta allo stato di fatto giuridicamente irrilevante. Ovviamente la categoria è applicabile nel settore degli atti amministrativi i quali come atti giuridici, prima di potere essere predicati in termini di validità, invalidità, debbono potere essere identificati in quanto tali.
[129] Similmente al diritto privato, ove il negozio di attuazione consiste in un comportamento negoziale con il quale il soggetto realizza direttamente il risultato cui è diretta la sua volontà ed esaurisce il proprio intento. Cfr. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile italiano , rist., Napoli, 1970, 136.
[130] Cfr. V. Cerulli-Irelli, Osservazioni generali sulla legge di modifica della l. n. 241/90 – 5. puntata, in giust-amm, 2005, 7: Occorre perciò che la giurisprudenza faccia fronte in assenza di specifica disciplina normativa, ad adattare gli strumenti procedurali esistenti alle esigenze di quel tipo di azione (come peraltro essa non si è mai rifiutata di fare a fronte di altre e anche più delicate operazioni di adattamento della normativa vigente).
[131] Sull’applicabilità delle norme di diritto comune processuale e sostanziale nei giudizi di nullità davanti al giudice amministrativo, si veda anche A. Bartolini, La nullità del provvedimento nel rapporto amministrativo, Torino, 2002, 365 e seg,
[132] M. Bianca, Il contratto , Milano, 2000, 624.
[133] Caringella, Corso di diritto amministrativo, Milano, 2004, 1741.
[134] Cfr. A. Bartolini, La nullità del provvedimento nel rapporto amministrativo, Torino, 2002, 387
[135] Cfr. Cass. civ. sez. II, 15.04.2002 n. 5420; Cass. civ. sez. III, 11.01.2001 n. 338, la quale chiarisce che la legittimazione generale all'azione di nullità prevista dall'art. 1421 cc, secondo cui la nullità del negozio può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse e può essere rilevata anche d'ufficio del giudice, non esime l'attore dal dimostrare la sussistenza di un proprio concreto interesse ad agire, con riferimento all'art. 100 c.p.c., non potendo tale azione essere proposta per un fine generale di attuazione della legge e non potendo il giudice rilevare di ufficio la nullità ove la pronunzia di questa non sia rilevante per la decisione della lite.
[136] Vedasi Consiglio di Stato, ad. Plenaria n. 2 del 1992.
Cfr. V. Cerulli-Irelli, Osservazioni generali sulla legge di modifica della l. n. 241/90 – 5. puntata, in giust-amm, 2005, 7: Per quanto riguarda la rilevabilità d’ufficio delle cause di nullità, già la giurisprudenza in molteplici occasioni si era pronunciata in senso favorevole (almeno a partire dalle decisioni dell’Adunanza plenaria del 1992, che si sono ricordate).
[137] A. Bartolini, La nullità del provvedimento nel rapporto amministrativo, Torino, 2002, 389.
[138] Per questi dubbi, tuttavia, vedasi Caringella, Corso di diritto amministrativo, Milano, 2004, 1741.
[139] Cfr. Cass. civ. sez. II, 08.01.2000 n. 123.
[140] Cfr. Cass. civ., 12.12.1986 n. 7402.
[141] Cass. civ. sez. I, 14.03.1998 n. 2772.
[142] Cfr. Cass. civ., 11.03.1988 n. 2398
[143] Sacco, Nullità e annullabilità, in Digesto civ. , XII, Torino, 1995, 305
[144] Caringella, Corso di diritto amministrativo, Milano, 2004, 1738.
[145] La cita Caringella, Corso di diritto amministrativo, Milano, 2004, 1739.
[146] Per una rapida rassegna, vedasi Bartolini, La nullità del provvedimento nel rapporto amministrativo, Torino, 2002, 389.
[147] Vedasi Consiglio di Stato ad. Plenaria n. 6 del 1984.
[148] Vedasi Consiglio di Stato n. 59 del 1992.
[149] Vedasi Bartolini, La nullità del provvedimento nel rapporto amministrativo, Torino, 2002, 379 e seg..
[150] Vedasi Bartolini, La nullità del provvedimento nel rapporto amministrativo, Torino, 2002, 392 e seg..
[151] Vedasi Bartolini, La nullità del provvedimento nel rapporto amministrativo, ibidem.
[152] Sono condivisibili, sotto questo aspetto, le considerazioni di G. Tulumello, Il nuovo regime di atipicità degli accordi sostitutivi: forma di Stato e limiti all’amministrazione per accordi, in www.giustammm.it, 2005, passim.