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Articoli e note

n. 1/2005 - Riportiamo qui di seguito il testo della relazione che, alla presenza del Presidente della Repubblica e delle più alte cariche istituzionali, il Procuratore Generale della Corte dei conti ha svolto, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2005, sullo stato della giurisdizione e dei controlli della Corte dei conti al primo gennaio 2005.
 

VINCENZO APICELLA
(Procuratore Generale della Corte dei Conti)

Relazione sullo stato della giurisdizione
e dei controlli della Corte dei conti al 1° gennaio 2005

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Udienza 18 gennaio 2005

Presidente Francesco Staderini

1. Presentazione.

La cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte dei conti (direi, meglio: del suo anno magistratuale, e non sarebbe una diminuzione), risponde, come è noto, ad una esigenza concreta ben precisa, quella di delineare lo “stato” dell’Istituto, così come questo oggi si realizza nel naturale evolversi dell’Ordinamento, in quel sistema di bilanciamento di funzioni su cui poggia la nostra democrazia e che, più particolarmente, discende da imperativi precetti della Costituzione della Repubblica. Ciò, peraltro, rientra nella logica astratta, e direi nella filosofia, che regge le generali, non necessariamente scritte, regole del buon governo: questo, infatti, non potrà essere assicurato se non attraverso l’equilibrio dei poteri di direzione politica, del funzionamento delle strutture amministrative, della presenza di organi di controllo e, nelle varie materie, delle giurisdizioni.

In questo quadro, la Corte dei conti si colloca come un organo che è posto a garanzia del corretto svolgimento dell’attività finanziaria dei pubblici poteri, nel rigoroso rispetto della loro autonomia e, quindi, dell’esercizio della loro discrezionalità. Pertanto, la Corte si è sempre proposta non come “potere”, ma come organico strumento posto al servizio non solo dello Stato, ma della Repubblica nelle sue articolazioni.

L’esperienza di sempre, ma specialmente quella di questi ultimi anni, ci ha reso consapevoli di quanto sia arduo, spesso ingrato e talvolta incompreso questo compito, ma anche quanto esso sia essenziale. Lo è ancor di più se si considera che la Corte, con le sue funzioni di controllo e giurisdizionali, segue e in concreto collauda, sin dal momento in cui sono introdotte, le mutazioni costituzionali e legislative dell’Ordinamento.

Al riguardo, sono grato al Signor Presidente della Repubblica di aver parlato in un suo recente messaggio ad un convegno di studi, di “essenzialità”, riferendosi appunto alla Corte dei conti.

2. Quadro generale del controllo.

         L’anno appena trascorso, iniziato in una situazione di annosa stagnazione e di affanni contabili, ha mostrato, nei suoi ultimi mesi, qualche promettente segno di ripresa dell’economia e di consolidamento dei conti dello Stato, accompagnato e favorito da una rigorosa politica di bilancio tesa al contenimento della spesa pubblica; ciò anche in adempimento dei nostri obblighi europei, resi moralmente più cogenti dalla recente firma, avvenuta a Roma, dello statuto della comunità continentale.

Tale politica di bilancio si è concretizzata, alla fine del primo semestre del 2004, in alcuni interventi del Governo finalizzati ad assicurare una riduzione dell’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni, in modo da evitare, nel 2004, il superamento della soglia del 3% del PIL. E’ stato così approvato il D.L. 12 luglio 2004, n. 168, convertito nella legge 30 luglio 2004, n. 191, recante “Interventi urgenti per il contenimento della spesa pubblica”, sui cui effetti la Corte ha espresso il proprio avviso in occasione dell’audizione sul documento di programmazione economica e finanziaria dello scorso agosto.

         Tra le norme previste dal predetto provvedimento, numerose sono quelle che incidono, più o meno direttamente, sull’attività e sulle funzioni di controllo intestate alla Corte dei conti.

         Mi riferisco, in primo luogo, alle disposizioni in materia di acquisto di beni e servizi tramite convenzioni Consip (art. 1, comma 4, del decreto) e a quelle in materia di riduzione della spesa per consulenze, commissioni, rappresentanza e convegni (art. 1, commi 9 e 10). Ed ancora, deve essere ricordata la norma che impone alle strutture di controllo di gestione degli enti locali di inviare i propri referti alla Corte dei conti (art. 1, comma 5). Una previsione, quest’ultima, che rafforza quel circuito virtuoso dei controlli, esterni ed interni, che si fonda su un disegno ordinamentale che vede affidato alla Corte anche il compito di valutare l’affidabilità del controllo interno ed il potere di utilizzarne strumentalmente le conclusioni.

         Tali interventi normativi di contenimento della spesa riguardano sia le amministrazioni statali, sia quelle regionali e locali.

         Su quest’ultimo fronte, la Corte dei conti è stata chiamata, peraltro, ad un impegno particolare: la legge 5 giugno 2003, n. 131, di attuazione della riforma costituzionale del 2001, ha infatti introdotto modificazioni profonde nella disciplina delle attività di controllo e di referto della Corte dei conti nei confronti di comuni, province, città metropolitane e regioni, potenziando in modo significativo i compiti delle sezioni regionali di controllo.

