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n. 5/2007 - © copyright
 

GIANLUCA ALBO e MARCO SMIROLDO
(Magistrati della Corte dei conti)

Un commissario ad acta con poteri praeter constitutionem?

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1. Premessa.

Nella sentenza 5 maggio 2007 (in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/p/71/tarsiciliact4_2007-05-05.htm), la IV sezione del T.A.R. Sicilia - Catania ha ritenuto che “le prescrizioni di cui all’art. 119, comma 6, Cost., che non consentono ai Comuni, alle Province ed alle Regioni di ricorrere all’indebitamento per fare fronte a spese non d’investimento maturate dopo l’8 novembre 2001, non si applicano ai commissari ad acta nominati dal giudice amministrativo in sede di giudizio di ottemperanza ex art. 27 n. 4 del R.D. 26 giugno 1924, n. 1054”.

Per un approccio più diretto con l’articolato motivazionale della decisione in commento, non può tralasciarsi un, seppur sintetico, richiamo al quadro normativo di riferimento.

La iniziale legittimazione per gli enti locali, prevista dall’art. 194, co. 3 D.Lgs 267/00, a ricorrere all’indebitamento per la copertura di debiti fuori bilancio derivanti sia da spese di parte corrente, sia da spese in conto capitale (o di investimento), purché rientranti nelle tipologie di spese contemplate dall’art. 194, co. 1, lett. a-e, D.Lgs 267/00, è stata, successivamente ed esplicitamente, limitata dal legislatore (art. 41 comma 4 l. 28 dicembre 2001 n. 448), per le sole spese di parte corrente, alla copertura dei debiti fuori bilancio maturati anteriormente alla data del 8.11.2001.

Pertanto: l’art. 119, co. 6 Cost, ha statuito il divieto assoluto di indebitamento per spese diverse da quelle di investimento; l’art. 41, comma 4, l. 28 dicembre 2001 n. 448 (l. finanziaria 2002) ha fissato il discrimen temporale all’operatività del divieto costituzionale, ritenendo possibile il ricorso all’ indebitamento per spese diverse da quelle di investimento solo per quei debiti maturati anteriormente al 8.11.2001 (data di entrata in vigore dell’art. 119 Cost., come novellato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3); l’art. 30, comma 15, l. 27 dicembre 2002 n. 289 (l. finanziaria 2003), ha previsto una sanzione pecuniaria, per gli amministratori che hanno deliberato il ricorso al finanziamento per coprire debiti derivanti da spese diverse da quelle di investimento e maturati successivamente alla data del 8.11.2001 [1].

2. La fattispecie concreta.

Il TAR si è pronunciato in sede di giudizio di ottemperanza instaurato dai creditori del Comune di Catania rimasto inadempiente anche dopo l’esecutività del decreto ingiuntivo al pagamento di una somma di denaro avente titolo in una procedura espropriativa definita, anni addietro, consensualmente con la volontaria cessione dell’area e l’accettazione dell’ indennità sulla cui corresponsione, però, l’ ente è rimasto (parzialmente) inadempiente.

Poiché il decreto ingiuntivo, a seguito di giudizio di opposizione conclusosi con esito infausto per il Comune opponente, è divenuto irrevocabile in epoca successiva alla entrata in vigore del divieto costituzionale di indebitamento per spese diverse da quelle di investimento, i giudici amministrativi siciliani si sono correttamente posti il problema della rilevanza sul giudizio al loro vaglio della disciplina costituzionale del novellato comma 6 dell’ art. 119 Cost. che ha posto ferrei argini alla diffusa tendenza degli enti locali di coprire debiti fuori bilancio per spese di parte corrente con il ricorso a mutui.

Non del tutto condivisibili appaiono, tuttavia, le soluzioni offerte dal Tribunale amministrativo etneo.

Possono, in ordine logico, individuarsi due profili meritevoli di riflessione, il primo squisitamente giuscontabilistico, l’altro di più ampio respiro giuspubblicistico:

a) l’area di incidenza del divieto di indebitamento nella fattispecie concreta;

b) poteri del commissario ad acta e gerarchia delle fonti.

3. L’area di incidenza del divieto di indebitamento nella fattispecie concreta.

L’oggetto dell’ottemperanza è costituito da un decreto ingiuntivo per la somma di Lire 41.914.288, oltre interessi dalla data del 29 novembre 1996, nonché gli oneri accessori (spese, competenze , onorari oltre IVA e CPA, per un ammontare complessivo di circa 2 milioni di lire).

