![]() ![]() |
|
Prima pagina | Legislazione | Giurisprudenza | Articoli e note | Forum on line | Weblog |
|
n. 10/2004 - ©
copyright
SERGIO AGRIFOGLIO*
Il mobbing nel pubblico impiego
I) Occorre preliminarmente fornire una giustificazione della presente relazione: perché parlare del mobbing nel lavoro presso le pubbliche amministrazioni (in quello che un tempo non troppo lontano veniva chiamato pubblico impiego) trattando così tale fenomeno come entità in sé diversa rispetto a quella che si manifesta nel lavoro privato.
E’ ovvio, infatti, che dal punto di vista psico-fisico nessuna differenza può correre tra lavoratore privato e pubblico dipendente [1]; così, se il termine mobbing ha una sua validità scientifica e giuridica (circostanza, ovviamente, data per assodata, e quindi assunta qui come postulato), nessuna differenza può sussistere dal punto di vista eziologico: così, se si richiede che per potere parlare di mobbing occorra una pluralità di atti [2], o che tali atti debbano prolungarsi per almeno un certo periodo di tempo, o se si ritiene influente o ininfluente la particolare debolezza organica del soggetto perseguitato nell’ambiente di lavoro al fine di verificarne l’esistenza, e, quindi, se debbano comunque ritrovarsi nel fenomeno che ci occupa caratteri oggettivi o meno [3] (una qual sorta di minimum standard di nocività, insomma) sono tutte questioni che non possono certamente porsi in maniera diversa a seconda del settore, pubblico o privato, in cui esse si verificano.
Se, quindi, si tenterà di analizzare tale fenomeno [4] nel campo del pubblico impiego, sarà per tentare di accertare se esso possa comunque configurarsi con le stesse caratteristiche con le quali si configura nel lavoro privato, o se esso debba essere viceversa inquadrato in tale specifico rapporto al fine di delinearne possibili differenze.
Non può, ai fini di tale indagine, preliminarmente non rilevarsi come la prevalente giuslavoristica e la prevalente giurisprudenza del giudice ordinario ritengano ormai che il pubblico impiego oggi altro non sia che un rapporto di lavoro eguale a tutti gli altri [5], a parte qualche, più o meno pregnante, più o meno qualificante, differenza, o più esattamente, con alcune eccezioni rispetto a regole assunte come generali, quali determinate appunto nel rapporto di lavoro privato: il diritto del pubblico dipendente assegnato a mansioni superiori alla sola percezione delle differenze retributive, l’impossibilità di costituire rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le pubbliche amministrazioni in presenza di assunzioni in violazione di norme imperative, l’impossibilità di deroga al principio del pubblico concorso, e non soltanto per l’accesso esterno, ma anche per la progressione in carriera [6], e così via.
Sennonché a ricordarci che il pubblico impiego (il c.d. pubblico impiego, come oggi a volte si vede scritto) non è una semplice provincia della giuslavoristica è intervenuta anche di recente la Corte costituzionale, che ha ricordato come non sia corretto ritenere, quanto meno in termini assoluti, che a seguito della c.d. privatizzazione derivante dalla riforma del 1993, ma sarebbe stato meglio dire dalla riforma del 1993 e da quella del 1998, il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni sia stato assimilato, sotto ogni aspetto, a quello svolto alle dipendenze di datori di lavoro privato (nella specie la Consulta ha affermato che “il principio fondamentale in materia di instaurazione del rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni è quello, del tutto estraneo alla disciplina del lavoro privato, dell’accesso mediante concorso, enunciato dall’art. 97, terzo comma, della Costituzione”, ed ha sottolineato come “l’esistenza di tale principio, posto a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione , di cui al primo comma dello stesso art. 97 della Costituzione, di per sé rende palese la non omogeneità delle situazioni messe a confronto dal remittente” [7].
Dunque, anche in tema di mobbing non si potrà prescindere dalle norme dettate dalla Carta costituzionale in tema di P.A. e di pubblici dipendenti, ed in particolare non si dovrà dimenticare che “nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari” (art. 97, comma secondo), e che “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione” (art. 98, comma primo).
Norme per chiarire le quali non potrà dimenticarsi che con esse il Costituente altro non ha fatto che recepire normativamente un modello di pubblico impiego che aveva costituito la stessa ossatura, per così dire, dei moderni stati nazionali (quanto meno quelli dell’Europa continentale), tant’è che non a caso si è addirittura fatto coincidere la nascita dei moderni stati con quella della burocrazia statale.
Si allude, ovviamente, alla ricostruzione del fenomeno data da Max Weber, ed alla nascita dell’idealtypus weberiano, di quel modello burocratico nel quale si esprime il potere legale razionale, quel potere che, nel nome di una superiore norma, rende eguali chi obbedisce e chi comanda, anche questi, appunto, a tale norma soggetto [8].
Proprio per tale comune soggezione alla norma il burocrate weberiano agisce sine ira ac studio, incarna, si è detto, un modello magistratuale, e per converso la burocrazia, intesa sia quale complesso del personale, sia quale complesso degli uffici pubblici, si assesta con particolari e ben precise caratteristiche: la stabile divisione del lavoro tra i partecipanti, e, quindi, la loro specializzazione, la gerarchia degli uffici ed il loro disporsi a struttura piramidale, la separazione, quanto ai poteri esercitati, tra ufficio e funzionario (il burocrate lascia il potere in ufficio), la selezione e addirittura la stessa assunzione del personale sulla base di qualificazioni tecniche, accertate, di norma, attraverso procedimenti concorsuali, l’impiego che diventa carriera, professione, sia perché viene ad assorbire, quasi, l’intera vita del pubblico dipendente, sia perché diventa la sua fondamentale fonte di sostentamento.
Corollario di tale modello burocratico è la netta separazione tra politica e amministrazione, sì che Max Weber venne addirittura a configurare due diversi tipi umani: l’uno, il politico, un dilettante proteso al comando, alla creazione della norma, si potrebbe dire; l’altro, il burocrate, un professionista coscienzioso e diligente, attento all’attuazione della norma, indifferente al suo contenuto.
E non a caso si diceva che, in buona sostanza, la pur scarna normativa costituzionale in tema di pubblico impiego aveva normativizzato tale modello: “in un ordinamento democratico – che affida all’azione dell’amministrazione, separata nettamente da quella del Governo, il perseguimento delle finalità pubbliche obiettivate nell’ordinamento – il concorso pubblico, quale meccanismo di selezione tecnica dei più capaci in forma neutrale e indipendente da ogni considerazione per le condizioni personali dei concorrenti, resta il metodo migliore per la provvista di organi chiamati ad esercitare le proprie funzioni in condizione di imparzialità ed al servizio esclusivo della Nazione” [9].
E’ evidente che in un siffatto modello (giuridico –sociologico) di pubblico impiego il mobbing non poteva trovare spazio proprio perché veniva a mancare il suo proprio brodo di coltura: da un lato, sino a quando il pubblico dipendente non gode della stabilità del rapporto, la dirigenza politica non ha bisogno di mobbizzare nessuno, potendo allontanare ad nutum il dipendente indocile o comunque sgradito (così come, d’altronde, per converso, non a caso anche nel rapporto di lavoro privato di mobbing non si parla neppure finché sono massimi i poteri datoriali, licenziamento ad nutum compreso, mentre se ne comincia ad individuare l’esistenza allorché allontanare il dipendente diventa difficile o eccessivamente costoso – oltre che fonte di ricchezza per il datore di lavoro); d’altro lato, per contro, allorché invece il pubblico dipendente verrà a godere (unico tra i lavoratori dell’epoca) della stabilità (o della semi stabilità che dir si voglia) del rapporto, egli potrà vedere ruotare attorno a sé la dirigenza politica, che di lui, in quanto specialista, avrà sempre e comunque bisogno (sostituirlo sarà spesso difficile, dato che un dirigente pubblico non si creava da un giorno all’altro, e che in ogni caso, poco conoscendosi, o sconoscendosi del tutto, gli accessi laterali, c’era pur sempre l’obbligo di rispettare le legittime aspettative del corpus burocratico, quali determinate dall’assetto gerarchico): i ministri cambiano, noi rimaniamo, dirà infine a Trotskj il funzionario di polizia francese, di volta in volta chiamato ora a tutelarne la sicurezza ora ad arrestarlo.
Non c’è dubbio però che ben raramente, nella realtà effettuale delle cose, è stato dato ritrovare, forse appunto perché definito dallo stesso Weber ideale, tale modello di burocrazia: più spesso, invece, competenza, specializzazione, sicurezza del posto di lavoro, hanno fatto sì che il pubblico dipendente, anziché docile strumento della dirigenza politica (rectius, neutrale applicatore della norma creata dalla classe politica, del tutto indifferente al suo contenuto) diventasse egli stesso titolare di un potere, il potere burocratico, appunto [10].