         Ciò nell’organico assetto, su cui in passato più volte ho insistito, di una Corte unitaria, la quale riferisce al Parlamento sul rispetto complessivo degli equilibri di bilancio da parte di tutti gli enti di autonomia ed effettua, attraverso le sue sezioni regionali di controllo, istituite in ogni capoluogo di regione, verifiche, sia finanziarie che sulla gestione amministrativa, nei confronti di tutti gli enti territoriali; controlli questi finalizzati a garantire il rispetto delle regole contabili e dei vincoli di bilancio nazionali e comunitari, nonché a collaborare con le Amministrazioni controllate nel conseguimento di più elevati livelli di efficienza ed economicità. Ed è proprio la sua collocazione, ad un tempo centrale e decentrata, quella che consente alla Corte dei conti l’utilizzo di criteri uniformi nel controllo, nonché l’uso ampio di quel metodo comparativo che è l’essenza stessa del controllo sulla gestione. Infatti, tale controllo ha un senso proprio in quanto si fonda sulla comparazione di “performances” e sul confronto fra metodi operativi seguiti nelle diverse realtà.

         Al riguardo, nel discorso di inaugurazione dello scorso anno giudiziario, ho dato contezza di come, con particolare tempestività, la Corte, pur nelle ristrettezze del suo bilancio, si sia mossa per indirizzare la propria struttura organizzativa periferica alla finalità di raccordare l’attività di controllo di competenza di ciascuna sezione regionale con le funzioni, da svolgersi a livello centrale, di referto generale sulla finanza statale, regionale e locale, i cui esiti, necessariamente collegati ai risultati delle analisi effettuate in sede periferica, sono destinati al Parlamento nazionale.

         E’ sorta, difatti, per l’Istituto, l’esigenza di individuare uno strumento organizzativo in grado di assicurare tale raccordo attraverso un coordinamento agevole ed efficace, nel rispetto dell’autonomia delle singole sezioni regionali; nel contempo – e per quanto attiene segnatamente ai controlli sulla gestione – si è reso necessario individuare una sede di coordinamento atta ad assicurare la definizione di metodologie e linee comuni di indirizzo nel controllo, soprattutto per conseguire quei raffronti e quelle comparazioni che devono contraddistinguere le indagini comuni a più sezioni.

         Tale strumento organizzativo e tale sede di coordinamento sono stati individuati nella Sezione delle Autonomie, definita dalla norma “espressione delle sezioni regionali di controllo”, attraverso la quale le funzioni di referto al Parlamento sugli equilibri generali della finanza regionale locale e quelle di coordinamento vengono ad assumere una precisa valenza fondata su “scelte condivise”.

         Nel descritto quadro normativo, particolarmente complesso, si colloca il controllo, sia quello di natura finanziaria, sia quello sulla gestione, che la Corte dei conti è chiamata a svolgere nei confronti degli enti locali. Come già osservato lo scorso anno, è però impensabile che il nostro Istituto, con le sue attuali strutture, possa svolgere un’attività di verifica seria e puntuale su tutti gli enti locali, considerato che soltanto i comuni sono oltre 8.000. Le funzioni delle sezioni regionali dovranno, quindi, trovare una conformazione tale da potersi avvalere dell’opera degli organi interni di controllo e di revisione contabile di quegli enti. L’attività di questi organi interni dovrà, da una parte, trovare ispirazione nei criteri e nelle linee guida stabiliti, in modo uniforme e coordinato, dalle sezioni regionali di controllo e, dall’altra, essi avranno il compito di segnalare quelle anomalie e, in genere, quei profili di criticità che, nei casi di maggiore gravità, potranno formare oggetto di intervento diretto da parte delle competenti sezioni regionali di controllo.

         Peraltro, questo disegno normativo, appena abbozzato nelle disposizioni contenute nella legge n. 131 del 2003, potrà dispiegarsi in una più completa ed organica disciplina soltanto attraverso il coerente esercizio della delega legislativa, per la revisione dell’ordinamento degli enti locali, prevista dall’art. 2 della medesima legge 131. Sulla necessità ed urgenza di tale intervento, mi permetto di richiamare nuovamente l’attenzione delle Autorità del Governo e, in particolare, del Ministro dell’Interno, al quale è da tutti riconosciuta una particolare sensibilità su queste tematiche.

         Da parte sua, sin da ora, la Corte dei conti, attraverso la Sezione delle autonomie, adempie ai propri compiti di coordinamento delle sezioni regionali: sono stati già approvati gli indirizzi e i criteri generali per l’attività di referto finanziario annuale sul rendiconto delle Regioni e quelli per le indagini sulle gestioni comuni a più sezioni regionali (per il 2004 il settore individuato è quello dell’edilizia residenziale pubblica), nonché le linee guida per il coordinamento delle metodologie finalizzate alle rilevazioni sul funzionamento dei controlli interni di Regioni ed enti locali. Sono state, inoltre, fornite alle medesime sezioni regionali indicazioni sia per uno svolgimento uniforme della nuova funzione consultiva in materia di contabilità pubblica, prevista a favore degli enti di autonomia, dalla già citata legge 131, sia per l’attuazione di alcune delle richiamate norme contenute nel D.L. 168 del 2004.