Orbene, il divieto di indebitamento non opera per le spese di investimento [2] e tale sicuramente deve considerarsi il corrispettivo per l’acquisizione dell’area, sia perché vicenda derivativa con potenzialità accrescitive del patrimonio dell’ente, sia perché lo stesso legislatore, alla lett. e), comma 18, l. finanziaria 2004, ha esplicitamente annoverato “l'acquisizione di aree, espropri e servitù onerose” tra le operazioni che “Ai fini di cui all'articolo 119, sesto comma, della Costituzione, costituiscono investimenti”.

         Va da sé, quindi, che nella fattispecie concreta il divieto di indebitamento opererebbe solo per la copertura degli interessi e degli altri oneri accessori, spese di parte corrente maturate [3] con la irrevocabilità del decreto ingiuntivo, intervenuta nel 2002 (quindi, successivamente alla entrata in vigore del divieto di indebitamento).

         Il ridimensionamento “quantitativo” delle somme rispetto alle quali acquista rilevanza giuridica l’attribuzione da parte dei Giudici amministrativi catanesi del potere al commissario ad acta di derogare al divieto costituzionale di indebitamento, non scalfisce la portata dirompente dello straordinario potere conferito da un organo giurisdizionale ad un suo organo ausiliario: quello di derogare ad un obbligo di non facere di rango costituzionale posto a tutela di equilibri finanziari dei livelli istituzionali di governo in cui si articola territorialmente la sovranità della Repubblica [4].

4. Poteri del commissario ad acta e gerarchia delle fonti.

Il TAR di Catania ha enunciato in modo chiaro e analitico le ragioni a sostegno del potere conferito al commissario ad acta di derogare al divieto costituzionale di indebitamento, la cui portata i giudici amministrativi dimostrano in motivazione di conoscere molto bene, avendo, sia enunciato le norme di riferimento, sia richiamato gli arresti giurisprudenziali dei giudici contabili (tra cui la sentenza 3198/2006 della Sezione giurisdiz. Sicilia, che aveva condannato proprio amministratori del Comune di Catania al pagamento della sanzione [5] prevista dall’art. 30, co. 15, l.f. 2003 per aver violato il divieto di indebitamento).

Dopo una rassegna di giurisprudenza amministrativa e costituzionale sui poteri del commissario ad acta, correttamente qualificato "longa manus" del giudice nell’attuazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale, il tribunale amministrativo etneo ha soggiunto che “il commissario deve essere ritenuto titolare del potere di emanare i necessari provvedimenti amministrativi anche in deroga alle norme che disciplinano la competenza alla loro emanazione (cfr. Cons. Stato, IV, 18 settembre 1991 n. 720; Cons. Stato, IV, 3 maggio 1986 n. 323) e la stessa attività sostanziale, salvi i casi in cui una norma di legge vincoli espressamente il suo operato, come nel caso del comma 5 dell’art. 159 del D.Lgs. 267/2000”.

Di forte impatto risulta, innanzitutto, l’esordio motivazionale sul contenuto dei poteri ravvisabili in capo al commissario ad acta, il quale, per realizzare il principio di effettività della tutela giurisdizionale, parrebbe legittimato, non solo ad adottare provvedimenti amministrativi in deroga alla disciplina sulla loro competenza, ma anche a determinare il contenuto dei suoi provvedimenti: unico limite l’eventuale sussistenza di norme che vincolino espressamente l’operato del commissario ad acta.

In sostanza, in uno ordinamento regolato dal principio di legalità dell’azione amministrativa (e per non far cenno del principio di tipicità degli atti autoritativi), il commissario ad acta diviene soggetto legibus solutus, salvo un esplicito intervento legislativo che lo riporti nella area comune dei destinatari del principio di obbligatorietà delle norme.

Se così è, ma la motivazione del tribunale amministrativo per la sua chiarezza non dà spazio ad interpretazioni opinabili del suo dictum, sia consentito rilevare come concreto diviene il rischio che sull’altare del principio di effettività della tutela giurisdizionale, prima vittima sacrificale divenga il principio di legalità, primo, ed indefettibile, pilastro dello Stato di Diritto.