Con la paradossale conseguenza, però, che tale potere veniva esercitato (e viene tuttora esercitato) non soltanto nei confronti degli amministrati, ma anche nei confronti della dirigenza politica: il professionista, alla lunga, si impone sempre sul dilettante, dato che egli solo conosce la macchina burocratica, e dato che spesso la dirigenza politica cambiava prima di avere potuto controllare se le finalità per le quali essa aveva emanato norme fossero state raggiunte [11].
In più, i burocrati tutti erano portati a far fronte comune contro la dirigenza politica: se l’ordinamento piramidale degli uffici e dei funzionari portava come corollario che sostituire in caso di assenza o di impedimento il superiore gerarchico facesse parte dei doveri e dei compiti propri dei sottoposti, allora era realmente possibile che nello zaino di ogni soldato fosse riposto il bastone di un maresciallo.
L’horror vacui del potere, che voleva, di necessità, che comunque qualcuno all’interno dell’amministrazione svolgesse i compiti propri del vertice della scala gerarchica, senza per ciò stesso considerarsi promosso, contribuiva a fare della burocrazia un corpo anche ideologicamente coeso.
Ed è così che i primi, e celebri, casi di mobbing all’interno delle amministrazioni pubbliche sono stati casi di mobbing ascendente, di mobbing esercitati da burocrati nei confronti della dirigenza politica, e per di più risalenti ad epoca nella quale tale fenomeno non era stato neppure ancora individuato né dagli etologi, né tanto meno dai giuristi o dai sociologi [12].
Non fu infatti assolutamente neutrale il comportamento dei burocrati della Germania di Weimar nei confronti di Hilferding, da essi, nati e cresciuti in clima guglielmino, considerato un socialdemocratico radicale: si narra che quando egli, nel 1924, divenne ministro delle finanze, tutti i documenti del ministero venissero manovrati in maniera tale da farlo sedere, giorno dopo giorno, davanti ad una scrivania perpetuamente e perfettamente vuota, tanto da farlo cadere in uno stato di profonda prostrazione, in un vero e proprio esaurimento nervoso, e che tale situazione sia durata sino a che il ministro non ebbe rassicurata la sua burocrazia che non avrebbe attuato alcun mutamento radicale [13].
E non è senza interesse notare che anche nei Paesi di common law non mancò, quasi nello stesso periodo, un braccio di ferro politici-funzionari: non molti anni dopo l’affaire Hilferding, negli Stati Uniti analoghe resistenze trovò, nell’attuazione del New Deal, il Presidente Roosvelt tra i propri funzionari; soltanto che, in mancanza della amministrativizzazione del rapporto di lavoro, fu facile al Presidente rinnovarne quasi completamente i quadri [14].
Si sbaglierebbe però ad immaginare il braccio di ferro dirigenza politica-burocrazia tutto sbilanciato, anche nei Paesi a diritto amministrativo, a favore di quest’ultima per la sola forza della sua competenza e della sua specializzazione; a parte la fisiologica tendenza delle organizzazioni pubbliche a trovare comunque uno stabile equilibrio con la dirigenza politica (in Italia, è stato acutamente osservato, la burocrazia si adattò alla dirigenza politica barattando sicurezza e privilegi economici contro potere) [15], il pubblico impiego, attratto nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, procedimentalizzò, e dunque provvedimentalizzò, quasi ogni fase del rapporto: il che, se portò alla quasi scomparsa dei diritti soggettivi dei dipendenti nascenti dal sinallagma lavorativo, ed il loro degrado, si sarebbe detto un tempo, ad interessi legittimi, consentì però ai pubblici dipendenti di impugnare in via giurisdizionale qualunque atto che non soltanto avesse trasformato, ma che avrebbe potuto addirittura anche soltanto in futuro avere refluenza sullo svolgimento del loro rapporto lavorativo: dalle note di qualifica, ai procedimenti selettivi per l’ingresso in carriera e per lo sviluppo della carriera, ai trasferimenti, all’assegnazione a determinate mansioni.
Certamente, non era tutto rose e fiori: con una ambivalenza tutta freudiana lo Stato, quale appariva attraverso lo schermo del giudice amministrativo, era al tempo stesso padre uranico e madre ctonia, era al tempo stesso protettore possente, fonte di nutrimento e di sicurezza (basti pensare alla stabilizzazione del rapporto) e castratore implacabile.
Dire però che il giudice amministrativo consentì ai pubblici dipendenti di impugnare gli atti per così dire datoriali è in realtà un eufemismo, dato che più spesso tale giudice impose loro di impugnarli, facendo derivare dalla mancata impugnazione più che discutibili decadenze (se non si impugnava tempestivamente una nota di qualifica, per quanto scarsamente o per nulla lesiva essa fosse, non ci si poteva poi lamentare della mancata promozione che a distanza di anni a tale nota di qualifica si fosse rifatta; se non si impugnava l’atto di nomina, non ci si poteva più dolersi di uno stipendio inferiore a quello previsto per il posto al quale si era stati assegnati, e così via).
Si venne così a costituire un corpo di norme giurisprudenziali che andò tratteggiando il rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni guardando più alla dommatica dell’atto amministrativo (così, in particolare, l’atto di assunzione venne ricondotto ai provvedimenti concessori) [16] che a quella del contratto, e quei pochi autori che tennero presente che anche alla base del rapporto di pubblico impiego vi era un volontario sinallagma e costruirono ad hoc la categoria del contratto di diritto pubblico, strana figura, dato che da tale contratto non nascevano soltanto diritti ed obblighi, ma piuttosto facoltà di imperio e soggezioni pubblicistiche, per quanto autorevoli (Giannini) vennero radicalmente contestati [17].
D’altronde il giudice amministrativo alle regole del contratto derogò in parte non minima, non soltanto trasformando i diritti soggettivi in interessi legittimi, ma , per quanto qui rileva, anche per impedire alle amministrazioni di sconfinare dai binari entro i quali doveva fluire la puissance publique, e quindi il suo esercizio, anche quale datrice di lavoro, di pubbliche funzioni; sicché per tale via ancorò la sua azione al principio di legalità, a tutto vantaggio del dipendente pubblico.
Qualche esempio varrà a chiarire meglio la vicenda.
Se la pubblica amministrazione datrice di lavoro non abdicava mai ai propri poteri pubblicistici, essa conservava intatto il proprio potere di autotutela, e poteva pertanto annullare l’atto amministrativo illegittimo in un qualunque tempo senza ricorrere ad alcun giudice; tuttavia il giudice amministrativo, al fine di impedire alla dirigenza politica di tenere sulla corda i dipendenti che fossero stati assunti illegittimamente, introdusse il principio (poi diventato di carattere generale, valido per tutti gli atti di ritiro della pubblica amministrazione) che l’atto con il quale si procedeva all’annullamento non soltanto avrebbe dovuto indicare puntualmente in motivazione i vizi di legittimità che inficiavano l’atto da ritirare, ma avrebbe per di più dovuto essere sorretto da un interesse pubblico concreto ed attuale a modificare la realtà giuridica; non già dunque un mero interesse pubblico al ripristino della violata legalità, ma un interesse per così dire specifico, e per di più da esplicitare adeguatamente in motivazione.
Ed ancora, entrata in vigore la Costituzione, il Consiglio di Stato per lungo tempo ancora negò l’applicabilità dell’art. 36 Cost. al sinallagma lavorativo con la più che discutibile affermazione che lo stipendio del pubblico dipendente non avesse carattere retributivo, sibbene alimentare, sicché la determinazione di esso fu lasciato alla insindacabile decisione dell’amministrazione; ma per converso sino al decennio scorso lo stesso giudice impedì alle amministrazioni datoriali di ripetere quanto di più avessero corrisposto erroneamente ai propri dipendenti proprio sulla base di tale affermata natura alimentare dello stipendio, che comportava la presunzione, iuris et de iure, che esso dovesse essere impiegato per intero per il sostentamento del dipendente e della sua famiglia (principio di irripetibilità dell’indebito, peraltro, rimasto ancora vigente presso il giudice amministrativo delle pensioni, ed anzi spesso normativamente recepito).
Era così avvenuto che il giudice amministrativo era diventato, attraverso il sapiente esame dell’eccesso di potere, un garante del dipendente pubblico ben più efficace di quanto il giudice ordinario non lo fosse del dipendente privato: quello, e non questi, poteva valutare le vere ragioni che stavano dietro atti che incidevano sul rapporto di impiego; quello, e non questi, poteva disporre l’annullamento dell’atto e la conseguente reductio in pristinum, quello, e non questi, poteva pretendere il rispetto del due process of law (assunzione di pareri, necessità di motivazioni congrue ed esaustive, di logiche comparazioni tra gli interessi dei vari dipendenti tra di loro, e tra tali interessi e quello dell’organizzazione-ente datoriale, e tra tutti tali interessi ancora e l’interesse pubblico al buon andamento degli uffici) al fine di annullare l’atto lesivo del dipendente (che poteva essere persino un atto di organizzazione, quale la soppressione o la creazione di un nuovo ufficio, di una nuova unità operativa); quello, e non questi, aveva la possibilità di sospendere, quasi immediatamente, ogni atto lesivo delle posizioni giuridiche del dipendente, sol che avesse ritenuto “grave ed irreparabile” il pregiudizio che questi stava subendo.