         Le sezioni regionali di controllo, contestualmente, hanno iniziato ad operare a pieno regime, sia per quanto attiene all’esercizio del controllo di regolarità contabile volto ad agevolare e supportare tecnicamente la funzione di controllo politico esercitata dall’organo rappresentativo dell’ente locale in sede di approvazione del rendiconto, sia per quanto riguarda le attività di controllo sulla gestione amministrativa volte a verificare i modi con i quali le singole amministrazioni si conformano agli indirizzi ed alle direttive programmatiche degli organi di governo.

3. L’attività svolta dalla Corte dei conti nell’esercizio delle funzioni di controllo e di referto nel 2004.

         Nel quadro, ad un tempo normativo e operativo, che ho appena rappresentato, si è svolta, nel 2004, l’attività di tutte le Sezioni del controllo del nostro Istituto.

         Tale attività, globalmente e singolarmente considerata, è stata come sempre svolta con impegno tanto silenzioso quanto costante, così come imposto dalle difficoltà derivate dall’evoluzione normativa della materia e dello stesso Ordinamento della Repubblica.

         I tempi mi impongono di rinviare il discorso all’ampia documentazione allegata al testo scritto.

         Da tale allegazione emerge la qualità e la quantità del lavoro richiesto, che ha spaziato dall’attività di referto, sempre più di frequente richiesta, anche autorevolmente, dagli organi di governo e parlamentari, alle operazioni di verifica del rendiconto generale dello Stato, dal diuturno impegno delle Sezioni centrali e periferiche del controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato, sugli enti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria, per giungere alle funzioni, che possono definirsi di frontiera, su cui già mi sono soffermato, svolte dalla Sezione Autonomie e dalla Sezione per gli affari comunitari e internazionali.

4. Quadro generale della giurisdizione.

a) Problemi e prospettive di riforma della responsabilità amministrativa.

         E’ ben noto che uno dei nodi maggiormente problematici della giurisdizione finalizzata ad accertare la responsabilità amministrativa per danno all’Erario prodotto dai dipendenti pubblici e da coloro che, secondo l’ordinamento vigente, sono soggetti alla medesima disciplina, è rappresentato dalla difficoltà nella riscossione delle somme determinate nelle sentenze di condanna del giudice contabile.

         Il significativo ammontare di tale tipologia di crediti erariali – che, quando non riscossi, sono riportati come residui nel bilancio dello Stato – è alla base dell’intervento normativo di cui al DPR 24 giugno 1998, n. 260, teso a semplificare e a rendere più efficace l’esecuzione delle decisioni di condanna emesse dalla Corte dei conti.

         Ed invero, l’applicazione di tali nuove disposizioni – che, tra l’altro, hanno affidato il compito della riscossione, piuttosto che alla sola amministrazione del Demanio, alle singole amministrazioni od enti titolari del credito mediante ritenute sui trattamenti economici dei responsabili o attraverso l’iscrizione a ruolo – ha iniziato a produrre qualche effetto, non tale, però, da poter far sperare in una sollecita soluzione del problema. Infatti, perché la situazione possa veramente migliorare occorre, in primo luogo, una maggiore consapevolezza e determinazione dei vertici politici e organizzativi delle varie amministrazioni nell’affrontare il problema che deve qualificarsi come una priorità assoluta, da risolvere anche dotando i competenti uffici delle risorse umane e strumentali occorrenti e potenziando l’attività di vigilanza sui concessionari della riscossione.

         Sussistono, comunque, nell’attività di esecuzione delle sentenze di condanna almeno due limiti oggettivi difficilmente superabili: il primo è costituito dai caratteri propri dei giudizi di esecuzione – ivi compreso l’ordinario diritto civile – che rendono inevitabile un’alea nel recupero delle somme liquidate in sentenza; il secondo limite, che è proprio della giurisdizione contabile, è legato alle modeste risorse finanziarie e patrimoniali di cui, almeno mediamente, dispongono i funzionari pubblici e alle restrizioni al recupero poste dalla normativa vigente, cui si aggiunge la non estensione agli eredi del responsabile del debito risarcitorio, se non nelle ipotesi d’illecito arricchimento del de cuius.

         E’ tempo, in definitiva, che il legislatore ordinario “metta mano” alla regolamentazione dell’istituto della responsabilità amministrativa e ne delinei i caratteri fondanti e unificati, anche attraverso una disciplina processuale completa e coerente che, nel rispetto dei principi costituzionali, tenga conto delle peculiarità proprie del giudizio contabile ed eviti rinvii generici, seppur residuali, tanto al processo civile che a quello penale.