Inoltre, individuando come esempio di limite legale all’operato della “longa manus” del giudice amministrativo, il comma 5 dell’art. 159 del D.Lgs. 267/2000 (secondo cui i provvedimenti adottati dai commissari nominati dal giudice amministrativo adito in sede di ottemperanza devono essere muniti dell'attestazione di copertura finanziaria), il TAR di Catania innesta in motivazione un vulnus di illogicità che finisce per travolgere l’ intera struttura argomentativa posta a sostegno dell’ amplissima investitura di poteri al commissario ad acta, compresa l’attribuzione di ricorrere all’ indebitamento anche nei casi in cui per gli enti locali opererebbe il divieto costituzionale.

Infatti, proprio perché i commissari ad acta sono un organo ausiliare del giudice amministrativo, essi devono ritrarre la legittimazione all’esercizio delle loro funzioni da una “norma attributiva del potere” che, disciplinando poteri autoritativi, ne deve delineare i limiti, nonché le condizioni i termini ed i modi d’esercizio: infatti, “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge” (art. 23 Cost.).

In tale contesto opera proprio l’art. 159, comma 5, D.Lgs. 267/2000, le cui previsioni dimostrano che il Commissario ad acta può adottare solo provvedimenti che trovino copertura finanziaria in risorse già presenti in bilancio.

Diversamente opinando, e seguendo l’impostazione del TAR, oltre a violare l’art. 159, comma 5, D.Lgs. 267/2000, si farebbe breccia sul sistema di autonomia, costituzionalmente garantita, dell’ente locale, che attribuisce alla competenza del Consiglio comunale –ossia del massimo organo rappresentativo sul piano democratico della comunità amministrata - le scelte sul ricorso all’indebitamento ed in particolare sulla contrazione dei mutui (art. 42, lett. h), D.Lgs. 267/2000 ).

Appare chiaro, allora, come le soluzioni elaborate dal TAR si pongano in frontale contrasto con la gerarchia delle fonti, e, prima ancora con la logica spicciola ove il più contiene il meno (ma non viceversa), e, quindi, una regola di rango supremo non può che essere derogata da una sopravvenuta regola di pari rango.

Ma anche allorché vengono analiticamente enunciate le ragioni della speciale legittimazione a derogare al divieto costituzionale di indebitamento conferita dal collegio al commissario ad acta, i giudici catanesi, sebbene offrano una articolata ed elegante motivazione, non riescono ad essere giuridicamente convincenti.

Infatti.

I primi due argomenti enunciati dal TAR di Catania, attinendo entrambi a profili soggettivi della problematica, possono essere accomunati e sintetizzati nel seguente sillogismo: a) il commissario ad acta è un organo del giudice e non rappresenta l’amministrazione; b) destinataria del divieto costituzionale di indebitamento è l’amministrazione; c) ergo il divieto di indebitamento non opera per il commissario ad acta che è un ausiliario del giudice.

         Il ragionamento appare impeccabile finché non si fa mente locale agli effetti finali della complessa fattispecie di sostituzione giuridica caratterizzata dall’intervento del commissario ad acta nominato dal giudice amministrativo adito ex art. 27 n. 4 del R.D. 26 giugno 1924, n. 1054: gli effetti giuridici dell’ operato del commissario ad acta ricadono sull’ amministrazione e, quindi, solo l’ amministrazione beneficia delle risorse attinte dal commissario ad acta tramite un indebitamento che all’ amministrazione medesima non sarebbe stato consentito da un divieto costituzionale (la cui trasgressione, tra l’altro, è sanzionata dall’ art. 30, co. 15 l.f. 2003).

In sostanza, l’effetto giuridico finale della condotta del commissario ad acta (il ricorso all’indebitamento) ricade sul soggetto che per divieto legale (rectius: costituzionale) non avrebbe mai potuto beneficiare di quell’effetto.

Ma v’è di più.