Bisogna stare attenti, però, a non ridurre il rapporto giudice amministrativo-pubblici dipendenti ad un rapporto di mera protezione del primo sui secondi: esso è stato molto, molto di più, avendo dato luogo ad una sorta di convivenza quasi simbiotica, dato che proprio quale giudice del pubblico impiego il Giudice amministrativo ha dato il meglio di sé nell’esercizio della funzione giurisdizionale.
Basterà considerare che sotto il profilo quantitativo l’assoluta maggioranza del contenzioso che si svolgeva davanti al Consiglio di Stato ed ai giudici ad esso sottordinati [18] aveva ad oggetto il pubblico impiego, sicché la stessa immagine – e la stessa fama - del giudice amministrativo quale giudice terzo, lontano, nonostante la sua estrazione burocratica (anche nel caso di vincitori di concorso, infatti, si trattava pur sempre di vincitori di un secondo concorso) dal potere politico non poco ha dovuto alle pronunce da esso adottate in tale materia.
Sotto il profilo qualitativo basterà poi considerare che mentre la giurisprudenza amministrativa in altri campi, ad esempio in quello dei contratti, appariva (ed appare ancor più oggi) spesso discinetica, esprimendosi peraltro non raramente in sentenze ed in decisioni che assumono quasi la forma degli arre^t, tanto succintamente motivate – a volte addirittura apodittiche – esse sono, allorché il giudice amministrativo fungeva da giudice esclusivo del pubblico impiego ha dato viceversa luogo ad un corpus giurisprudenziale particolarmente raffinato ed omogeneo, snodatosi e sedimentatosi attraverso sentenze a volte quasi monografiche, quasi sproporzionate, verrebbe da dire, rispetto agli interessi in causa.
Non a caso principi che ancora adesso vengono indicati quali principi cardine – nonché quali parametri – del retto agire amministrativo (dall’hearing all’obbligo di motivazioni esaustive e intimamente coerenti, dalla tempestività dell’azione amministrativa all’obbligo della comparazione delle domande rivolte ad uno stesso bene della vita, per quanto ampio possa essere il margine di discrezionalità affidato alla P.A.) sono stati elaborati dal Consiglio di Stato proprio nell’ambito dei rapporti di impiego pubblico, sicché fu facile al legislatore, nel 1957, allorché adottò il Testo Unico degli impiegati civili dello Stato e l’annesso regolamento, limitarsi a compendiare, così normativizzandola, la giurisprudenza amministrativa che si era andata consolidando nel corso degli anni.
E non a caso è ancora da rilevare che ancora prima che, vinte le resistenze della scuola gianniniana, il legislatore si fosse deciso ad adottare una legge generale sul procedimento amministrativo, i principi generali in tema di attività amministrativa venivano ritrovati, dalla dottrina e dalla giurisprudenza, oltre che nei TT. UU. Comunali e provinciali del 1915 e del 1934, appunto nel T.U. degli impiegati civili dello Stato 10 gennaio 1957 n. 3 [19].
Proprio a causa di tale raffinata ed efficace tutela giurisdizionale, e forte del proprio potere weberiano, per così dire, il pubblico dipendente ebbe ben presto a sviluppare una concezione che fu esattamente definita “proprietaria” del proprio posto di lavoro (Sanviti), per il quale non esitò a battersi davanti al giudice amministrativo, incurante del tempo e delle spese, poco o nulla temendo (ed avendo peraltro da temere) da possibili ritorsioni dell’ente pubblico datoriale; anzi, forse anche in quest’ottica si spiega la sindacalizzazione sui generis dei pubblici dipendenti, che fecero affidamento più su se stessi che sulla tutela dei sindacati federati.
D’altronde chi ha avuto occasione di vita giudiziale ben sa come ben diverso fosse l’atteggiamento del pubblico dipendente, di qualunque qualifica o grado egli fosse, nella tutela delle proprie posizioni giuridiche, rispetto agli impiegati di banca: questi ultimi, se proprio decidevano di adire il giudice – e non era facile che ciò accadesse – aspettavano quanto meno di essere alle soglie della pensione.
Da questa sorta di Kampf um’s Recht del pubblico dipendente, che si trovò di fronte, è doveroso riconoscerlo, un giudice di raro equilibrio (anche se Giannini ricordava che sino agli anni cinquanta ben difficilmente un dirigente statale socialista poteva vincere un ricorso al Consiglio di Stato, era lo stesso Maestro ad osservare che il Consiglio di Stato, come giudice, si era comportato, per le qualità personali dei suoi componenti, molto meglio di quanto non fosse stato lecito aspettarsi per le sue modalità di reclutamento), di rara liberalità (i casi in cui il giudice amministrativo condannò alle spese i pubblici dipendenti in caso di rigetto delle loro pretese furono assolutamente sporadici), e che per di più, un po’ per la provenienza dall’alta burocrazia, un po’ per l’attività di governo e di sottogoverno che svolgeva, era un ottimo conoscitore della macchina pubblica e dei suoi snodi ed ingranaggi anche, per così dire, laburistici, derivò un corpus di principi giurisprudenziali talmente perfezionato che, come si è visto, non soltanto il legislatore nel 1957, allorché pose mano ad un nuovo testo unico degli impiegati civili dello Stato, altro non ebbe a fare che codificare tali principi, ma che per di più tale T.U. divenne in realtà un vero e proprio testo unico del pubblico impiego (di tutti i rapporti di pubblico impiego).
Né tale situazione mutò con l’avvento dei TAR; vero è infatti che con l’istituzione dei giudici amministrativi di primo grado vennero reclutati anche molti burocrati che erano ben lontani dall’aver ricoperto posti di vertice, ma è anche vero che costoro, proprio per le loro precedenti esperienze lavorative, avevano per così dire inserito nel loro D.N.A. il modello weberiano, sicché, si ripete, agli inizi del duemila la quasi maggioranza del contenzioso pendente davanti al giudice amministrativo riguardava proprio il pubblico impiego, e per converso i pubblici dipendenti continuarono ad essere abbastanza efficacemente tutelati da un sistema, inteso quale complesso di norme sostanziali e di norme processuali, tanto sofisticato quanto efficiente.
II) Negli anni a cavallo del passaggio del secolo il diritto amministrativo è stato attraversato da profonde trasformazioni, alle quali qui non è neppure il caso di accennare; per quanto riguarda il tema che ci occupa basterà notare che per effetto della normazione del duemila (il d.lgvo n.80 del 31 marzo 1998 e la l. 21 luglio 2000 n. 205) il legislatore italiano è venuto, verrebbe da dire, a creare giudici innaturali, avendo affidato al Consiglio di Stato ed ai suoi giudici sotto ordinati materie sino ad allora riservate alla cognizione del giudice ordinario e squisitamente civilistiche (si pensi alla materia del risarcimento dei danni, o all’espropriazione, o alla c.d. accessione invertita, istituto creato dalla giurisprudenza della Cassazione), e per converso al giudice ordinario, per effetto di quella che è stata efficacemente chiamata la seconda privatizzazione, la gran parte del pubblico impiego, tutto quello cioè c.d. contrattualizzato: la materia più qualificante, si ripete, dal punto di vista non soltanto quantitativo, dell’attività giurisdizionale prima svolta dal giudice amministrativo.
Nessuno dei due fenomeni era del tutto nuovo; se con la istituzione della giurisdizione esclusiva del Consiglio di Stato si era già affidata al giudice amministrativo la tutela dei diritti soggettivi, per quanto riguarda la privatizzazione dei rapporti di lavoro con pubbliche amministrazioni già il fascismo aveva privatizzato il rapporto di lavoro negli enti pubblici economici e ne aveva affidato la tutela al giudice ordinario, e nel dopoguerra, dopo qualche oscillazione giurisprudenziale, ben presto le Sezioni Unite della Corte di Cassazione avevano affermato che anche dopo la scomparsa del regime corporativo le controversie di lavoro con tali enti erano rimaste attribuite al giudice ordinario, ed anzi avevano ricompreso tra tali controversie anche quelle che precedevano addirittura l’instaurazione del rapporto, come i procedimenti concorsuali di assunzione.
Ed è anche da dire che il sistema giuridico aveva, sia pure dopo qualche decennio di contrasti tra civilisti ed amministrativisti, nonché tra Cassazione e Consiglio di Stato, perfettamente metabolizzato il passaggio di tale genus (della species impiego con una pubblica amministrazione) prima nei rapporti di pubblico impiego tutelati dal giudice ordinario, e poi nell’ambito del rapporto di lavoro privato tout court.