         Nell’attuale assetto ordinamentale e, in particolare, all’indomani dell’organica riforma dei controlli degli anni novanta, è stato prodotto uno sforzo diretto ad adeguare i compiti della Corte dei conti alle esigenze particolari di un’amministrazione pubblica, sì da costituire un fattore dello sviluppo economico che sia più efficiente ed in grado di meglio rispondere ai bisogni della collettività. Ne deriva che la funzione giurisdizionale, per la sua esclusività e con i suoi concorrenti effetti di deterrenza e di punizione dei più gravi illeciti amministrativi causa di danno, costituisce il naturale complemento del sistema dei controlli e l’ultimo baluardo a garanzia del buon andamento dell’Amministrazione. Ma, per essere completamente coerente con la sua natura, la responsabilità contabile deve assumere in modo ancor più preminente, superando le residue incertezze ordinamentali, caratteri pubblicistici che la differenzino sempre più dalla comune responsabilità civile.

         Tale natura pubblicistica dovrebbe essere espressamente affermata in via generale, dando un seguito sistematico ai segnali inequivocabili che, in tal senso, il legislatore stesso ha già dato: se, infatti, si fosse voluto esclusivamente perseguire l’obiettivo del risarcimento pieno ed integrale del danno arrecato alla pubblica amministrazione, non sarebbe stato da gran tempo attribuito alla Corte il potere riduttivo dell’addebito, e neppure sarebbe stata esclusa la solidarietà e la trasmissibilità del danno agli eredi.

         Sembra, dunque, evidente che il legislatore, più che al reintegro – che l’esperienza ha dimostrato, come già ricordato, essere così difficoltoso, se non a volte impossibile – sin dall’inizio mirasse soprattutto ad assicurare, attraverso il timore di incorrere in sanzioni, il rispetto da parte dei dipendenti pubblici delle buone regole di amministrazione.

         La stessa Corte Costituzionale, d’altro canto, ha affermato (sent. 340/2001) che il potere riduttivo attribuito al nostro Istituto deve tenere conto anche delle capacità economiche del soggetto.

         Peraltro, a questa situazione insoddisfacente per il sistema di difesa del pubblico Erario, si affianca uno stato di disagio non solo per il pubblico impiego, ma anche per i vertici di direzione politico-amministrativa dello Stato e degli enti pubblici istituzionali e locali, nonché, ugualmente, degli amministratori delle s.p.a. a partecipazione pubblica, di cui recentemente è stato dichiarato l’assoggettamento alla giurisdizione di responsabilità.

         Questo disagio nasce dal fatto che, al momento di assumere il suo ufficio, il funzionario o l’amministratore sa bene di esporsi doverosamente a vari tipi di responsabilità, quali quella penale, quella disciplinare, quella professionale, e infine, quella amministrativo-contabile. Peraltro, mentre per le prime tre, conosce a priori l’entità della sanzione alla quale in teoria si espone, invece, sempre a priori, non può prevedere l’ammontare della condanna pecuniaria cui, in concreto, potrebbe essere soggetto per responsabilità amministrativa, essendo questa connessa all’entità del “danno” che a lui, eventualmente e occasionalmente, sia pure per colpa grave, accadesse di provocare. Il che, in lui stesso, spesso si traduce in un deleterio “timore di agire”, causa di immobilismo, tanto più che questo danno – come si è detto – può oggi risultare quantificato in somme anche esorbitanti.

         D’altronde, la c.d. “stagione delle riforme” che negli anni novanta ha ridisegnato compiti e struttura della P.A., modulandone funzioni e contenuti sui parametri dell’economicità, efficienza ed efficacia, ha reso ancor più attuale la necessità di stabilire a priori il “castigo in denaro” che già nel 1852, con geniale intuizione, sosteneva il Cavour doversi comminare in ipotesi di “perdite” subite dallo Stato “per colpa di un verificatore o d’un agente delle Finanze”, così preconizzando tutti i successivi dibattiti sulla ripartizione del rischio tra Amministrazione pubblica e proprio dipendente. L’idea del Cavour, successivamente, trovò solo un parziale accoglimento nell’introduzione del già ricordato potere riduttivo accordato al giudice contabile. Tuttavia, malgrado le profonde modificazioni introdotte dalle leggi di riforma del 1994 e 1996, l’esercizio di tale potere riduttivo, appunto perché non definito in sede legislativa, non sempre si è potuto esercitare con riferimento a criteri uniformi e costanti e, quindi, con vero spirito di giustizia.

         In definitiva, nell’ottica della comune azione di risarcimento del danno, non appare più organico l’attuale modo di essere della funzione giurisdizionale della Corte dei conti, che deve, invece, intendersi come di accertamento giudiziale dell’obbligazione risarcitoria erariale, tale, cioè da assicurare, ad un tempo, la necessaria tutela contenziosa dell’Erario e la dovuta garanzia per i dipendenti pubblici.