Conformandosi all’iter argomentativo della sentenza in esame, agli amministratori di un ente con difficoltà finanziarie, e impossibilitati a coprire con mezzi diversi dal ricorso al mutuo un debito di parte corrente [6] derivante da un giudicato, converrebbe restare inerti innanzi alla pretesa della parte beneficiaria del giudicato, in quanto, la mera inerzia non solo li salvaguarderebbe dal pericolo di irrogazione della sanzione ex art. 30 co. 15 l.f. 2003, per loro operante per il solo fatto di deliberare un ricorso a mutuo non consentito [7], ma consentirebbe, altresì, loro di ottenere la provvista necessaria per onorare il debito, confidando nei poteri del commissario ad acta del giudice amministrativo che prima o poi (secondo l’ id quod plerumque accidit, più prima che poi) sarebbe adito dall’ esasperato creditore.

Né può obiettarsi che l’inerzia degli amministratori li salvaguarderebbe solo dalla specifica responsabilità ex art. 30 co. 15 l.f. 2003, ma non anche dalla responsabilità amministrativa per danno all’ erario, trattandosi di responsabilità eterogenee [8], non alternative, bensì concorrenti.

Il terzo argomento del Collegio etneo è incentrato sulla affermazione di prevalenza del principio di effettività della tutela giurisdizionale (“di cui i commissari ad acta garantiscono la concreta applicazione”), sul principio di parità di bilancio (“ cui è ispirato l’art. 119, comma 6, Costituzione”).

Il giudizio di prevalenza si basa solo sulla considerazione che il principio di effettività è “uno degli elementi fondanti della Stato di diritto”.

 La carenza di qualsiasi bilanciamento di interessi eterogenei aventi titolo in norme di pari rango costituzionale, ed idonee a regolamentare la fattispecie concreta, riguarda l’aspetto qualitativo della motivazione, assolutamente estraneo al presente scritto, volto solo a proporre spunti di riflessione sui principi affermati e sulle possibili conseguenze giuridiche scaturenti dai dicta dal TAR Etneo.

Il richiamo allo Stato di Diritto non può però approdare al - sacrosanto - principio di effettività della tutela giurisdizionale, senza, dapprima, e obbligatoriamente, secondo una notoria sequenza logico-giuridica, passare attraverso il principio di legalità e il principio di separazione dei poteri.

Ed invero, una tutela giurisdizionale effettiva presuppone regole giuridiche di condotta adottate dagli organi attributari del potere normativo, e obbligatorie, salva ovviamente incostituzionalità o contrarietà ai principi comunitari, innanzitutto per i giudici; questi ultimi attributari, invece, del potere di interpretare le regole create dal potere normativo e di affermare la regola del caso concreto sulla base del diritto generale e astratto creato, appunto, dal potere normativo.

In sostanza si può attribuire un potere di derogare ad un divieto costituzionale specifico, se una norma specifica attribuisce detto potere; a ritenere diversamente i giudici verrebbero a dettare la regola del caso concreto senza il presupposto del loro potere, la regola generale e astratta di competenza esclusiva degli organi dotati del potere normativo. [9]

Il quarto e ultimo argomento dei Giudici amministrativi catanesi collega il potere del commissario ad acta di derogare al divieto costituzionale di indebitamento alla necessità di portare ad esecuzione il giudicato per evitare che si venga a creare “..per gli enti debitori una situazione di sostanziale esonero da ogni responsabilità, con conseguente esposizione dello Stato Italiano ad azioni risarcitorie avanti la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, per violazione dell’art. 6.1 del Trattato del 4 novembre 1950”.

Sul punto sia consentito rammentare che la responsabilità per violazione dell’art. 6.1 della Convenzione europea per i diritti dell’ uomo, ricade sullo Stato membro per la irragionevole durata del processo e non perché la parte che ha instaurato il processo non trovi adeguata soddisfazione del suo interesse sostanziale per ragioni imputabili alla controparte (perché ad es. nullatenente).

Si è, infine, già detto, come l’esonero della responsabilità dell’ente appaia più ricollegabile alla circostanza che sia il commissario ad acta a trovare la copertura finanziaria, con forte rischio di deresponsabilizzazione degli amministratori, non solo rispetto allo specifico strumento contemplato dall’ art. 30 co. 15 l.f. 2003 per sanzionare il ricorso all’indebitamento non consentito, ma anche nella delicata fase di predisposizione del bilancio ove si impone una ricognizione dei debiti derivanti dai contenziosi pendenti con conseguente obbligo di allocare le risorse necessarie per farvi fronte.