E poiché allo stato non è prevedibile alcun revirement del legislatore, è quasi scontato ritenere che nel giro di qualche anno con la locuzione pubblico impiego si alluderà soltanto ai rapporti di lavoro rimasti nella giurisdizione del giudice amministrativo, e che forse anche la Corte costituzionale si dimenticherà degli artt. 97 e 98 Cost. (il giudice ordinario non tenendone a tutt’oggi quasi mai conto) in relazione agli altri rapporti di lavoro con pubbliche amministrazioni (ben poco significativa essendo la circostanza che l’Adunanza generale del Consiglio di Stato continui a ritenere che anche nei settori di pubblico impiego privatizzati possa ancora oggi esperirsi il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, o che la Commissione speciale del Pubblico Impiego affermi che “l’esperibilità del ricorso straordinario in relazione a controversie rientranti nella giurisdizione ordinaria va riconosciuta tutte le volte in cui l’atto della P.A., indipendentemente dal suo regime giuridico formale, risulti direttamente ed immediatamente finalizzato alla cura di interessi pubblici", o ancora che la novella apportata dalla l. 145/2002 all’art. 19 del d. lgvo 165/2001 stabilisca che gli incarichi dirigenziali vengano assegnati mediante provvedimenti, ben più pregnante essendo il secondo comma dell’art. 5 di tale d. lgvo: “nell’ambito delle leggi e degli atti organizzativi di cui all’art. 2, primo comma, le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte dagli organi preposti alla gestione con la capacità ed i poteri del privato datore di lavoro”).
D’altronde l’idealtypus weberiano risulta modello ormai non più attuale, o comunque quanto meno notevolmente alterato rispetto alla sua teorizzazione, non soltanto per la mancata neutralità dei burocrati di cui si è detto, ma anche perché è venuto contemporaneamente a sbiadire l’idealtypus di politico weberiano, vuoi perché l’attività di dirigenza politica si è anch’essa professionalizzata, vuoi perché sono venute a moltiplicarsi le amministrazioni pubbliche erogatrici di beni e di servizi (è evidente che l’amministrazione pubblica che Weber aveva presente era invece quasi esclusivamente quella statale, che all’epoca era quasi esclusivamente autoritativa), amministrazioni che per di più, nell’erogare tali beni e tali servizi, sono state dalla normativa europea costrette a scendere sul mercato e nel mercato, dovendone rispettare le regole ancor più delle stesse imprese private (intendendosi con tale locuzione, ormai, le imprese a capitale almeno prevalentemente privato).
Purtroppo però non ci si può dimenticare che tra le conseguenze di tale riforma non ultima vi è stata un arretramento della tutela dei fruitori del servizio giustizia; per quanto qui rileva, dei pubblici dipendenti.
Si favoleggia che magistrati dirigenti abbiano, in occasione dell’entrata in vigore del D. lgvo 80/1998, convocato in fretta e furia i giudici del lavoro del distretto invitandoli a dimenticarsi dell’esistenza dei provvedimenti di urgenza “per non essere sommersi dal troppo lavoro”.
Ovviamente, si ha troppa stima per la funzione giurisdizionale per credere che tali comportamenti si possano essere realmente verificati; è però indubbio che il giudice ordinario si è dimostrato molto, troppo avaro nel concedere la tutela cautelare ai pubblici dipendenti, spesso partendo dal presupposto della risarcibilità della lesione lamentata, presupposto che non teneva affatto conto, appunto, della concezione proprietaria del posto di lavoro, delle funzioni esercitate (e verrebbe quasi dal sorridere nel notare come quegli stessi giudici ordinari continuino ad affrettarsi tutt’oggi a richiedere al giudice amministrativo provvedimenti di sospensione dei provvedimenti che impugnano allorché a questi ricorrono in qualità, a loro volta, di pubblici dipendenti).
Ma a parte la quasi totale scomparsa della tutela cautelare, è stato proprio il diverso tipo di giudizio a tutelare in maniera meno efficace i pubblici dipendenti.
Se il giudice amministrativo poteva vedere dentro ed oltre l’atto (che aveva, a torto o a ragione, provvedimentalizzato), ben potendo conoscere non soltanto della violazione della norma, ma anche della sua falsa applicazione, e soprattutto ben potendo, attraverso l’esame dell’eccesso di potere, ritrovare e sindacare i più riposti motivi che avevano portato l’amministrazione datoriale ad adottare l’atto impugnato, se, circostanza da non sottovalutare affatto ai fini della tutela giurisdizionale, poteva annullare l’atto anche per soli vizi procedimentali, il giudice ordinario poteva soltanto accertare se il comportamento dell’amministrazione avesse o meno violato un diritto soggettivo del dipendente.
D’altronde, lucidamente è stato messo in luce come proprio uno degli obiettivi della privatizzazione del rapporto di pubblico impiego sia stato, appunto, il porre fine “all’iper garantismo legislativo” [20].
E così, una volta che gli atti per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro non vennero più concepiti quali estrinsecazione della funzione amministrativa, e non fu più pertanto possibile sindacarli nella loro globalità, si dovette convenire che “il potere del giudice ordinario di adottare, nelle controversie relative ai rapporti di lavoro pubblico, incluse quelle relative al conferimento e alla revoca degli incarichi dirigenziali i provvedimenti costitutivi, richiesti dalla natura dei diritti tutelati (v. art. 63 secondo comma D.lgs 165/2001), non può, assolutamente, determinare una indebita sostituzione di quest’ultimo al datore di lavoro pubblico, nell’esercizio della facoltà di scelta dei dirigenti da preporre alle singole strutture, che è espressione del potere di organizzazione che l’art. 5, D.lgs cit., riserva all’amministrazione” dato che “l’amministrazione, nell’esercizio dei propri poteri di organizzazione, può scegliere la destinazione del dirigente, senza che sussista alcun diritto da parte di quest’ultimo all’attribuzione di un incarico determinato” ([21]).
Alla luce di tale arretramento di tutela sembra così riproporsi una delle questioni storicamente nodali del diritto amministrativo italiano, e addirittura fonte della sua specificità nel diritto comparato, quella dell’interesse legittimo, che è anche una delle questioni nodali del diritto amministrativo italiano contemporaneo: se l’interesse legittimo costituisca un più avanzato e raffinato strumento di tutela giuridica dei soggetti che impattano con le pubbliche amministrazioni, strumento tanto avanzato e tanto raffinato da consigliarne “l’esportazione” ad altri ordinamenti giuridici, quanto meno all’interno dell’U.E. ([22]), ovvero non sia piuttosto una categoria giuridica in via di obsolescenza proprio per la sua estraneità, se non addirittura per la sua incompatibilità, con il diritto europeo (o diritto comunitario che dir si voglia).
Questione che, nello specifico, può significare o continuare ad invocare la tutela innanzi al (rectius, far tutelare dal) giudice ordinario gli (così immortali) interessi legittimi dei pubblici dipendenti, non si sa bene però per quale via (se la facoltà di scelta tra comportamenti giuridicamente leciti non è funzione, essa non può essere sindacata da alcun giudice), ovvero a cancellare del tutto tale tutela, venendo così a degradare gli ex interessi legittimi, verrebbe da dire per esprit de geometrie, ad interessi di mero fatto, diritti soggettivi essi non essendo (in attesa poi forse che qualche giudice, alla luce del principio di buon andamento di cui l’art. 97 Cost., non consideri tali interessi di mero fatto, guarda caso, occasionalmente coincidenti con l’interesse pubblico, e pertanto nuovamente da tutelare).
La questione è comunque troppo complessa perché possa essere risolta in questa sede, né esprit de finesse consente di rinviare apoditticamente a quanto si è sostenuto, altre volte, in altre occasioni.
E’ dunque necessario limitarsi a prender atto dello stato attuale della giurisprudenza.
III) Sempre agli inizi del nuovo secolo, quasi contemporaneamente alla vicenda italiana che assume il nome di privatizzazione del rapporto di impiego, il mondo del lavoro andava scoprendo il fenomeno del c.d. mobbing: se infatti risale al 1984 la prima pubblicazione nella quale tale termine, mutuato dall’etologia, veniva usato per indicare una forma di vessazione esercitata nell’ambiente di lavoro al fine di emarginare prima ed estromettere poi da esso la vittima designata (Leymann), è soltanto sul finire del secolo scorso che tale fenomeno viene a coinvolgere, diventando quasi argomento di moda, il mondo giuridico [23].