         Di tutta evidenza si appalesa, pertanto, l’esigenza di una incisiva e mirata rimodulazione della normativa vigente riguardante la responsabilità amministrativa, così da farla rientrare in una logica di ragionevolezza e di proporzionalità. Ciò potrebbe realizzarsi ridisegnando, con legge, più visibili parametri logico-giuridici, ai quali, sin dall’inizio del procedimento, dovrebbe ispirarsi l’azione dei procuratori regionali, quali la natura della violazione dedotta, l’elemento psicologico della colpa grave, quello soggettivo del comportamento e della capacità patrimoniale, quello oggettivo dell’entità della somma rappresentativa del danno, e infine, della pericolosità del soggetto responsabile, con l’adozione peraltro del massimo rigore in caso di dolo.

         In ogni caso, per rendere ancora più coerente l’intento, ormai da anni perseguito dal legislatore, di armonizzare l’istituto della responsabilità per danno con la fondamentale funzione di garanzia del buon andamento dell’amministrazione pubblica che – come detto – la Costituzione assegna alla Corte dei conti, sarebbe di particolare utilità che alla pronuncia di condanna del giudice contabile potessero accompagnarsi, beninteso solo in casi di rilevante gravità, particolari misure sanzionatorie di carattere non patrimoniale, quali, per i pubblici amministratori elettivi, limitazioni anche temporanee del diritto di elettorato passivo, così come, del resto, è stato già dal legislatore previsto in casi di “responsabilità da dissesto” di amministrazioni comunali (art. 81, co. 4 bis, del D. L.vo n. 77 del 1995, come integrato dal D. L.vo n. 342 del 1997).

         Sarà compito del Governo, e in ultimo del Parlamento, stabilire, nell’ambito dei rispettivi poteri di scelta politica, se e in quale misura possa realizzarsi una siffatta riforma, come – del resto – in questi giorni è stato annunciato dall’attuale Ministro della Funzione Pubblica.

b) La responsabilità delle società in mano pubblica.

         Nel discorso di inaugurazione dello scorso anno giudiziario, annunciai, come una grande novità per l’ambito operativo della giurisdizione della Corte dei conti, l’intervento di una allora recentissima pronuncia delle SS.UU. della Corte di Cassazione, l’ordinanza n. 19667 del 22 dicembre 2003, che aveva sancito l’attribuzione al giudice contabile dello jus dicere in materia di responsabilità degli amministratori delle società per azioni a partecipazione pubblica.

         Nel detto mio discorso, ne commentai le motivazioni, sottolineando come la pronuncia avesse giustamente esteso, sino a comprendere zone sino ad allora scoperte di tutela, il sistema di garanzia voluto dalla Costituzione per la corretta gestione della cosa pubblica.

         Con senso di responsabile prudenza, l’anno appena trascorso è stato utilizzato dalla Procura generale della Corte per meditare sull’esatta portata di questa, tanto innovativa quanto attesa, nuova prospettiva della giurisdizione contabile.

         Da tale disamina è emerso un quadro complesso, fatto di molte certezze e di qualche problema di ordine sistematico, prima che operativo.

         Le certezze riguardano principalmente: l’irrilevanza, ai fini del riparto della giurisdizione tra Autorità giudiziaria ordinaria e Corte dei conti, dell’utilizzazione di strumenti privatistici per il conseguimento di finalità pubbliche; il riconoscimento quale necessaria “interpositio legislatoris” per l’applicazione dell’art. 103 della Costituzione, delle norme contenute nelle leggi di riforma n. 20 del 1994 e n. 639 del 1996; la sostanziale limitazione della giurisdizione contabile alle s.p.a. con partecipazione pubblica totalitaria o maggioritaria; la differenziazione concettuale dell’azione di responsabilità amministrativa rispetto alle ordinarie azioni ex art. 2393, ex art. 2393 bis ed ex art. 2395 del Codice civile.

         I problemi emersi riguardano, invece, la definizione, tuttora incerta, del rapporto tra giurisdizione contabile e giurisdizione civile in ordine alle responsabilità degli amministratori delle s.p.a. in mano pubblica. Qualora infatti debba ritenersi tuttora esercitabile l’ordinaria azione societaria avanti al giudice civile, si avrebbe un regime che è stato definito del “doppio binario”. Al riguardo appaiono profilarsi due diverse concezioni. L’una è quella secondo cui, pur nella logica dell’ormai consolidata giurisprudenza espressa nella materia dalla Cassazione, non può non ammettersi che la tutela giurisdizionale dei soggetti societari nei confronti della società o di altri soci per pregiudizi personalmente subiti debba necessariamente trovare la sua collocazione avanti al giudice civile, mentre il P.M. contabile sarebbe legittimato ad agire solo in presenza di un danno subito dalla società, intesa come espressione di una privatizzazione solo formale, ma in realtà soggetto destinato alla realizzazione di un servizio pubblico o all’esercizio di una funzione pubblica.

         Ciò ovviamente, comporterebbe l’esistenza di una diversa legittimazione ad agire.

         Peraltro, affermata così la separatezza tra le due menzionate giurisdizioni, nascerebbero inevitabilmente rapporti di ordine processuale tra i due giudizi, da risolversi, nel caso, secondo i principi generali e secondo le norme sulle sospensioni processuali.