Non può, infatti, escludersi che “contando” sull’intervento risolutivo del commissario ad acta, gli amministratori preferiscano ridimensionare l’allocazione delle risorse a copertura del contenzioso e preferire cospicui impegni di spesa per operazioni politicamente più redditizie (quali, ad es., consulenze, nomine di esperti, progettazioni, ecc.).

5. Qualche considerazione finale.

 La decisione del TAR etneo, delineando una propria gerarchia tra principi costituzionali, sembrerebbe introdurre una particolare lettura dei rapporti tra principio di legalità ed effettività della tutela giurisdizionale secondo la quale, per garantire il secondo sarebbe possibile anche violare il primo; infatti, per far rispettare la statuizione contenuta nel giudicato “e quindi in definitiva il rispetto della legge stessa (C. cost. 435 del 1995)”, il commissario ad acta sarebbe autorizzato, secondo il giudice amministrativo, a violare principi di fonte costituzionale e legale, ossia lo stesso principio di legalità, la cui fedele attuazione è demandata al potere giurisdizionale, col rischio concreto ossimoro giuridico.

         Peraltro, com’è noto, il principio dell’effettività della tutela giurisdizionale non coincide col concreto realizzarsi del diritto in executivis.

         Invero, garantire una decisione giurisdizionale che attribuisca il bene della vita a chi ne ha diritto in un tempo ragionevole non comporta necessariamente, sul piano logico-giuridico che, in executivis, il creditore soddisfi effettivamente il proprio credito.

         E’ possibile, infatti, che il debitore non sia in bonis, ossia non abbia beni “presenti e futuri” da aggredire con l’azione esecutiva. Per soddisfare il credito l’ufficiale giudiziario non ha il potere di contrarre un mutuo in nome e per conto del debitore solo perché occorre assicurare ad ogni costo l’effettività della tutela giuridica.

         Al riguardo, se è vero che il debitore è responsabile, anche il creditore, nel momento in cui ha posto in contatto la propria sfera patrimoniale con quella del debitore, doveva valutare le possibilità di adempimento di quest’ultimo.

         Tanto è vero che l’art. 1225, c.c. limita il risarcimento del danno a “quello che poteva prevedersi nel tempo in cui è sorta l’obbligazione”, eccetto che nei casi di dolo.

         Operare una commistione concettuale tra i due piani può rivelarsi, quindi, fonte di aporie sistematiche e di forzature interpretative.

         Ricostruire, per esempio, il rapporto tra principi costituzionali in termini di gerarchia, se da un lato non è possibile in ragione della pari forza formale della fonte che pone le norme dalle quali si ritrae il principio, dall’altro lato rappresenta un’operazione ermeneutica che consegna un risultato quantomeno opinabile, poiché un’eventuale prevalenza di un principio sull’altro sarebbe fondata esclusivamente su giudizi di valore.

         In realtà, nessun principio che trovi fonte normativa in una o più disposizioni costituzionali può essere considerato prevalente rispetto ad un altro di medesima fonte, ma deve trovare sistematica composizione con il complesso degli altri principi che trovano espressione nella Costituzione.

Tra questi, anche il principio dell’equilibrio di bilancio (quello del c.d. pareggio è stato da tempo abbandonato col superamento dello Stato liberale e con l’avvento dello Stato sociale di diritto) ha una propria dignità, imponendosi – sul piano della forza formale - come vincolo derivante dall’ordinamento comunitario (art. 117, Cost.) a tutti i livelli di governo territoriale in cui si articola l’unitaria sovranità della Repubblica, quale pilastro dell’unità economica della Repubblica e del coordinamento della finanza pubblica (l. 23 dicembre 2005, n. 266, art. 1, comma 166 e 167) in vista del rispetto sia del Patto di stabilità interno [10], sia del Patto di stabilità e crescita.

In particolare, il rispetto della golden rule [11] introdotta con l’art. 119, comma 6. Cost., circoscrivendo la possibilità per gli enti della finanza territoriale di produrre disavanzi [12], rappresenta uno di quei doveri di solidarietà economica e sociale dei quali l’art. 2 Cost. richiede l’adempimento in vista del riconoscimento e della garanzia dei diritti inviolabili.

         Proprio la pari tutela dei diritti non appare essere coerentemente seguita dal TAR quando ritiene conforme a diritto la sospensione per il Commissario del divieto costituzionale di ricorrere all’indebitamento nel caso in cui l’ente locale versi in una situazione finanziaria altamente deficitaria.