In realtà era stato negli anni cinquanta, più precisamente nel 1958, che Parkinson, l’autore della omonima famosa legge ([24]), aveva spassosamente illustrato i metodi con i quali convincere un alto dirigente, che avesse raggiunto una certa età, a chiedere il collocamento a riposo: un tourbillon di viaggi intercontinentali con tanto di jet lag, di cene sociali, di inaugurazioni, di onorifiche presenze a noiosissime conferenze, a matrimoni, a funerali, giocando spietatamente con gli spostamenti del fuso orario al fine di imporre un susseguirsi di prime colazioni, o di micidiali aperitivi, comunque mai intercalati da sostanziosi pranzi, il tutto accompagnato allo svuotamento di ogni reale attività decisionale, era ricetta in grado di sfiancare qualunque coriacea volontà di resistenza, di garantire il volontario abbandono di ogni amata poltrona.
Si trattava, però, di quello che oggi chiameremmo mobbing ascensionale, in tema del quale, come si è visto, i pubblici dipendenti non avevano nulla da imparare, ed erano stati anzi maestri.
Da questo angolo di visuale, anzi, c’è da dire che con l’accesso alla dirigenza di soggetti estranei all’apparato amministrativo delle pubbliche amministrazioni il mobbing verticale esercitato dalla burocrazia contro il corpo estraneo è divenuto quasi la regola.
Né ciò è di necessità un male: si tratta infatti di una sorta di test, di verifica sul campo, che sebbene di sapore ordalico, peraltro è spesso indispensabile per verificare l’effettiva capacità di comando, di direzione, di adattamento all’ambiente, si direbbe in termini di scienza dell’amministrazione, del neo assunto.
D’altronde questo è il prezzo che deve, di necessità, pagare chi si avvale della mobilità del mercato del lavoro: egli deve sapere già, sin dal momento in cui sceglie di lasciare un lavoro per assumerne un altro, che accanto ai vantaggi che ha cercato e conseguito deve pagare prezzi per così dire fisiologici, non ultimo l’attrito per il suo ingresso in un ingranaggio sconosciuto: anche i capi devono fare gavetta, si sarebbe detto un tempo, prima che l’ordinamento giuridico (rectius, alcuni giudici) si fosse preso cura della umana fragilità, volendo imporre al posto del bieco, antiquato nonnismo uno sciropposo, attualissimo mammismo [25].
Per quanto poi riguarda il c.d. mobbing orizzontale, quello esercitato tra colleghi, non sembra che possa avere rilevanza la struttura, pubblica o privata, nella quale i lavoratori sono immessi.
Si tratta in ogni caso, infatti, di un “gioco sociale” spesso feroce, ma al quale sinora la giurisprudenza era rimasta estranea, ed il cui intervento era stato ipotizzato soltanto in via farsesca (si pensi a “La patente” di pirandelliana memoria), essendo tra l’altro difficile ipotizzare accanto ad un diritto alla felicità nel posto di lavoro (contra, Genesi) un dovere dei lavoratori a collaborare in letizia, ad amarsi l’un l’altro, ed a reprimere qualunque sentimento di avversione contro il collega scansafatiche, ovvero contro quello troppo bravo (i primi della classe ben conoscono i prezzi che hanno dovuto pagare), o contro la collega troppo bella: non a caso in qualche equilibrata sentenza è stato ricordato che ogni organizzazione produttiva “è anche luogo di aggregazione e di contatto (e di scontro) umano” [26].
L’unica ipotesi, quindi, sulla quale occorre soffermarsi è quella del c.d. mobbing discendente, del mobbing–bossing, il vero mobbing per così dire.
Sorgono, però, immediatamente due diversi problemi.
Il primo è da ricollegare al dato normativo: infatti, se la tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore è da ritrovare – come quasi concordemente si afferma, nell’art. 2087 c.c. (che come è noto dispone che “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”) non può non rilevarsi come tale norma mal si attagli allo Stato ed agli enti pubblici in generale: né l’uno né gli altri possono essere qualificati né come imprenditori né come imprese, tant’è che proprio per consentire attività imprenditoriali agli enti pubblici si rese a suo tempo necessaria la creazione di una categoria giuridica ad hoc, quella degli enti pubblici economici, appunto.
Inoltre il mobbing discendente è tradizionalmente collegato alla logica aziendale del licenziamento (cfr. Trib. Como 22 maggio 2001, che richiede l’esistenza di un dolo specifico volto all’allontanamento del mobizzato dall’impresa) ora del singolo, divenuto obsoleto, per far spazio a nuove professionalità, ora (ed allora i connotati sono peraltro più facilmente ri-conoscibili) di una collettività di lavoratori, al fine di ridurre le spese per il personale e far lievitare così il valore dell’impresa (è ben noto che allorché imprese quotate in borse procedono a massicci licenziamenti, si assiste ad uno schizzare in alto del valore delle loro azioni).
Ed anche a volere “pensare al mobbing non necessariamente come ad un complesso di condotte immancabilmente preordinate all’allontanamento di un soggetto dal posto di lavoro”, anche a volere ritenere che “potrebbe, invero, fare da sfondo al fenomeno un altro tipo di situazione di fatto e di preordinazione lato sensu datoriale: ad esempio, quella di evitare che la potenziale vittima, nel mantenere od acquisire consapevolezza delle proprie capacità, possa rivendicare scatti di carriera o aumenti retributivi ovvero possa anche progettare di allontanarsi dall’azienda magari per svolgere attività in concorrenza con il datore di lavoro” [27], è comunque difficile ipotizzare che tali fenomeni possano allignare in un rapporto di lavoro con una pubblica amministrazione.
Non soltanto, infatti, nessuna di tali motivazioni può, neppure in astratto, prospettarsi da parte di un’amministrazione pubblica datoriale, ma la stessa organizzazione degli uffici, anche se non sempre demandata alla legge, è pur quasi sempre demandata ad atti comunque normativi (regolamenti, piante organiche, statuti) o ancora alla contrattazione collettiva.
Con ciò non si ignora che la dirigenza politica abbia, a volte, imposto un turn-over alla dirigenza amministrativa, ma allorché ciò è stato attuato si è fatto ricorso non già a comportamenti vessatori, ma al contrario ad incentivi finalizzati appunto a far chiedere il collocamento a riposo anticipato: si pensi, ad esempio, alla c.d. legge sugli ex combattenti (la 377 del 1974) ed al massiccio esodo che essa ha comportato tra i pubblici dipendenti allora meno giovani.
Se, dunque, appare estremamente difficile configurare, almeno quale fenomeno anche potenzialmente diffuso, un mobbing nel pubblico impiego, perché occuparsene, verrebbe da chiedersi?
Gli è che, a contraddire quanto sinora sostenuto, le cause intentate dai pubblici dipendenti che lamentano di essere vittime di mobbing aumentano di giorno in giorno: ordini di servizio, rotazioni, turni di straordinario, determinazione dei periodi feriali, tutto deve quasi essere sottoposto al placet preventivo dei dipendenti, deve essere con loro concordato, ché altrimenti costoro non esitano a citare in giudizio la pubblica amministrazione datoriale lamentando perdita di sonno, distonie neurovegetative, impotentia coeundi, crisi familiari, e chi più ne ha più ne metta.
Come spiegare, allora, tale contraddizione, come conciliare la teorica inconfigurabilità del fenomeno con il concreto moltiplicarsi di richieste risarcitorie da mobbing?
Una prima considerazione è che la richiesta di risarcimento da mobbing sta diventando quello che nell’infortuinistica stradale è il c.d. colpo di frusta.
Si tratta di un danno del tutto indimostrabile, circostanza che costringe le assicurazioni a fare buon viso a cattivo gioco, e che pertanto viene risarcito “a semplice richiesta”, verrebbe da dire, in maniera quasi forfettaria su tutto il territorio nazionale (ed il cui costo, verrebbe da aggiungere, viene spalmato su tutta la collettività mediante l’innalzamento dei premi assicurativi).
E poiché è vero che il danno da mobbing va dimostrato, ma è anche vero che il danno esistenziale (nel quale il danno da mobbing viene in buona parte – quella non coincidente col danno biologico - a confluire) in quanto a dimostrabilità è anch’esso, spesso, un colpo di frusta, ne deriva che il pubblico dipendente è ormai indotto dal mercato giuridico, si potrebbe dire, a non lasciarsi scappare la possibilità di invocare il danno da mobbing: una qual sorta di offerta promozionale a chi adisce la via giudiziaria.
Vi è poi un secondo motivo: è la stessa concezione proprietaria del posto di lavoro che si è sviluppata nel pubblico impiego che fa percepire ai dipendenti dolorosamente ogni interferenza nel loro dominio: guai a spostarli da una scrivania ad un’altra, da un ufficio all’altro, guai a mutar loro le mansioni che svolgono (poco importando se anche quelle nuove ineriscano allo stesso livello professionale): paradossalmente, si direbbe in termini di scienza dell’amministrazione, è proprio la lealtà amministrativa dei pubblici dipendenti, il loro attaccamento al lavoro svolto (o comunque al posto ricoperto) che li induce a ribellarsi ad ogni non sollecitata variazione, che percepiscono, si ripete, comunque dolorosamente.