         L’altra è quella che, a parte evidenti ragioni di ordine pratico e di speditezza procedurale (i giudizi civili sono già troppo lunghi), scorge nel nuovo orientamento della Cassazione un valore di riconoscimento del carattere di esclusività della giurisdizione della Corte dei conti, in funzione di garanzia del corretto uso delle pubbliche risorse, quali che siano le forme della loro utilizzazione, e di conseguenza appare addirittura mettere in dubbio la stessa ammissibilità del detto sistema del “doppio binario”.

         Come si vede non mancano i problemi applicativi dell’ordinanza della Corte di Cassazione, ma essi non sembrano insolubili.

         Del resto, sarà la giurisprudenza della Corte dei conti, e, se adita, quella delle SS.UU. della Corte di Cassazione, a sciogliere, con ulteriori puntualizzazioni, i dubbi che dovessero nascere, e ciò nell’ambito delle regole del nostro ordinamento.

c) La giurisdizione contabile nel settore delle regioni.

         Come è noto, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 345 del 28 ottobre scorso, ha riconosciuto la legittimità costituzionale delle norme che assoggettano le regioni alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di responsabilità contabile. La pronuncia dà nuove ragioni alla tesi del carattere esclusivo e unitario della giurisdizione della stessa Corte dei conti, anche al fine di garantire, sul piano nazionale, uniformità di criteri di giudizio.

         Non solo, però. Funzionalmente questo riconoscimento potrà essere utilmente usato anche al fine di garantire quelle regioni che maggiormente contribuiscono all’alimentazione del fondo perequativo, così da evitare che tale loro maggiore impegno economico venga altrove, eventualmente, vanificato con sprechi e cattiva gestione.

         Mi piace ricordare che, in tal senso, si sono espressi autorevoli amministratori regionali.

d) La giurisdizione pensionistica.

         Non posso non indugiare, ora, sulla giurisdizione pensionistica, per l’attenzione che ad essa riserva il cittadino e per l’incidenza finanziaria che la materia ha sulle gestioni previdenziali.

         Ritengo opportuno ricordare, tra le altre significative decisioni rese nell’anno dalla Corte in materia pensionistica, le numerose sentenze, emanate da varie Sezioni regionali e dalla Sezione prima centrale d’appello, le quali, dopo la pronuncia n. 8 del 2003 delle Sezioni riunite, hanno univocamente riconosciuto la spettanza dell’assegno vitalizio di benemerenza agli ebrei discriminati dalle leggi razziali, ritenendo le misure di attuazione della normativa antiebraica, compresi i provvedimenti di espulsione dalle scuole pubbliche, tali da concretizzare una specifica azione lesiva proveniente dall’apparato statale intesa a colpire la persona nei suoi valori inviolabili.

         Inoltre, con la recente sentenza n. 373 del 3 dicembre scorso, la Sezione seconda centrale d’appello, confermando una sua precedente pronuncia (n. 95 del 2002), ha accolto l’appello, proposto dall’Amministrazione (Comando generale della Guardia di finanza) avverso una decisione della Sezione regionale per il Veneto, ed ha statuito che la speciale indennità pensionabile, prevista per il Capo della Polizia, per i Comandanti generali dell’Arma dei carabinieri e della Guardia di finanza e per i Direttori generali degli istituti di prevenzione e pena e per l’economia montana e forestale (articoli 5 della legge n. 121 del 1981 e 11 bis della legge n. 472 del 1987), non può essere inclusa nell’indennità di ausiliaria liquidata ad altri soggetti che rivestano il medesimo grado o la medesima qualifica, senza avere conseguito le predette cariche di vertice. Malgrado le univoche pronunce della Sezione d’appello, l’incertezza giurisprudenziale ancora esistente a riguardo nelle decisioni delle Sezioni territoriali della Corte rende auspicabile, stante il rilievo erariale della questione, un meditato intervento del legislatore, che indichi con chiarezza i termini entro i quali possa essere resa pensionabile l’indennità in parola.

         Circa la oramai annosa questione del cumulo delle indennità integrative speciali, la giurisprudenza della Corte, sulla base dell’assetto normativo  come configurato a seguito delle pronunce di incostituzionalità del giudice delle leggi e  del mancato conseguente  intervento del legislatore, si è consolidata nel senso del diritto alla doppia percezione per i pensionati che prestino anche attività lavorativa retribuita, mentre esiste ancora incertezza di orientamento, nonostante la sentenza n. 14/2003 delle Sezioni Riunite, circa la spettanza del cumulo, integrale ovvero nei limiti del trattamento minimo INPS, per i titolari di più pensioni. Sul punto, si attende a breve una nuova pronuncia della Corte costituzionale (l’udienza risulta fissata per il prossimo 25 gennaio), che si spera dia chiarimenti definitivi.

5. L’attività svolta nell’esercizio della funzione requirente.

 I fenomeni più frequenti di danno erariale.