         In realtà, tale soluzione si rivela inadeguata sul piano effettuale, prima ancora che giuridico.

         Infatti, col ricorso all’indebitamento, il Commissario ad acta sostanzialmente surroga al creditore originario il creditore mutuante; in tal modo, visto che l’ente locale è in una situazione finanziaria altamente deficitaria tanto da dover ricorrere al mutuo, il problema rimane aperto con riferimento al reperimento della provvista per pagare almeno la prima rata di mutuo, con violazione dell’art. 159, comma 5, D.Lgs. 267/2000.

         In questa situazione, infine, non potrebbe impedirsi al mutuante, all’esito di un giudizio, di richiedere ed ottenere che il proprio commissario ad acta contragga un altro mutuo per finanziare il pagamento delle rate del primo mutuo. Una sorta di “debito periodico”.

         Sul piano giuridico, si è mancato di considerare che – al pari di ciò che accade in caso di insolvenza del debitore privato - in questi casi esiste un’articolata disciplina legale che garantisce, in condizioni di parità, la posizioni di tutti i creditori dell’ente locale e non soltanto di alcuni di essi.

         Il riferimento è all’art. 244 e ss. D.Lgs. 267/2000, norme che, oltre a prevedere il dissesto finanziario dell’ente e la relativa procedura di risanamento, contemplano, all’ art. 248 D.Lgs. 267/2000, una disciplina particolare per i creditori dell’ ente e per le azioni esecutive da essi intraprese.

         Quanto poi alla sostanziale irresponsabilità dell’ente locale inadempiente, la medesima normativa stabilisce precise responsabilità degli amministratori che hanno causato lo stato d’insolvenza del Comune, da attivarsi nell’ambito dei giudizi di responsabilità dinanzi alla Corte dei conti (art. 246, D.Lgs. 267/2000).

         L’Ordinamento positivo, quindi, esclude l’esistenza di ambiti di irresponsabilità per gli amministratori degli enti locali inadempienti.

         Alla stregua di quanto precede può agevolmente concludersi allora che garantire il diritto all’effettività della tutela giurisdizionale ad un solo creditore tramite la sospensione per il Commissario del divieto costituzionale di ricorrere all’indebitamento, determinerebbe una lesione ingiustificata del medesimo diritto all’effettività della tutela giurisdizionale invocabile dagli altri creditori.

         In un ordinamento giuridico sempre più articolato e composito, nel quale la produzione normativa, nel suo alluvionale affastellarsi, sta progressivamente perdendo autorevolezza, la tentazione di ridare logica ad un sistema normativo non sempre pienamente soddisfacente attraverso la “daga” della soluzione pretoria di casi particolari, è fortissima per il giudice.

 

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Tar Sicilia - Catania, sezione IV - sentenza 5 maggio 2007 n. 768, il quale ha affermato che le prescrizioni di cui all’art. 119, comma 6, Cost. - che non consentono ai Comuni, alle Province ed alle Regioni di ricorrere all’indebitamento per fare fronte a spese non d’investimento maturate dopo l’8 novembre 2001 - non si applicano ai commissari ad acta nominati dal giudice amministrativo in sede di giudizio di ottemperanza ex art. 27 n. 4 del R.D. 26 giugno 1924, n. 1054.

Marco SMIROLDO, La garanzia degli equilibri di bilancio degli enti della finanza pubblica allargata: la costituzionalizzazione della golden rule e la sanzione per l’inosservanza del divieto di ricorso all’indebitamento per il finanziamento di spese diverse da quelle d’investimento, alla pag. web http://www.lexitalia.it/articoli/smiroldo_golden.htm;

Corte dei conti, sezione giurisdizionale Regione Lazio - sentenza 20 dicembre 2005 n. 3001, alla pag. web http://www.lexitalia.it/p/61/ccontilazio_2005-12-20.htm, la quale ha affermato che la sanzione pecuniaria prevista dall’art. 30, comma 15, della legge finanziaria 2003, posta a tutela dei limiti all’indebitamento previsti dall'art. 119, comma 6, Cost. (nel testo novellato dalla l. cost. 3/01), è strumentale ad assicurare la massima tutela al principio di salvaguardia degli equilibri di bilancio, a sua volta retto dalla regola basilare secondo cui alla copertura delle spese correnti deve provvedersi soltanto con le entrate correnti. Con nota di commento di Gianluca ALBO: Self - restraint della Corte dei conti al primo vaglio della fattispecie sanzionatoria prevista dall’ art. 30, comma 15, legge 27 dicembre 2002 n. 289 (legge finanziaria 2003).