Prima della privatizzazione del rapporto di lavoro, si è detto, il pubblico dipendente tutelava tale concezione proprietaria del posto di lavoro non esitando a far ricorso al giudice amministrativo, che poteva, attraverso l’esame dell’eccesso di potere, sconfinare quasi nel merito delle scelte della P.A. che, come si è detto, era stato giudice abilmente accorto nel distinguere tra comportamenti datoriali motivati da autentiche finalità organizzative e provvedimenti vessatori.
Ma dopo, come rimediare all’arretramento di tutela?
Ecco dunque che la richiesta di risarcimento da mobbing viene oggi ad essere percepita ed utilizzata dal dipendente pubblico quale una sorta di surroga del risarcimento in forma specifica che gli era stato fino ad allora assicurato dal giudice amministrativo.
Sennonché, poiché la storia si ripete, ma la seconda volta ha spesso coloriture farsesche, è avvenuto che poiché scopo non ultimo della privatizzazione è stato, nell’ottica dell’ottimizzazione dei risultati, la introduzione, a volte anche per via legislativa, del principio della rotazione dei pubblici dipendenti, (e quindi dell’obbligatorietà del loro ruotare) ne è derivato che costoro, al fine di rafforzare la loro esistenziale pretesa all’hic manebimus optime, hanno comunque tentato di contrastare l’esercizio del ius variandi datoriale proprio lamentando danni biologici ed esistenziali, e finendo così per chiamare il giudice del lavoro ad esercitare, per verificare l’esistenza o meno del mobbing, quell’esame sui motivi degli atti datoriali un tempo riservato al giudice amministrativo, in nient’altro a ben vedere tale esame sostanziandosi se non in una valutazione dell’eccesso di potere degli atti assunti lesivi, dato che anche “comportamenti formalmente legittimi… per il modo della loro estrinsecazione hanno un effetto deleterio nei comportamenti della vittima” [28].
Inoltre, vi è forse anche un terzo motivo.
Poiché, anche dopo la privatizzazione i pubblici dipendenti sono rimasti praticamente illicenziabili, tant’è che non risulta che siano mai stati costretti (tranne forse qualche sporadico caso) a far ricorso alle dimissioni per contrasti con la dirigenza (ancor oggi sono convinti che il posto di lavoro è loro, e che per contro è la dirigenza politica ad essere transeunte), non può escludersi che il ricorso al giudice per richiedere un risarcimento del danno da mobbing, o anche soltanto la minaccia di andare in giudizio, possa essere stata usata nell’ambito dell’impiego pubblico (così come d’altronde nel rapporto di lavoro privato) come arma per ottenere ciò che altrimenti sarebbe difficilmente, o anche soltanto più difficilmente, raggiungibile: “false accuse di mobbing possono trasformarsi a loro volta in un temibile strumento di mobbing” [29].
Ed infine, comunque, alla base del moltiplicarsi del fenomeno mobbing nel pubblico impiego è da ritrovare, da un lato, si ripete, la perdita della tutela che al pubblico dipendente derivava dalla amministrativizzazione del rapporto, e quindi della perdita della tutela che gli dava il giudice amministrativo, dall’altro una duplice, più generale tendenza, quella di riconoscere sempre più facilmente ipotesi di danno biologico, quasi che ad ogni inadempimento contrattuale debba, di necessità conseguire una somatizzazione nel debitore (come a dire, parafrasando Maine, dalla protezione del contratto alla protezione dello status … di umana fragilità del contraente), e quella, attraverso l’invenzione del danno esistenziale, della volontà del giudice di sentirsi strumento ed addirittura autore di una giustizia trascendente (trascendente per lo meno la disciplina codicistica), capace di riparare ogni torto parametrando l’infelicità quotidiana (ma soltanto quella di chi a lui si rivolge) con una sola a lui conosciuta felicità esistenziale [30], attraverso una operazione più magica che razionale, essendo proprio infatti delle civiltà primitive il volere comunque trovare e punire un responsabile di ogni umana sofferenza, si trattasse anche di un animale o di una cosa, che, trascinati in giudizio, venivano giustiziati forse soltanto perché non avevano un patrimonio col quale rispondere [31].
IV) Nel presentare un recente convegno sul tema “responsabilità civile e mercato finanziario”, Roppo, con saggia ironia, ricordava che “il fatto che nella Costituzione degli Stati Uniti d’America sia inscritto il “diritto” degli uomini alla (ricerca della) felicità non autorizza neppure il più fervente adepto nostrano dell’American tort law a pensare che qualunque lesione di quel “diritto” generi pretese immediatamente azionabili in giudizio; che se uno è infelice possa automaticamente pretendere – ex art. 2043 c.c. – che qualcun altro lo risarcisca della sua infelicità” [32].
E concludeva, con riferimento al tema di quel convegno, che “c’è spazio per l’operare della responsabilità civile di fronte a molte vicende del mercato finanziario. Ma per identificare correttamente questo spazio, bisogna non adagiarsi meccanicamente su un pregiudizio: il pregiudizio per cui se un risparmiatore-investitore perde denaro perché i suoi investimenti nel risparmio gestito vanno male, egli abbia sempre e comunque, per indiscutibile automatismo, il diritto di recuperarne il valore; e che l’unico problema sia individuare contro chi può agire per recuperarlo”.
V) Tornando al tema che ci occupa, a fronte di tali nuove frontiere della tutela dei lavoratori, a fronte di tali nuove protezioni contro la quotidiana dose di piccole e di grandi infelicità che la vita propina a tutti, e contro le quali nessun Principe è per sempre felice, nessun figlio di Re orientale è troppo a lungo protetto (bastando una rapida sortita dalla conclusa reggia a ri-conoscere il dolore, la vecchiaia, la malattia, la morte) il pubblicista deve arrestare la propria indagine e lasciare il campo o ai civilisti o ai sociologi.
Può soltanto, quasi un sussulto alla memoria, ricordarsi dell’homo homini lupus di hobbesiana memoria, e per contro del mito del buon selvaggio, che proprio perché per definizione buono poteva stringere qualunque scellerato patto sociale e imporre qualunque sanguinaria politica nel nome della volontà generale.
Può soltanto tentare di ricordare a chi vuole proteggere da ogni possibile aggressione l’inesistente diritto alla felicità, protezione da perseguire nel nome di una natura umana ontologicamente buona, che fa apparire ogni supplizio un tentativo di risveglio, di riconduzione ad un tempo di mitica età dell’oro, di pace edenica, che proprio in nome del richiamo alla purezza delle origini (l’angelo caduto) si sono giustificati gli auto-da-fè, e che Rousseau è stato il padre di ogni moderno regime autoritario, severo e virtuoso, regimi tutti che hanno perseguito ordini sociali assoluti, logici, universalmente validi, nei quali comunque è assolutamente sensato tentare di non vivere.
Per contro, è soltanto nel pessimismo hobbesiano, nella sua lucida e disincantata accettazione dell’umana inaffidabilità che si ritrovano le basi delle democrazie occidentali.
Regimi sicuramente cattivi, ma pur sempre i migliori tra tutti quelli sinora conosciuti.
(*) Straordinario di istituzioni di diritto pubblico nell’Università di Palermo.
(1) Sul punto cfr. Guido Corso, Rapporto di lavoro privato e impiego pubblico: la legislazione comune, in Riv. trim. di dir. e proc. civ. 1974, 772 ss., che già alcuni decenni fa osservava che “la disciplina tende verso l’unità quando ha per scopo la tutela della personalità psicofisica del lavoratore, tutela alla quale è indifferente il rapporto in cui tale persona è implicata (legislazione antinfortunistica, assicurazioni sociali, tutela del lavoro minorile e femminile, tutela delle lavoratrici madri, riposi settimanali e festività)”.
(2) Secondo la maggior parte degli autori, infatti, perché si possa parlare di mobbing sarebbe in ogni caso indispensabile che la condotta (o la serie di condotte) prosegua e/o si evolva “in un congruo arco temporale di alcune settimane o mesi” (AMATO, CASCIANO, LAZZERONI, LOFFREDO, Il mobbing. Aspetti lavoristici: nozione, responsabilità, tutela, Milano 2002. In particolare, si è così richiesto una serie di “atti perturbanti frequenti e duraturi – cioè – continui teleologicamente orientati a recare nocumento o molestia ed a determinare direttamente o indirettamente una estromissione dell’interessato dal contesto organizzativo, quand’anche singolarmente considerati siano del tutto leciti o indifferenti per il diritto” (A.VISCOMI, Il mobbing: alcune questioni su fattispecie ed effetti, in Lavoro e Diritto 2001, 45 ss.) e si è affermato che la definizione di mobbing “esclude dal suo campo i ‘conflitti temporanei’” sicché “la distinzione tra ‘conflitto’ sul lavoro e mobbing non consiste su ‘ciò’ che viene inflitto alla vittima e sul ‘come’ viene inflitto, ma piuttosto sulla ‘frequenza’ e ‘durata’ di qualsivoglia trattamento vessatorio venga inflitto”. (M. Meucci introduzione a A.A.V.V., Mobbing, Vessazioni sul lavoro, Milano 2000) Contra G. PERA, Angherie e inurbanità negli ambienti di lavoro, in Riv. it. dir. lav. 2001, 291 ss.