         Anche nel 2004, le cause più frequenti di illeciti contabili fatti oggetto di istruttoria da parte degli organi requirenti della Corte, con l’ausilio prezioso dell’Arma dei Carabinieri, della Guardia di Finanza e delle Forze di Polizia, e attraverso le talvolta essenziali segnalazioni provenienti dall’autorità giudiziaria, hanno riguardato la materia contrattuale e quella fiscale, dove continua a riscontrarsi una forte evasione, anche per comportamenti colposi e dolosi di pubblici dipendenti e di esattori. Altrettanto frequenti sono stati gli eventi di danno al demanio e al patrimonio pubblico, nella gestione del personale e, specialmente, in quella della sanità. Altre istruttorie hanno riguardato i casi di perdite in materia di cooperazione allo sviluppo. A ben considerare, però, tutti i detti comportamenti, dal punto di vista economico e contabile, producono un’unica, fondamentale figura di danno, quella che comunemente va sotto il nome di “spreco”.

Per quanto riguarda l’attività di vigilanza e di repressione di competenza della Corte, mi basterà ricordare che, sin dal 2000, ogni anno ho pubblicamente e ufficialmente affermato l’assoluta necessità di ridurre al minimo questo antico fenomeno, vera piaga delle nostre amministrazioni pubbliche, in continuo affanno nel perseguimento di risultati contabili che rispettino i vincoli, interni ed esterni di bilancio[1].

         Va apprezzato pienamente, pertanto, il forte impegno assunto dalle autorità di governo, anche in sede di strutturazione della legge finanziaria, al fine di eliminare, nell’indicazione delle spese da effettuare “il troppo e il vano”.

         Peraltro, per uscire dal generico, sento l’obbligo di indicare un modo di “fare amministrazione”, nel quale, anche per l’alto livello di spesa, si annida frequentemente il “troppo e il vano” di cui ho detto. Mi riferisco al fenomeno del conferimento di incarichi e consulenze all’esterno delle strutture amministrative. I dati acquisiti presso il Ministero della Funzione Pubblica, limitatamente peraltro al 2003, sono eloquenti.

         In tale anno, infatti, gli incarichi censiti ai sensi dell’art. 53 del D.L.vo n. 165 del 2001 sarebbero stati poco meno di 200.000, ma si ha motivo di ritenere che, nel 2004, siano ulteriormente aumentati.

         Già, di per sé, la cifra globale di tali conferimenti è impressionante, nel senso che è rappresentativa di un aggravio dei bilanci che sta assumendo dimensioni preoccupanti, pur dopo la lodevole emanazione nell’estate scorsa, da parte dell’allora Ministro Mazzella, di una dettagliata e puntuale circolare, che certamente verrà confermata dall’attuale Ministro.

         In più, il fenomeno, per la sua stessa notevolissima estensione, oltre ad una spesa aggiuntiva a quella già necessaria per l’organizzazione amministrativa, sta producendo un effetto negativo sulle funzioni pubbliche, quello costituito dalla sottoutilizzazione delle strutture, sicché qualche attento osservatore ha parlato di consequenziale, progressivo “disseccamento” della P.A.

         Evidentemente, si è di fronte ad una scelta politica che, almeno apparentemente, suona come sfiducia verso il pubblico impiego e che appare tesa al dichiarato scopo di ridurre le uscite di bilancio. Il che, peraltro, non è sicuro che sempre avvenga, stante il già detto alto costo degli incarichi a soggetti esterni, cui si deve ricorrere. Il solo reale effetto, invece, che appare essersi verificato è quello di un affievolimento delle potestà gestorie delle dette strutture amministrative pubbliche e di una ulteriore riduzione delle assunzioni, con conseguente insorgere di problemi sociali.

         Peraltro, questo modo di governare, che chiamerei “Amministrazione per incarichi”, non è neppure detto che dia sempre risultati positivi in termini di efficienza e di trasparenza, così come molti casi, evidenziati in sede di istruttoria effettuati dalle Procure, stanno a dimostrare, nei quali, al contrario, frequentemente sono emersi episodi di palese inutilità e, persino, casi di sospetto favoritismo.

         Né posso dimenticare come continui ad essere frequente il ricorso, spesso costosissimo, a consulenze e assistenze legali esterne, anche nei casi di doveroso ricorso all’Avvocatura dello Stato.

         Dell’eccesso di incarichi esterni, tuttavia, sembra aver preso coscienza il Parlamento, che, nella già ricordata, ultima legge finanziaria, proposta dal Governo, ha espresso una norma che ha posto un tetto alla relativa spesa e, in più, opportunamente ha stabilito come l’affidamento degli stessi incarichi debba essere adeguatamente motivato, sia consentito soltanto nell’ipotesi di eventi straordinari e, in casi di assenza di presupposto, costituisca illecito disciplinare e in più, determini responsabilità erariale. Per migliore garanzia, infine, il provvedimento, poi, dovrà essere trasmesso alla Corte dei conti.