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[1] Per completezza può, inoltre, rammentarsi che l’art. 3, comma 16, l. finanziaria 2004, ha esplicitato che è sempre consentito l’indebitamento per finanziare spese di investimento, e, quindi, ai commi successivi, ciò che deve intendersi ai fini di cui all'articolo 119, sesto comma, della Costituzione per indebitamento (comma 17) e  per investimenti (comma 18), soggiungendo l’applicabilità di tali disposizioni anche alle regioni a statuto speciale (comma 21).

[2] Quanto alle tipologie di spese, in base alla classificazione tradizionale prevista dall’ art. 129 del R.D. 23.5.1924 n. 827 (Reg. Contabilità di Stato), si può distinguere per semplificare tra spese di investimento (o in conto capitale) e spese non di investimento (o di parte corrente).

Va, tuttavia,  rammentato che In dottrina  non si ritengono sovrapponibili le nozioni di spese di investimento e spese in conto capitale; cfr. M. Smiroldo, “Nuove tecniche di tutela degli interessi erariali:brevi osservazioni su alcuni profili sostanziali e procedurali riguardanti l’ applicazione dell’ art. 30,comma 15, della l. 27 dicembre 2002, n. 289, relazione presentata in occasione della giornata di studio in memoria di Francesco Rapisarda, sul tema “Profili di attualità delle attribuzioni della Corte dei conti”, Palermo 11 dicembre 2004. Lo scritto è consultabile sul sito www.amcorteconti.it; nonché M. Smiroldo, “La garanzia degli equilibri di bilancio degli enti della finanza pubblica allargata: la costituzionalizzazione della golden rule e la sanzione per l’inosservanza del divieto di ricorso all’indebitamento per il finanziamento di spese diverse da quelle d’investimento, in questa Rivista, aprile 06.

[3] Sulle problematiche connesse all’individuazione del dies a quo della “maturazione” cfr. in questa Rivista,  G. Albo,” Self-restraint della Corte dei conti al primo vaglio della fattispecie sanzionatoria prevista dall’ art. 30, comma 15, legge 27 dicembre 2002 n. 289 (l. finanziaria 2003)”, nota  a Corte Conti, Sez. Giurisd. Lazio C.Conti, 20 dicembre 2005 n. 3001; cfr. inoltre: Corte Conti, Sez. Giurisd. Sicilia,  7 novembre 2006 n. 3198; l’articolata e puntuale sentenza dei giudici contabili siciliani, allo stato l’ unica che ha cercato di risolvere con un approccio dogmatico i plurimi problemi interpretativi connessi all’applicazione della fattispecie sanzionatoria contemplata dall’art. 30, co 15 l.f. 2003,  è stata annotata da M. Perin “Prima effettiva applicazione della sanzione agli amministratori pubblici per il ricorso all’ indebitamento per le spese correnti”, in  www.amcorteconti.it e da G. De Marco “Sanzionata dalla Corte dei conti la Giunta comunale che deliberò un mutuo a copertura di spese correnti”, in  Diritto e pratica amministrativa (Il sole24ore) n. 2 - dicembre 2006

[4] L’art. 119 della Costituzione, come novellato dalla legge costituzionale  18 ottobre 2001 n. 3, prevede, al comma 6, esplicitamente, che “ I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni (…) Possono ricorrere all'indebitamento solo per finanziare spese di investimento.(..)”; trattasi dei medesimi enti territoriali che, unitamente allo Stato, costituiscono, ai sensi dall’ art. 114 co. 1  Cost., la Repubblica.