[3] In letteratura vanno per la maggiore due modelli procedimentali, verrebbe da chiamarli, di mobbing. Il primo è stato elaborato da H. LEYMANN, The definition of mobbing at work, The mobbing Encyclopaedia, http://www.leymann.se, che ha suddiviso l’attuarsi del mobbing in quattro fasi (prima fase: conflitto quotidiano - che può rappresentare l’avvio del processo; seconda fase: inizio del mobbing e del terrorismo psicologico vero e proprio; terza fase: errori ed abusi della direzione del personale; quarta fase: esclusione della vittima dalla propria occupazione); il secondo, formulato da H. EGE (Il mobbing, ovvero il terrore psicologico sul posto di lavoro, e la situazione italiana, in Hirigoyen M.F., Molestie morali: la violenza perversa nella famiglia e nel lavoro, Einaudi, Torino) articola il mobbing in sei fasi. Dato per scontato che in ogni uomo esiste una condizione zero che rappresenta quel fisiologico conflitto che ciascuno di noi porta in sé senza farlo “scoppiare” dato che “i problemi personali, l’insicurezza politica, l’instabilità economica, tutti i problemi che vediamo ogni giorno al telegiornale sono delle cose che creano fastidio ed instabilità anche dentro di noi. Dopo la condizione zero c’è la prima fase del mobbing , in cui inizia il conflitto mirato,: qualsiasi problema che abbiamo viene adesso imputato al signor Rossi. Nella condizione zero vengono biasimati un po’ tutti i problemi che si creano, ora invece c’è la vittima designata, il capro espiatorio che ha sempre la colpa di tutto. Nella seconda fase c’è l’inizio del vero e proprio mobbing: adesso creiamo appositamente una posizione difficile per il signor Rossi. Mentre nella prima fase aspettiamo un motivo per dare la colpa al signor Rossi, nella seconda fase il motivo per accusarlo e designarlo viene creato appositamente. Nella terza fase abbiamo i primi problemi psicosomatici della ‘vittima’, i quali possono essere molti: insonnia, inappetenza, apatia, problemi cervicali, muscolari, problemi ai muscoli della schiena, ecc., fino all’ansia e alla depressione. Nella quarta fase cominciano gli abusi da parte dell’amministrazione del personale: il signor Rossi manca sempre più spesso per malattia, quindi anche l’amministrazione del personale si rende conto che c’è un problema. La cosa più semplice è però dare la colpa ad una singola persona piuttosto che a tutte le altre, così il signor Rossi viene ulteriormente bistrattato, ripreso, punito. Prima erano i colleghi ad avercela con lui, ora anche l’azienda è diventata ostile nei suoi confronti: il signor Rossi non capisce più il mondo e crolla. Questo cedimento si esprime di solito con un lungo periodo di malattia e un serio aggravamento del suo stato di salute che culmina nella sesta ed ultima fase del mobbing, ossia l’uscita della vittima dal mondo del lavoro”.
[4] In realtà in letteratura (e medico, e giuridica) sembra che con lo stesso termine “mobbing” si voglia alludere indifferentemente a due fenomeni in realtà tra sé diversi, che hanno in comune soltanto il comportamento vessatorio nei confronti del lavoratore: il primo (il mobbing vero e proprio, verrebbe da dire) diretto all’allontanamento del soggetto preso di mira dal luogo di lavoro; il secondo, diretto viceversa ad ottenere dal lavoratore comportamenti che esulano dal sinallagma. Soltanto in tale ottica per così dire unitaria, infatti, può assimilarsi al mobbing vero e proprio il c.d. sexual harassment, ma non è forse superfluo precisare come tali due fenomeni, anche se a volte trattati in maniera uniforme in sede normativa, siano in realtà ben differenti: soltanto in caso di insuccesso il sexual harassment, infatti, viene a trasformarsi in mobbing.
[5] Sul punto, comunque, già Giannini in tempi ormai lontani, osservava che “è ormai molto difficile dire quale sia la differenza tra i due tipi di rapporto” (M.S. GIANNINI, Impiego pubblico (profili storici e teorici), in Enc. dir..
[6] La questione, a lungo dibattuta, sulla giurisdizione in tema di controversia relativa a concorsi interni o a procedure di commozione nei rapporti di impiego pubblico privatizzato è stata di recente risolta a favore di un Giudice amministrativo, con brusco revirement dalle SS.UU. Civili della Corte di Cassazione con sentenza del 15 ottobre 2003 n. 15403 in http://www.lexitalia.it, che hanno puntualmente ricordato per “rimeditare” il proprio indirizzo giurisprudenziale, “le sentenze della Corte costituzionale che si sono succedute nel tempo” e che hanno “in particolare precisato che il passaggio ad una fascia funzionale superiore costituisce l’accesso ad un nuovo posto di lavoro e che la selezione, alla stregua di qualsiasi altro strumento di reclutamento, deve rimanere soggetta alla regola del pubblico concorso (v., fra le tante le sentenze 320/97 e 314/94)”. Precedentemente infatti le SS.UU. avevano “affermato che la riserva in via residuale alla giurisdizione amministrativa delle controversie in materia di impiego pubblico c.d. privatizzato concerne esclusivamente le procedure concorsuali strumentali alla costituzione del rapporto di lavoro e non riguarda i casi in cui il concorso sia diretto non già ad assumere, ma a promuovere il personale già assunto, dal momento che il legislatore ha inteso attribuire al Giudice ordinario la giurisdizione su tutte le controversie inerenti ad ogni fase del rapporto di lavoro, dalla sua instaurazione fino all’estinzione, compresa ogni fase intermedia relativa a qualsiasi vicenda modificativa, anche se finalizzata alla progressione in carriera e realizzata attraverso una selezione di tipo concorsuale (così, testualmente, v. la sentenza 2954/02 in motivazione; v. nello stesso, in precedenza, le sentenze 128/01, 7859/01, 15602/01 e successivamente le ordinanze 2514/02 e 9334/02).
[7] Corte cost., 16 maggio 2002, n. 372.
8 Per una ricostruzione della vicenda nei termini, direbbero i postannalisti, di mentalità, specie, con riguardo al collegamento pubblici poteri – teoria organica – statualità del diritto – principio di legalità cfr. S. AGRIFOGLIO; L. ORLANDO, Teoria organica e Stato apparato, Palermo 1979, 35 ss..
[9] Corte cost. 4 gennaio 1999 n. 1.
[10] Sul potere burocratico la bibliografia è vastissima. Basterà qui ricordare che dal punto di vista della scienza dell’amministrazione (rispetto alla quale la dicotomia pubblico-privato del rapporto di lavoro ha sempre assunto una valenza più sociologica che funzionale) il potere burocratico veniva a confondersi col potere tecnocratico. A tal proposito non è forse fuori luogo notare come sino a pochi decenni fa la teorizzazione del potere tecnocratico quale potere del futuro fosse sembrato un ballon d’essai (sul punto, R. MEYNTZ, Sociologia dell’amministrazione pubblica, Bologna, 1982, 93. Giova riportare testualmente il pensiero dell’autore – ricordando che la prima edizione tedesca è del 1978 – “ci si può chiedere se alla precedente tipologia non possa essere aggiunta una quarta categoria, quella dell’amministrazione tecnocratica. L’autonomia dell’amministrazione, in questo caso, sarebbe il risultato del fatto che è la sola ad avere le conoscenze per risolvere i problemi, per così dire un condizionamento oggettivo istituzionalizzato. Il ruolo giocato dall’Amministrazione nella elaborazione e nella realizzazione delle decisioni politiche deriverebbe dalle sue conoscenze tecniche, senza essere motivato dall’interesse suo proprio né da quello di un determinato gruppo sociale. Questa utopia tecnocratica veniva presa seriamente in considerazione sino a qualche tempo fa. Oggi, però viene generalmente riconosciuta come illusoria. Essa si fonda sulla falsa premessa che, ad un determinato livello dello sviluppo scientifico e tecnico, la funzione politica di decisione dei fini sarebbe superflua, perché le questioni di valore sarebbero sostituite da mere questioni oggettive. Un’amministrazione, che non solo si sottragga al controllo politico ma che renda completamente superfluo il settore politico con le sue specifiche funzioni, rimane un’utopia e non deve quindi essere considerata come una seria possibilità”). Cfr. però S. AGRIFOGLIO, Le Sezioni Unite tra vecchio e nuovo diritto pubblico: dall’interesse legittimo alle obbligazioni senza prestazione, in Europa e diritto privato, 2000 che ricorda come proprio con l’U.E. si stia assistendo ad una sovra-normazione adottata da quel potere tecnologico che era sembrato un’utopia nata e morta appena vent’anni fa.