         E’ un’altra prova questa che il legislatore, con meditata prudenza, ma con precisa scelta politica, sta da qualche tempo indirizzando le funzioni di controllo e giurisdizionali della Corte dei conti verso maggiori compiti di vigilanza e di garanzia, non solo nei riguardi degli uffici centrali della Repubblica, ma anche nei confronti di altri enti dotati di autonomia. Ciò risulta anche dalla già ricordata disposizione di cui al decreto legislativo n. 77 del 1995, diretta a sanzionare con limitazione all’elettorato passivo gli amministratori riconosciuti responsabili, in sede giurisdizionale contabile, del “dissesto finanziario” di enti locali.

         Nella materia, dopo che il giudice delle leggi ha dichiarato la legittimità costituzionale della detta disposizione (ord. n. 319 del 1998), le Procure regionali della Corte hanno aperto istruttorie e, in un caso, è stato già introdotto giudizio di responsabilità. E’ di tutta evidenza, tuttavia, che i nuovi, maggiori compiti attribuiti ai vari uffici della Corte dei conti produrranno un impatto organizzativo al quale doverosamente bisognerà far fronte, confidando in un’adeguata integrazione del bilancio.

Perorazione.

         Come ogni discorso, questo mio di oggi è giunto a quella sua parte finale che gli antichi chiamavano perorazione.

         Mi accingo a pronunciarla con spirito di personale umiltà, ma nella consapevolezza che oggi, nei limiti che mi sono consentiti, rappresento un Istituto di rilevanza costituzionale, un Istituto che quindi, anche per questa sua posizione, è essenziale all’Ordinamento della Repubblica, e, ancor prima e più in astratto, lo è alla realizzazione del “buon governo”.

         Infatti, come le persone, anche gli istituti valgono non tanto per il nome che portano, ma per quello che sono, e ancor di più, per quello che rappresentano e per come lo sanno rappresentare.

         E la Corte dei conti, al di là della sua storia secolare, che in Italia si riallaccia al nome di Cavour, esercita funzioni che, in ogni organismo costituzionale, sono ineliminabili e insostituibili: quella del controllo sulle amministrazioni pubbliche e, l’altra, di vigilanza contenziosa sulla gestione delle relative risorse.

         Queste funzioni debbono certamente essere garantite e tutelate, ma debbono anche, per risultare efficaci, conformarsi al “modo” in cui, secondo la legge e le scelte politiche, si evolve il governo della cosa pubblica. In questo mio discorso, credo di aver ricordato come, negli ultimi anni, questo obbligo di “conformarsi” si stia realizzando e, anche, come, specie nel settore della responsabilità amministrativa, si possa e si debba ancora innovare. L’ho fatto con il doveroso rispetto verso chi, persone e istituzioni, esercitano il potere politico.

         Confido che, nell’interesse della Nazione, rappresentata da una Repubblica che, nella sua Carta fondamentale, si dichiara “una e indivisibile”, tutto questo possa completarsi e, in meglio, modificarsi.

         Lo richiede quel “buon governo” di cui ho parlato e che va realizzato nell’equilibrato integrarsi delle istituzioni, delle funzioni e dei poteri, nella concordia dei cittadini e in un pienamente ritrovato spirito di unità nazionale.

         Signor Presidente, ho l’onore di chiederLe di voler dichiarare aperto l’anno giudiziario della Corte dei conti per il 2005.
 

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[1] Al fine di precisare il concetto di “spreco” anche in termini economici, richiamo l’autorevole corrente di pensiero che lo identifica nell’ “uso scorretto di risorse per la produzione di beni e servizi”; dal che consegue la frustrazione dei bisogni della collettività, deviati quanto a realizzazione, sia nel numero quanto nell’intensità dei benefici erogabili.

Il mondo economico identifica quindi lo “spreco” con l’incapacità di massimizzare le risorse disponibili, mediante il loro ottimale utilizzo, secondo ben noti principi di efficiente allocazione.

Già nel 1748, nell’opera L’esprit des lois, Montesquieu evidenziava – cito testualmente: “i redditi dello Stato, costituiscono una parte dei beni che ogni cittadino dà per avere in cambio la sicurezza dei beni restanti o per goderne agevolmente”; evidentemente, il grande pensatore francese si riferiva anche all’obbligo degli Amministratori pubblici di “spendere bene” le risorse dello Stato, omettendo ogni possibile spreco, ogni evitabile disfunzione ed ancora, ogni costosa degenerazione della gestione, tale da condurre a risultati diseconomici e contrari a conclamati principi di buona amministrazione.

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Documenti correlati:

APICELLA V., Inaugurazione dell’anno giudiziario 2003 della Corte dei conti, in LexItalia.it (www.lexitalia.it) n. 2-2003, pag. http://www.lexitalia.it/articoli/apicella_ag2003.htm

APICELLA V., Relazione di inaugurazione dell'anno giudiziario 2002, in LexItalia.it (www.lexitalia.it) 2002, pag. http://www.lexitalia.it/articoli/apicellav_inaugurazione2002.htm

APICELLA V., Discorso di inaugurazione dell'anno giudiziario 2001, in LexItalia.it (www.lexitalia.it) 2001, pag. http://www.lexitalia.it/articoli/apicellav_inaugurazione2001.htm


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