[5] Correttamente i giudici contabili di primo grado  siciliani hanno ritenuto che “… la previsione di cui all’art. 30, comma 15 della legge 27.12.2002, n. 289,…, integra una fattispecie sanzionatoria volta a reprimere un particolare illecito amministrativo rappresentato dal ricorso  all’indebitamento per finanziare spese diverse da quelle di investimento. La configurazione dell’illecito prescinde da un'immediata e diretta lesione patrimoniale e, di riflesso, è svincolata dalla ricorrenza dell’elemento soggettivo connotato in termini di gravità della colpa. Per la consumazione dell’illecito è cioè sufficiente l’adozione, cosciente e volontaria, di una delibera volta al reperimento, per mezzo dell’indebitamento, di una provvista finanziaria con la quale far fronte a spese di parte corrente..”.”(Sez. Sicilia 7.11.2006 n. 3196; analogamente,  Sez. Sicilia 7.8.2006  n. 2376 ravvisa una  “ipotesi di violazione amministrativa”); in dottrina sia consentito il richiamo a G. Albo, op. cit., in cui si ritiene che “ alla fattispecie contemplata dall’art.30, comma 15, l. 27 dicembre 2002 n. 289 va attribuita la natura giuridica di violazione amministrativa in materia di contabilità pubblica, e la cui irrogazione, per interpositio legislatoris, è stata affidata alla Corte dei conti, nel rispetto dei principi generali (artt. 1-12) della legge 689/81, tra cui il criterio minimo di imputazione per colpa (art. 3 l. 689/81), da considerarsi derogatorio al criterio di imputazione soggettivo della “colpa grave” previsto dall’art. 1 legge 20/94 e ss. modiff., in considerazione, sia della specialità della previsione preventivo-sanzionatoria contenuta nel citato art. 30. co. 15 legge finanziaria 2003, sia della sua sopravvenienza temporale al citato art.1 legge 20/94 (come modif. dal d.l. 23 ottobre 1996, n. 543, conv. in l. 20 dicembre 1996, n. 639)”.

[6] Ovviamente deve trattarsi di un debito di parte corrente  maturato dopo la vigenza del comma 6 dell’art. 119 Cost.

[7] La giurisprudenza contabile più attenta ha qualificato la fattispecie sanzionatoria di cui all’ art. 30, co. 15, l. finanziaria 2003, “un illecito catalogabile tra quelli cc.dd. di pericolo presunto o astratto...”, per cui basta che gli amministratori deliberino il ricorso ad un mutuo non consentito per perfezionare la condotta sanzionata dal citato art. 30 co. 15 (cfr. C.Conti Sez. Reg. Sic. 3198/06, cit.; analogamente in dottrina, cfr., in questa rivista, M. Smiroldo e G.Albo, opp. ult. citt.; contra in giurisprudenza,  C. Conti Sez. Reg. Lazio nr.3001/05, cit.

[8] Tra le differenze più significative della responsabilità ex art. 30 co. 15 lf 2003: la soglia psicologica di imputabilità (colpa lieve), la tipizzazione dell’illecito, l’ applicabilità dei principi della l. 689/81, il regime prescrizionale, la estraneità all’ambito di operatività del c.d. condono contabile, il differente regime procedurale; amplius, cfr. G. Albo, op. cit.

[9] Si è ovviamente al di fuori da ipotesi in cui potrebbe operare il broccardo urgentia facit ius

[10] SILIPO A., I vincoli del patto di stabilità interno alle spese in conto capitale degli Enti locali, in Rivista dei tributi locali, 2002, fasc. 3, pagg. 233-245.

[11]L’art. 119, comma 6, Cost., infatti, impone il rispetto della regola contabile espressa dalla c.d. golden rule che, come chiarito in dottrina è una regola semplice, la cui applicazione consente di garantire gli equilibri di bilancio in quanto l’investimento o l’acquisto del bene capitale finanziato con l’indebitamento, a rigore, da un alto dovrebbe generare maggiori entrate che derivano dalle tariffe per l’uso dell’infrastruttura, entrate che consentirebbero di pagare il servizio del debito senza aggravi di tassazione per le generazioni future; dall’altro lato, quand’anche non generi ricavi monetari, il bene capitale produce utilità ripetuta nel tempo ed è quindi corretto che il suo costo sia ripartito attraverso le maggiori imposte richieste per il servizio del debito, anche sulle generazioni future, realizzando anche un obiettivo di equità intergenerazionale. V GIARDA P., Le regole del federalismo fiscale nell’art. 119: un economista di fronte alla nuova Costituzione, in Le Regioni, 2001, p. 1448.

[12] V. in tal senso, Corte dei conti, sez. delle Autonomie, Relazione sulla gestione finanziaria delle Regioni, esercizi 2002 – 2003, pag. 34.


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