11 Analogamente, ad esempio, a ciò che avviene in tema di sensemaking, che è utile soltanto nella misura in cui lo sono i suoi esemplari più recenti. Il modo in cui essi sono incorniciati, discussi e analizzati è quello a cui può contribuire. In altri termini, quello che è stato pensato e appreso e trasmesso dai predecessori è noto in larga misura per l’influenza che esercita su questi dibattiti attuali. Il problema è che “…se si affrontano i dibattiti attuali cercando di lavorare all’indietro per scoprire una progressione storica che porti fino a essi, il percorso risentirà delle seduzioni esercitate dalle distorsioni a posteriori e dall’occultamento del ruolo potente del caso nel determinare i risultati”; cosicché – come è stato affermato – oltre a profili delle “regolarità” legali, vi è altresì un elemento psicologico, una ratio discriminatoria. Tant’è che in termini meramente comportamentali è stato altresì affermato che “non è certo sufficiente disporre di un apparato gerarchico per disciplinare la convivenza “nell’area” lavorativa, perché la gerarchia il comando il controllo non proteggano certo il lavoratore dall’alienazione del contesto lavorativo di riferimento…..”. (BRANDS, S. Francisco 1992; sul punto, utili gli orientamenti di Eick, Managerial thought in the contest of action, 1983, San Francisco; WEBER, The theory of Social and Economic Organitation, Glencoe, 1974; White, Justice as translation, Chicago, 1990).
[12] È noto che il termine mobbing nasce proprio nell’ambito dell’etologia, ed è dovuto a Lorenz.
[13] Sul punto R. Mayntz, Sociologia dell’amministrazione pubblica, Bologna 1982, 84.
[14] S.M. Lipset, Agrarian socialism. A study in Political Socilogy, Ottawa 1950. Ricorda il comportamento R. W.Scott, Le organizzazioni, Bologna 1994, 93 ss.; R. Meerynton “Il modello di organizzazione è nelle sue linee generali simile a quello di Michels: per aumentare la loro sicurezza, i membri dell’organizzazione modificano gli obiettivi non facilmente accettabili in un ambiente ostile. Come osserva Perrow ‘il messaggio principale che vi si coglie è che l’organizzazione rinuncia ai propri scopi istituzionali pur di riuscire a sopravvivere e a svilupparsi’”… Anche nello Stato canadese dello Saskatchewan dopo che, nel 1945, il governo passò dai liberalconservatori ai socialisti agrari il comportamento dell’amministrazione. Il nuovo partito di governo aveva promesso in sede elettorale di trasformare lo Stato – sino ad allora gestito secondo il principio del laissez–faire – in un welfare State ad economia pianificata, cosa che implicava notevoli conseguenze per i compiti dell’amministrazione pubblica. I funzionari, per la maggior parte simpatizzanti del partito conservatore, non si opposero, per la verità, apertamente a questo programma, radicalmente socialista, ma lo svuotarono, continuando a comportarsi come prima, senza cambiare le proprie abitudini. Si opposero con successo a procedure amministrative nuove e non ancora sperimentate, sostenendo che risultava tecnicamente difficile o addirittura impossibile realizzarle in pratica – un argomento nei confronti del quale i ministri, che erano dei politici e non degli amministratori di professione, rimanevano impotenti. Lipset spiega che i ministri del nuovo governo erano, nell’esercizio delle loro nuove funzioni, solo dei principianti, mentre i burocrati alle loro dipendenze avevano un’esperienza che arrivava anche a vent’anni, così che i ministri non erano assolutamente in grado di fare nulla senza il loro aiuto. I burocrati persuasero i loro ministri che certe riforme avrebbero suscitato una opposizione troppo larga, cosicché si finì con l’abbandonare quei programmi, cosa che uno degli intervistati descrisse come stopping hare-brained radical schemes. Là dove tutto questo non riusciva, i burocrati ricorrevano alla discrezionalità loro garantita nell’applicazione delle nuove leggi e delle nuove direttive, per interpretarle in modo contrastante con volontà del governo o semplicemente per ignorarle”.
[15] S. CASSESE, La formazione dello Stato amministrativo, Bologna 1974.
[16] P. VIRGA, Il provvedimento amministrativo, Milano, 1970.
[17] P. VIRGA, Contratto di diritto pubblico, in Enc. diritto, 1961.
[18] Per usare la felice locuzione di A.M. SANDULLI, Il giudizio davanti al Consiglio di Stato ed ai giudici sottordinati, Napoli, 1963.
19 Un esempio per tutti: abrogato l’art. 5 del T.U. com. e prov. del 1934 che aveva, da parte sua, normativizzato l’istituto di genesi giurisprudenziale del silenzio rigetto, la giurisprudenza trasse il nuovo modello procedimentale per la formazione del silenzio rifiuto dall’art. 25 del D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3 sugli impiegati civili dello Stato. (Così Virga, Diritto amministrativo, atti e ricorsi, Milano 1987, pag. 45; Cons. Stato, Ad. Plen. 10 marzo 1978 n. 10 in Il Cons. Stato, 1978, I, 335).
[20] F. CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, Milano, 2003.
[21] Tribunale di Palermo, sezione controversie di lavoro, ordinanza n. 3773 del 20 maggio 2002.
[22] D. SORACE, Gli “interessi di servizio pubblico” tra obblighi e poteri delle amministrazioni in Foro it, 1988, V, 216.
[23] Le minoranze hanno una credibilità a priori inferiore poiché si presume che abbiano torto, le persone sembrano più motivate a prestare attenzione allo stimolo per valicare l’opinione. Ed allora si giustifica l’ipotesi, tutt’altro che teorica che “lo stesso dirigente eserciti pressione sulla struttura la quale, però, in quanto tale è indifferente rispetto al conseguimento degli obiettivi dati “ (vedi sul punto, in termini organizzativi, Miller J., Living Systems, New York, 1978; Merton Insiders and outsiders: a chopter in the sociology of knowledge, in “American Journal of Sociology” 1972, p. 9 e ss.; Pagonis, Moving Mountains, Cambridge, 1992; Parson, Structura and Pocess in Modern Societes, Glencoe, 1960).
[24] PARKINSON, La legge di Parkinson, (1 + 1 = 3), Milano, 1961.
[25] Impagabili, sul punto, le pagine di F. GAZZONI, Alla ricerca della felicità perduta (psicofavola pantagiuridica sullo psicodanno psicoesistenziale), facilmente ritrovabili in internet.
[26] Tribunale Milano, 20 maggio 2000.
[27] AMATO, CASCIANO, LAZZERONI, LOFFREDO. op. loc. cit.
[28] Trib. Como 22 maggio 2001.
[29] Risoluzione A5 – 0283/2001 del Parlamento europeo, punto 5.
[30] F. GAZZONI, op. loc. c.t. “nella casta dei Decisionisti ero troppo felice e dunque scambiava il normale disagio esistenziale con la depressione e il danno psichico. La loro felicità dipendeva da due fattori fondamentali: innanzitutto, sul piano economico, vantavano il miglior trattamento tra tutti i dipendenti dello Stato, specie considerando che, quando entravano nei ruoli, essi erano, mediamente, di rilevante e deprimente ignoranza e in più restavano tali per lunghissimi anni, se non per sempre; in secondo luogo qualunque idiota, vinto per puro caso il concorso, poteva diventare per anzianità il Supremo dei Decisionisti supremi, sol che l’anagrafe comparativa l’avesse assistito”.
(32) Probabilmente, oggi è “l’equivocità” dei processi organizzativi complessi che alla fine, nell’ambito individuale-personale da luogo a veri e propri atti di rimozione e di accumulazione, indispensabile per generare emozioni positive e “costruttivistiche” (secondo l’approccio strutturale-funzionale). È notorio, infatti, che nello svilupparsi di una relazione – intenzione, gli scenari organizzativi imprimono sempre profili di interdipendenza e di soggezione, che sfociano poi nella dittatorialità del gruppo tecnocratico di impulso e di comando. Sul punto, v. Milgron, Behavioral Study of Obedience , in Journal of Abrarmal and Social Psychology, 1967; Jelznick, Leadership in Administration, New York, 1957; Scwartzman, H.B., The Meeting: Gatheringsin organization and Communities, New York, 1989; Pfeffer, Power and Organizations, Pitman, 1981.
(33) ROPPO, Responsabilità civile e l’anima, in Danno e responsabilità 2002, 102.